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mercoledì 30 aprile 2025

L’azione simbolica della religione: Geertz e i modelli culturali – Lezione #07 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni

 

Lezione numero 07 registrata il 29 novembre 2024

Introduzione logistica e anticipazione dell’uscita didattica

La lezione si apre con un riferimento all’organizzazione dell’incontro successivo, che sarà un’uscita didattica a Torpignattara, quartiere romano ad alta densità religiosa e culturale, scelto per osservare concretamente la diversità religiosa negli spazi urbani. Si farà riferimento in particolare alle presenze cattoliche e islamiche, e si toccheranno anche altre presenze come i bahai. Punto di ritrovo sarà la chiesa dei Santi Marcellino e Pietro, nei pressi della fermata Berardi.


Il saggio di Geertz come snodo epistemologico

La lezione è interamente dedicata a una lettura e commento analitico del celebre saggio di Clifford Geertz, La religione come sistema culturale (1966), considerato una pietra miliare dell’antropologia simbolica. Il testo è analizzato nel suo tentativo di spostare l’interesse delle scienze sociali dalla funzione sociale della religione al suo funzionamento interno, secondo una prospettiva fenomenologica e semiotica.


Oltre Durkheim: critica al funzionalismo riduzionista

Geertz si contrappone a una lettura riduzionista di Émile Durkheim, spesso ridotto a un autore che vede nella religione un mero riflesso delle strutture sociali. Pur riconoscendo che Durkheim assegnava alla religione un ruolo costitutivo del sociale, Geertz mira a fondare un’antropologia che analizzi la religione come azione simbolica autonoma, e non solo come effetto di dinamiche politiche o economiche.


Il cuore del problema: senso comune, significato e religione

Geertz propone un cambio di paradigma: comprendere come la religione funzioni simbolicamente, prima di studiarne le connessioni con altri ambiti. È il passaggio da una spiegazione esterna a una ermeneutica interna, dove l’analisi si concentra sull’esperienza vissuta del significato da parte dei praticanti (approccio emic).

L’esempio dell’orologio – smontarlo per capire il meccanismo, piuttosto che descriverne la funzione – è usato per spiegare questa distinzione epistemologica.


Il simbolo sacro tra ethos e cosmos

Uno dei contributi centrali del saggio è l’idea che i simboli religiosi fungano da interfaccia tra due dimensioni umane fondamentali:

  • Ethos: il giudizio morale ed emotivo sul mondo (ciò che è giusto, bello, desiderabile);
  • Cosmos: la visione razionale e ordinata del mondo (ciò che è, la realtà organizzata).

Il simbolo religioso è ciò che permette di far sembrare naturale il giudizio morale e di rivestire la razionalità di un’aura morale. È questo il "doppio gioco" del simbolo religioso, che naturalizza l’etica e moralizza il sapere.


La definizione di religione

Geertz formula una definizione operativa e articolata di religione (pagina 143):

“Un sistema di simboli che agisce stabilendo profondi, diffusi e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici”.

Tale definizione permette di connettere simboli, emozioni, concetti e motivazioni in una struttura coerente, e consente di considerare l’esperienza religiosa come realisticamente efficace, anche se fondata su entità non empiricamente verificabili.


Simboli, modelli culturali e apprendimento

Geertz approfondisce la nozione di simbolo come segno pubblicamente riconosciuto, dotato di significato condiviso. Quando i simboli si aggregano in configurazioni relativamente stabili, si formano modelli culturali. Questi sono considerati fonti estrinseche di informazione che, come il DNA per gli animali, programmano comportamenti sociali e psicologici negli esseri umani, che non dispongono di istruzioni istintive sufficienti.


Modelli di e modelli per

Una delle distinzioni più rilevanti del saggio è quella tra:

  • Modelli di: descrizioni, teorie, rappresentazioni della realtà (es. mappa, teoria idraulica);
  • Modelli per: istruzioni pratiche, comportamenti appresi (es. costruzione di una diga, comportamento rituale).

La specificità umana risiede nella capacità di far interagire modelli di e per, cioè nel potere di usare rappresentazioni simboliche per guidare l’azione, e viceversa.


L’interiorizzazione simbolica: motivazioni e stati d’animo

Quando un modello culturale viene appreso, esso induce disposizioni incorporate, che Geertz distingue in:

  • Motivazioni: inclinazioni durevoli verso determinati atti o emozioni, con direzione temporale;
  • Stati d’animo: condizioni interiori non dirette verso un fine, ma legate a cause o condizioni esterne.

Queste disposizioni sono prodotti culturali e non puramente psicologici, e agiscono come habitus (nel senso di Pierre Bourdieu), plasmando la percezione, l’emozione e l’azione.


Conclusione: verso un’antropologia del simbolico

Geertz propone un’antropologia che si fondi su una scienza dell’azione simbolica, capace di comprendere i meccanismi con cui gli esseri umani organizzano il senso del mondo. In questo quadro, la religione appare come una forma culturale necessaria, perché offre i dispositivi simbolici attraverso cui gli individui possono rendere sensato e stabile ciò che altrimenti sarebbe disgiunto: la struttura del mondo e la sua valutazione morale.


Prossimi sviluppi

La lezione si conclude con l’annuncio che il punto 3 della definizione (la formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza) sarà analizzato nella lezione successiva, in collegamento con l’idea di trascendenza e con il funzionamento peculiare della religione come sistema culturale complesso.


martedì 29 aprile 2025

Il futuro nel collo di una bottiglia: un manoscritto ritrovato di Umberto Ec[col]o

 Avvertenza filologico-umoristica


Chi si diletta di bibliomania sa che il vero colpo di fortuna non avviene mai in una grande biblioteca, ma in una polverosa bottega d’antiquariato, tra polaroid rotte e spartiti di mazurke dimenticate. Così è stato anche stavolta. Un nostro zelante collaboratore — che preferisce restare anonimo per ragioni di decenza scientifica — ha recentemente rinvenuto, in una cartellina intitolata “Conférences italiennes”, un dattiloscritto firmato semplicemente “U.E.”.

Il manoscritto ritrovato

La grafia, lo stile, la macchina da scrivere (una Olivetti 22, in perfetto stato di semidecomposizione) e soprattutto il contenuto, ci portano a ritenere che si tratti di un frammento inedito di Umberto Eccolo, risalente agli anni Ottanta. Un testo che sembra anticipare con inquietante lucidità il futuro incipiente: il digitale che divora la realtà, la memoria che si affloscia come un soufflé, il corpo umano ridotto a dito che scorre su uno schermo.

Il caso — o forse una sapiente regia del destino — ha voluto che questo manoscritto emergesse proprio nei giorni in cui Il Foglio rilanciava l’articolo di Ross Douthat sul "collo di bottiglia" della modernità: pare quasi che Eccolo, dal suo altrove, abbia voluto rispondere in anticipo, sfidando il nostro ottuso presente con l’arma che conosceva meglio: l’ironia profetica.

Vi invitiamo dunque a leggere questo piccolo testamento apocrifo con spirito serio ma non serioso, ricordando che — come Eccolo non si stancava di ripetere — si può prevedere il futuro solo chi conosce davvero il passato. E che conoscere il passato significa, oggi più che mai, impararlo a memoria, muscolo dopo muscolo, respiro dopo respiro.


Sul futuro stretto come il collo di una bottiglia (inedito apocrifo di Umberto Ec[col]o)

Verrà un tempo in cui l’umanità, invece di incidere sulla pietra il ricordo dei suoi re, affiderà tutto alle sabbie mobili di pixel inconsistenti. Un tempo in cui i figli degli uomini non sapranno più recitare a memoria né le capitali dell’Asia né le poesie dell'infanzia, ma solo canzoncine smozzicate e il numero dei follower guadagnati nottetempo.

Le grandi narrazioni si dissolveranno nel turbinio di storie da quindici secondi; i saggi universitari verranno ridotti a didascalie di meme; i filosofi più letti saranno quelli che sapranno condensare l'ontologia in un Reel di 30 secondi.

E sarà un tempo in cui nessuno più si accoppierà, non per scarso ardore di carni, ma perché nessuno saprà più sostenere lo sguardo vivo di un altro essere umano senza l'ansia del filtro.

Le città diverranno teatri vuoti, i teatri diverranno server farm, e i server farm alimenteranno infinite illusioni di compagnia mentre la solitudine crescerà nelle case come muffa negli scantinati.

Gli uomini si illuderanno di vivere più esperienze, ma in realtà avranno viaggiato meno; si vanteranno di "conoscere il mondo", ma non avranno mai preso in braccio un neonato o aiutato un anziano ad attraversare la strada. La vita reale sembrerà un fardello: si preferirà il simulacro comodo, lo scorrimento infinito.

Allora, come in ogni epoca buia, il destino dell’umanità sarà affidato a pochi: i fanatici della vita incarnata, i sovversivi del corpo. Coloro che avranno saputo, come si faceva un tempo, imparare a memoria: i nomi dei re sassoni, le capitali delle isole dimenticate, le poesie di Pascoli, i versetti di Isaia.

Imparare by heart, con il cuore, ma soprattutto con il corpo: forgiando neuroni, tendini, e sinapsi come si forgiavano una volta le spade.

Solo chi saprà far scorrere la conoscenza attraverso la chimica viva dei muscoli e del respiro, e non attraverso il languore virtuale del polpastrello, riuscirà a sopravvivere all'imbuto dell’estinzione.

Poiché la cultura non è nelle cose apprese, ma nel modo in cui il corpo intero le custodisce, come il viandante che trasporta sulla schiena l'ultima scintilla del fuoco umano.


Nota marginale, in penna rossa:

"Imparare è un atto muscolare. Chi non fatica, chi non suda per sapere, non saprà mai nulla."

lunedì 28 aprile 2025

Maschio Sigma, ovvero la tentazione di essere Dio senza creazione

Lo conoscete il maschio sigma, no? Quello che non vuole essere alfa, perché è troppo raffinato per le gare di branco. Quello che sta per conto suo, enigmatico e magnetico come un buco nero. Quello che vi dice: io non ho bisogno di nessuno. E non lo dice con rabbia, eh — lo dice con una calma glaciale, tipica di chi ha appena finito di leggere Nietzsche in originale, con lo sguardo perso nel vuoto mentre si accende l’ennesima sigaretta immaginaria.

Il maschio sigma è una creatura figlia dell’algoritmo e del risentimento. Una sorta di superuomo da discount, liscio, sradicato, impermeabile alle relazioni ma assetato di performance. Un Dorian Gray delle relazioni affettive, ma senza neppure il quadro a ricordargli che, nel frattempo, sta morendo di sterilità emotiva.

Ora, siccome ogni idealtipo ha il suo controcanto, mi è
venuta voglia di metterlo a confronto con una figura apparentemente antitetica: il padre cristiano, modello neotomista, relazionale, fondato non sull’autonomia ma sulla dipendenza reciproca, sulla generatività e sulla responsabilità. Il padre che si piega, non per debolezza, ma per amore. Il padre che sa di non bastarsi.

E qui inizia il gioco.

Il sigma si definisce per separazione. Sta fuori dal gioco perché teme che il gioco lo contamini. Vive in una sorta di castità affettiva, un ascetismo narcisistico che però non sfocia mai in una vera rinuncia: è solo una protezione. Il suo motto? “Meglio solo che umano”.

Il padre cristiano, invece, si definisce per relazione. Secondo l’antropologia tomista, l’essere è sempre essere-in-relazione. Non c’è identità senza alterità. E infatti, il padre è tale solo nella misura in cui esiste un figlio. Non si difende dalla relazione: ci si espone.

Il sigma agisce per strategia. Non ama, seduce. Non costruisce, ottimizza. Si muove nel mondo come un algoritmo ben addestrato: risultato massimo con la minima esposizione emotiva. L’agire morale? Una reliquia da museo.

Il padre cristiano agisce per virtù. Fa scelte che non massimizzano il ritorno, ma rendono il mondo più abitabile per l’altro. Cura, ascolta, accompagna. Fa cose inutili, lentissime, faticose — ma giuste. Come insegnare a un figlio a chiedere scusa.

Il maschio sigma rifiuta il potere oppure lo esercita in modo totalitario. Il potere lo intriga solo finché può esserne immune, come il Joker con la laurea in business administration.

Il padre cristiano prende sul serio il potere come carico, come servizio. È potente perché è responsabile, non perché domina. Insegna a portare pesi, non a schivarli. Non è "libero", è liberante. Come dice il Vangelo, “Chi vuole essere il primo tra voi, sia vostro servo” (Mt 20,26).

Il sigma vive in un eterno presente performativo. Il passato è debolezza, il futuro è ansia. Solo l’istante ha valore, purché sia instagrammabile.

Il padre cristiano pensa in termini di eredità. Non nel senso dei beni, ma dei segni lasciati attraverso le generazioni. Il padre è un ponte tra le anime, un custode della memoria che prepara la via a chi verrà. Sa che la vita non si realizza nel picco, ma nel solco.

Il sigma si definisce per esclusione: non è beta, non è alfa, non è follower, non è simpatico. È un’assenza che si fa stile. Ma a forza di non essere niente, rischia di non essere nessuno.

Il padre cristiano si definisce per apertura: verso la donna, verso i figli, verso la comunità. Maschio non come categoria di potere, ma come figura della cura e del dono. Capace di tenerezza senza perdere forza. Capace di sacrificio senza farsi vittima.

Il maschio sigma è l’ennesima figura dell’uomo disincantato, un Narciso che ha smesso di guardarsi allo specchio solo perché ha imparato a farsi i selfie. Ma alla lunga, la sua forza non convince, la sua distanza non affascina, la sua neutralità affettiva non seduce.

Il padre cristiano — con tutte le sue fragilità — è invece una figura pienamente adulta. Uno che non ha paura di essere ferito, perché sa che solo chi si espone può amare davvero. Uno che non si costruisce una identità, ma la riceve nel dono e nel compito.

Chi è più maschio, tra i due? Chi si fa padrone del proprio tempo, o chi lo trasforma in una promessa per altri?

Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, “la libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nell’essere ciò che si deve”. E per essere ciò che si deve, a volte, bisogna avere il coraggio di mettere al mondo qualcuno che ci guarderà per sempre.

 

domenica 27 aprile 2025

Islam, cittadinanza e conflitto: la questione islamica in Italia tra diritto, politica e società civile – Lezione #06 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni

Lezione numero 06 registrata il 27 novembre 2024

 

Islam, cittadinanza e conflitto: la questione islamica in Italia tra diritto, politica e società civile 

Introduzione alla lezione e presentazione dell'ospite

La sesta lezione del Modulo B di Antropologia delle religioni (27 novembre 2024) ha ospitato Francesco Tieri, musulmano italiano e attivista noto per il suo impegno nella difesa della libertà religiosa dei musulmani in Italia. Il contesto dell'incontro parte dalla conoscenza personale tra Pietro Vereni e Tieri, nata nel periodo di chiusura dei luoghi di culto islamici a Roma (2016-2017), e consolidatasi attraverso collaborazioni e momenti anche conflittuali.

Biografia personale di Francesco Tieri

Tieri racconta il suo percorso di vita e di studi, sottolineando la sua formazione atipica: studi in ingegneria informatica e un master in Sonic Arts presso Tor Vergata, seguito da un altro master in diritto e libertà religiosa presso un istituto legato alla Chiesa avventista. Il libro che presenta nasce proprio dalla sua tesi in quest'ultimo master, ampliata in una seconda edizione.

La libertà religiosa come "madre di tutte le libertà"

Tieri introduce il concetto di libertà religiosa come fondamento dei diritti civili, riprendendo definizioni accademiche che la descrivono come "la madre di tutte le libertà". La disciplina giuridica di riferimento è il diritto ecclesiastico (in Italia) o Law and Religion (nei paesi anglosassoni).

Il conflitto invisibile: "guerra alle moschee in assenza di terrorismo"

La tesi principale di Tieri è che in Italia esiste una guerra strisciante contro l'islam, non giustificata da atti di terrorismo, ma fondata su pregiudizi storici e su una generale riluttanza verso il nuovo pluralismo religioso (concetto attribuito a Renzo Pace e Paolo Naso). In particolare, viene denunciato un pregiudizio ostativo specificamente rivolto ai musulmani, distinto da una più generale mancanza di ospitalità verso tutte le religioni non tradizionali.

Il concetto di "questione islamica"

Tieri propone di definire questa situazione come una vera e propria "questione islamica", richiamandosi per analogia alla "questione romana" dell'Ottocento: un conflitto di potere e spazio, non (solo) di natura religiosa, che riguarda il riconoscimento pubblico e istituzionale della presenza musulmana.

Analisi del conflitto: attori e dinamiche

Attraverso una rappresentazione grafica, Tieri identifica i principali attori del conflitto:

  • Musulmani, che adottano uno stile elusivo (tipico di chi cerca di non esasperare il conflitto).
  • Centrodestra, visto come avversario esplicito.
  • Centrosinistra, accusato di un sostegno ambiguo o debole, spesso limitato a gesti simbolici ("like" sui social) senza reale impegno politico.
  • Società civile, descritta come rumorosa, orientata mediaticamente verso il centrosinistra, ma incapace di sostenere attivamente i musulmani quando si espongono.

Commenti critici di Pietro Vereni

Pietro Vereni interviene criticamente su vari punti:

  • Contesta l'identificazione troppo immediata della società civile con la rappresentazione mediatica di sinistra, sottolineando che l'effettiva maggioranza della società italiana si riconosce oggi in valori di centrodestra.
  • Richiama l'importanza di evitare rappresentazioni omogenee delle culture ("la cultura condivisa"), ricordando che la realtà sociale è frastagliata, conflittuale, e non compatta.
  • Solleva la questione della strategia vittimaria nella costruzione dell'identità pubblica contemporanea, ipotizzando che anche i musulmani italiani possano oggi tendere a presentarsi come vittime per ottenere visibilità e diritti, più che come soggetti politici attivi.

Discussione su elusività e cittadinanza etica

Tieri ribadisce che la strategia elusiva dei musulmani italiani è una necessità, non una scelta voluta, data la marginalizzazione e i bisogni primari non soddisfatti di molti membri della comunità. Si distingue tra:

  • Stile competitivo (esempio: musulmani in Inghilterra o Francia).
  • Stile elusivo (musulmani in Italia, specie quelli di origine asiatica).

Il concetto di cittadinanza etica viene evocato: il tentativo delle minoranze di "non dare fastidio", accettando discriminazioni senza rivendicare apertamente i propri diritti.

L'ordinamento giuridico italiano e la libertà religiosa

Viene spiegata in dettaglio la specificità italiana:

  • Il personalismo giuridico della Costituzione tutela la persona e non le istituzioni religiose.
  • Tuttavia, per via della questione romana e della presenza del Concordato, si è sviluppato un pluralismo giuridico in cui la Chiesa cattolica e le confessioni con intese godono di uno status privilegiato.
  • L’articolo 19 della Costituzione garantisce il diritto di culto pubblico e privato senza discriminazioni, ma nella prassi questo diritto viene violato.

Tieri sottolinea come la mancata visibilità dei luoghi di culto musulmani sia frutto di una violazione sistematica, che genera mimetismo religioso (concetto ripreso da Silvio Ferrari).

Il caso Monfalcone: costruzione politica della "guerra alle moschee"

Viene discusso il caso di Monfalcone:

  • La sindaca Anna Maria Cisint (centrodestra) ha tentato di chiudere luoghi di culto musulmani e di vietare il bagno vestiti in spiaggia, senza successo sul piano giuridico ma con grande successo elettorale.
  • Il caso dimostra la strumentalizzazione politica della questione islamica e la distanza tra rappresentazione mediatica e risultati effettivi.

Proposte di azione: contenzioso strategico

Tieri conclude proponendo una strategia di conflitto nonviolento:

  • Studiare approfonditamente il diritto.
  • Riconoscere il conflitto in atto.
  • Agire il conflitto attraverso il contenzioso strategico, sull'esempio dei Testimoni di Geova, usando i tribunali per affermare i diritti senza passare per il canale (chiuso) delle intese.

Considerazioni finali

La lezione si chiude con il riconoscimento reciproco del valore del dialogo, nonostante alcune divergenze analitiche. Viene proposta l'idea di organizzare un secondo incontro per approfondire il tema dell'esperienza personale di essere musulmano e italiano, centrando l'attenzione più sul vissuto che sull'analisi politica o giuridica.

 

venerdì 25 aprile 2025

Pubblicare o insegnare? Una domanda che resta aperta


Ho letto con grande interesse un lungo articolo di
Jonathan Zimmerman, pubblicato su Washington Monthly, intitolato Why Professors Can’t Teach. L'autore, docente alla University of Pennsylvania, partecipa a un convegno nazionale sul tema dell'insegnamento universitario negli Stati Uniti e ne approfitta per fare il punto su una questione antica: perché, nelle università, si continua a premiare soprattutto la ricerca e non la qualità della didattica?

La risposta che Zimmerman propone è articolata ma molto chiara: perché non esistono incentivi reali, e perché tutti gli strumenti che abbiamo provato finora – premi, centri di supporto, corsi di formazionenon hanno scalfito davvero il meccanismo che regola la reputazione e la carriera accademica. La carriera si costruisce sui titoli, sui libri pubblicati, sui progetti di ricerca finanziati, non sulla qualità dell'insegnamento. Anzi, chi dedica troppo tempo alla didattica finisce spesso con l’essere guardato con sospetto: "bravo professore, sì, ma cosa ha pubblicato?"

Ora, questo è il quadro americano. Ma leggendo Zimmerman, non ho potuto fare a meno di pensare al nostro contesto italiano, dove le cose – se possibile – sono ancora più intricate. Negli USA, esiste almeno una distinzione istituzionale tra research universities e teaching colleges, e questa distinzione orienta le aspettative, le carriere, le valutazioni. Da noi, invece, la gerarchia si riproduce all’interno di ogni singolo ateneo, dove la reputazione e il prestigio accademico sono misurati quasi esclusivamente sulla base della produzione scientifica. L’insegnamento – anche quando è svolto con cura, passione e buoni risultatiresta ai margini.

Questo non è solo un problema per chi insegna, ma anche per chi studia. Perché se l’università è (anche) un luogo di formazione, dovremmo preoccuparci di come si insegna, e non solo di cosa si pubblica. Se uno studente riesce a sostenere un esame nei tempi, con buoni risultati, sentendosi seguito e accompagnato, questo non è un sottoprodotto fortuito: è un esito desiderabile e dovrebbe essere riconosciuto come tale. Eppure, non incide praticamente in alcun modo sulle valutazioni di carriera, né – va detto – sulla considerazione tra colleghi.

Zimmerman ricorda, con garbo e ironia, che ricevere un premio per l’insegnamento è meno utile, in termini di carriera, che pubblicare una monografia. E anche da noi, nei nostri dipartimenti, si direbbe che il valore dell’insegnamento sia ancora legato più a un dovere d’ufficio che a un terreno di eccellenza possibile.

Non si tratta di opporsi alla ricerca o di feticizzare la didattica. Si tratta di capire se vogliamo davvero, come sistema universitario, investire in quello che Zimmerman chiama the amateur hour: un’ora che potrebbe diventare “professionale”, se solo decidessimo che vale la pena farlo.

 

giovedì 24 aprile 2025

Il religioso come linguaggio del mondo: tra mito, rito e segno – Lezione #05 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni

 

Lezione numero 05 registrata il 25 novembre 2024

Introduzione e programma

La lezione si apre con alcune comunicazioni logistiche: l’annuncio della visita di Francesco Tieri, autore di un libro sulle moschee in Italia, e la proposta di un’uscita didattica a Torpignattara per esplorare la diversità religiosa romana. Si introduce poi il programma delle ultime lezioni, che includeranno la lettura del libro di Sahlins e una riflessione finale sulla ritualità nella modernità.

Il saggio di Clifford Geertz e la svolta simbolica

La lezione vuole condurre a quel che vedremo più avanti, cioè il celebre saggio di Clifford Geertz del 1966, La religione come sistema culturale, considerato cruciale per comprendere la svolta semiotica nell'antropologia religiosa. Geertz propone di non analizzare la religione in termini funzionali (come espressione della politica, dell’economia o della psicologia), ma di considerarla una sfera simbolica autonoma. Egli tenta di riconoscere nel religioso una forma di pensiero e un sistema culturale dotato di proprie regole, non riducibile ad altri domini.

Talal Asad, Foucault e la critica al simbolico

Il pensiero di Geertz viene messo a confronto con quello di Talal Asad, che ne ha criticato l’impostazione ritenendola ancora etnocentrica. Asad, influenzato da Foucault, rappresenta la visione costruttivista per cui il significato non deriva mai dalle cose, ma dal potere che impone i segni. Il costruttivismo radicale, rappresentato anche da Judith Butler in Gender Trouble, viene criticato nella lezione per aver rimosso il legame tra segni, corpi e realtà materiale.

Un triangolo irriducibile: mondo, potere e linguaggio

La lezione difende un modello epistemologico fondato su un triangolo irriducibile: mondo, potere, linguaggio. Pur riconoscendo la forza della svolta linguistica, si sottolinea l’errore delle scienze sociali nel cancellare il “mondo”, ovvero la dimensione concreta dell’esperienza, dal campo dell’analisi. L’esempio delle valutazioni estetiche universali (labbra carnose o sottili) serve a mostrare come ogni cultura interpreti differenze reali, attribuendo loro significati diversi.

Religione e narrazione: simboli, miti, riti

Il religioso viene descritto come uno spazio cognitivo e narrativo in cui simboli, miti e riti permettono di costruire significato e ordine nel mondo. I simboli sono oggetti materiali che veicolano concetti culturali; i miti sono storie che mettono in movimento questi simboli; i riti sono gesti che li rendono operativi nella realtà. La religione è così presentata come un “altro livello” della realtà, che articola bisogni cognitivi e morali non riducibili ad altre forme di sapere.

Il mito come pensiero che pensa se stesso

Attraverso Claude Lévi-Strauss, si analizza il mito come una forma di pensiero teorico che non serve a risolvere problemi pratici ma a rendere comprensibili opposizioni fondamentali (vita/morte, natura/cultura). Il mito media l’inconciliabile attraverso la narrazione, come nel caso della iena che si colloca tra le posizioni del leone e della gazzella. Si citano anche Malinowski e Radcliffe-Brown, per i quali il mito giustifica l’ordine sociale o organizza concettualmente il reale.

La struttura narrativa del mito: da Propp a Lévi-Strauss

La lezione richiama Vladimir Propp e la struttura tipica della fiaba, sottolineando la funzione paradigmatica dell’eroe come modello narrativo e sociale. Il mito, come la fiaba, risponde al bisogno umano di storie attraverso cui comprendere il mondo e orientarsi in esso.

Il totemismo come strumento cognitivo

Il totemismo, rivalutato da Lévi-Strauss nel saggio Il totemismo oggi, viene reinterpretato non come una forma arcaica di religione, ma come una macchina simbolica potente per organizzare rapporti tra gruppi umani e il mondo naturale. I totem (come l’aquila o il salmone) sono strumenti per pensare la parentela, il territorio, la circolazione delle donne, e anche le relazioni cosmiche tra cielo, terra e sottosuolo.

Il rito: azione simbolica e performativa

Il rito viene definito come la sequenza di atti che rende


visibile ciò che il mito narra. A differenza del mito, che riconosce lo stato delle cose, il rito vuole trasformarle: alleviare il dolore, esorcizzare la morte, accompagnare i passaggi esistenziali. Il rito è performativo, cambia lo status dell’individuo. Si menzionano i riti di passaggio secondo la teoria di Arnold van Gennep, articolati in tre fasi: separazione, liminalità e reintegrazione.

Modernità e crisi del rito: Adam Seligman

In chiusura, si introduce la riflessione di Adam Seligman sui limiti della sincerità. Le società moderne, incentrate sull’individualismo e l’autenticità emotiva, tendono a ridurre l’efficacia del rito, che invece nelle società tradizionali non richiede sincerità ma conformità alla forma. Questa de-ritualizzazione della vita sociale comporta un crescente carico psicologico e l’indebolimento dei dispositivi simbolici collettivi.

Conclusione

La lezione invita a considerare la religione non come oggetto di credenza ma come linguaggio culturale e forma del pensiero umano, che media l’esperienza del mondo attraverso narrazioni, azioni rituali e simboli. Essa si oppone a ogni tentativo riduzionista o funzionalista, rivendicando il religioso come uno spazio culturale autonomo e universale, che può assumere forme diverse, ma che risponde a una medesima esigenza di senso.

 

mercoledì 23 aprile 2025

Non sono trumpiano ma…

 

Non sono trumpiano, e lo dico subito per evitare che mi si spedisca dritto nel girone dei reprobi: quelli che mangiano carne rossa, si tagliano i capelli a casa e hanno letto Scritti corsari di Pasolini senza sottolineare solo le parti che parlano di consumismo. No, non sono trumpiano. Ma.

Ma se qualcuno mi spiegasse perché una famiglia americana, per mandare il figlio a studiare “Liberal Arts” a Brown University, deve sborsare novantatremila dollari all’anno (senza contare i costi affettivi di tre anni passati a parlare con un diciannovenne che ha scoperto Fanon e vuole abolire la grammatica), giuro che potrei anche iniziare ad ascoltare Trump con una certa simpatia.

Il sito Courage Media – diretto da Ayaan Hirsi Ali, intellettuale somala, ex deputata olandese, sopravvissuta all’islamismo radicale e oggi tra le voci più lucide (e scomode) del liberalismo conservatore – ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo che è tutto un programma: The Entitlement of American Academics. Un testo che, pur parlando dal centro-destra culturale, ha la lucidità di chi non ha nulla da perdere: né la reputazione da difendere nei salotti del wokismo, né un posto garantito tra i grant NIH per dire che il patriarcato vive nei coni di traffico.

L’articolo denuncia un sistema universitario che riceve miliardi di dollari in fondi pubblici mentre sforna diplomati in ideologia identitaria, proclama il genocidio israeliano nei workshop per le scuole medie, e si indigna se un’amministrazione osa chiedere conto di come vengano spesi quei soldi. A Brown, ad esempio, hanno dovuto deportare una docente perché era andata al funerale di Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah – lo stesso Hezbollah che ha sulla coscienza centinaia di soldati americani. Ma la reazione dell’università è stata: “Oddio! È una minaccia alla democrazia!”

Certo, Trump non è noto per il suo tatto istituzionale, ma quando l’amministrazione federale ha cominciato a tagliare i fondi a università come Princeton (quasi 4 milioni al dipartimento clima, accusato di alimentare climate anxiety) o Cornell (1 miliardo congelato), le università hanno reagito come adolescenti viziati a cui è stato tolto Netflix. “È un attacco all’autonomia!” “È censura!” “È razzismo!” Nessuno che abbia detto: “Forse abbiamo un problema”.

E il problema non è solo il contenuto. È la forma. Università come Brown spendono 43 milioni in più di quanto incassano, ma intanto fanno pagare rette da mutuo subprime. Studenti come Alex Shieh hanno creato algoritmi per classificare i ruoli amministrativi in tre categorie: legalità, ridondanza, e stronzate. L’università non ha ringraziato: lo ha minacciato di sospensione.

E qui, caro lettore moralista, ti chiedo: se tuo figlio, per 280.000 dollari, ti tornasse a casa dicendo che l’attacco del Mossad con i pager esplosivi a militanti armati di Hezbollah è “una forma di genocidio”, non ti verrebbe il sospetto di aver investito male i soldi?

Perché vedi, non è tanto che le università abbiano un orientamento. È che l’hanno confuso con una religione di stato, con dogmi, eresie, inquisizioni. Hanno un apparato amministrativo che serve a garantire ortodossia ideologica, non eccellenza accademica. E se qualcuno taglia loro i fondi, si offendono. Ma non erano loro quelli per cui bisogna sempre “seguire il denaro”?

Però capiamoli. Dopo anni passati a spiegare che il gender è un costrutto sociale ma il debito pubblico no, oggi vedono che quello stesso Stato da cui succhiano a pieni polmoni chiede conto di come usano i soldi. E questo sì, che è violenza sistemica.

E allora, con tutto il rispetto, anche se non sono trumpiano… mi scappa da ridere quando le università americane fanno le offese per i tagli ai fondi, dopo decenni in cui hanno trasformato la gratitudine istituzionale in diritto divino. Mordi la mano che ti nutre – certo – ma poi non lamentarti se quella mano comincia a stringere.

E comunque, diciamolo: il sogno americano è ancora vivo. Ma oggi è soprattutto bello per quelli che ci mettono l’anima nel cercare di distruggerlo.

 

lunedì 21 aprile 2025

Magia, religione e scienza: le vie dell’umano davanti all’ignoto – Lezione #04 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni

 

Lezione numero 04 registrata il 18 novembre 2024

Magia, religione e scienza: le vie dell’umano davanti all’ignoto

L’impatto dell’evoluzionismo e la nascita della disciplina

La lezione si apre con una riflessione sull’importanza della rivoluzione darwiniana, paragonata a quella copernicana, nel ridefinire l’autocomprensione dell’Occidente. L’opera di Charles Darwin obbliga le scienze umane a interrogarsi sul posto dell’uomo nella natura, e in particolare sulle "stranezze" delle altre culture, che resistono a spiegazioni unitarie e semplificate. La diversità culturale, specie nelle pratiche religiose, appare come un enigma che richiede un’indagine profonda.

Due proverbi in tensione

L’antropologia, come suggeriva Alberto Cirese, si sviluppa nel terreno interstiziale tra due modi di pensare comuni: “tutto il mondo è paese” e “paese che vai, usanza che trovi”. Il primo sostiene un universalismo implicito; il secondo afferma una pluralità irriducibile. Gli antropologi si muovono tra queste polarità cercando di comprendere se l’Altro rappresenti una semplice variazione della nostra umanità o una frattura ontologica.

L’evoluzionismo unilineare

A partire dal paradigma darwiniano si afferma, nella seconda metà dell’Ottocento, una prospettiva evoluzionista unilineare, secondo cui le culture non occidentali rappresenterebbero stadi precedenti dello sviluppo umano. Autori come James Frazer (con The Golden Bough, 1890) e Edward B. Tylor (Primitive Culture) leggono la religione e la magia come tappe superabili verso la scienza. In questa visione, magia, religione e scienza sono momenti successivi dello sviluppo umano, dalla superstizione alla razionalità.

Magia, religione e scienza secondo Frazer

Secondo Frazer, la magia è una scienza primitiva basata su analogie e contiguità (magia simpatica), mentre la religione emerge quando si riconosce l’inefficacia della magia e ci si affida a forze superiori. La scienza moderna, infine, sostituisce entrambe fondandosi su causalità verificabili. Questo schema, benché oggi superato, ha avuto un enorme impatto sulla storia dell’antropologia.

La critica irrazionalista: Lucien Lévy-Bruhl

La prima grande critica all’evoluzionismo razionalista arriva da Lucien Lévy-Bruhl, che nel 1923 propone una lettura irrazionalista delle culture “primitive”. Secondo lui, la “mentalità primitiva” viola sistematicamente i principi della logica aristotelica (identità, non contraddizione, terzo escluso), come mostra il celebre caso dei Bororo brasiliani che affermano: “Noi siamo arara (pappagalli rossi)”. L’apparente contraddizione logica è in realtà una metafora radicata nella struttura simbolica e sociale del gruppo.

Linguaggio, metafora e relativismo cognitivo

Questa riflessione apre al riconoscimento che la metafora è costitutiva del pensiero umano. Il libro Metaphors We Live By di George Lakoff e Mark Johnson mostra come il linguaggio quotidiano sia strutturalmente metaforico. L’esempio dei Bororo non dimostra irrazionalità, ma l’uso legittimo di un linguaggio simbolico in cui il dire è già un fare. La metafora non è una devianza dal reale, ma un suo modo di costituirsi.

La svolta funzionalista: Bronislaw Malinowski

Un’alternativa al razionalismo e all’irrazionalismo viene proposta da Bronislaw Malinowski, fondatore dell’osservazione partecipante. Secondo il suo funzionalismo, credenze e pratiche vanno comprese nella loro funzione attuale e non come residui del passato. Malinowski interpreta la magia come iniezione di ottimismo, utile ad affrontare l’incertezza, e la religione come fondamento dell’ordine cosmico e sociale, un sistema di verità indiscutibili che legittima ruoli, gerarchie e regole.

I sistemi chiusi e aperti di Robin Horton

Il pensiero religioso viene interpretato anche da Robin Horton come un sistema chiuso, che spiega il mondo attraverso un set fisso di variabili, incapace di includere elementi nuovi. Al contrario, la scienza occidentale sarebbe un sistema aperto, capace di integrare nuove variabili esplicative. Il famoso esempio della barzelletta dell’elefante nel treno e il caso etnografico di Evans-Pritchard tra gli Azande illustrano come anche le prove contrarie possano essere riassorbite all’interno di un sistema esplicativo chiuso, come quello della stregoneria.

L’antropologia medica e l’efficacia simbolica

La lezione si conclude con una riflessione sull’antropologia medica, che mostra come la malattia non sia solo un fatto biologico, ma anche costruzione culturale. L’esempio dell’AIDS in Camerun illustra come l’epidemia venga letta all’interno di un conflitto tra generazioni, dove gli anziani accusano i giovani di insubordinazione e i giovani sospettano gli anziani di stregoneria. In entrambi i casi, le rappresentazioni culturali influenzano i comportamenti reali, rendendo indispensabile una lettura simbolica della malattia.

Il mito e il rito come dispositivi fondamentali

Infine, si anticipa che le cosmologie si articolano attraverso miti e riti: il mito narra ciò che non è modificabile dall’uomo, mentre il rito agisce su ciò che può essere trasformato. Secondo Dario Sabbatucci, il mito fonda l’ordine del mondo, mentre il rito lo modifica performativamente. Si apre così alla lettura di Clifford Geertz, che verrà affrontata nella lezione successiva. 

domenica 20 aprile 2025

Trascendenza dell’individuo e fondazione simbolica del sociale – Lezione #03 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni


Lezione numero 03 registrata il 15 novembre 2024

Trascendenza dell’individuo e fondazione simbolica del sociale

 L’origine della disposizione religiosa

La lezione si apre richiamando la pluralità delle forme religiose, partendo dalla constatazione che "la religione" come istituzione naturale non esiste. Esiste invece una disposizione religiosa, una tendenza universale degli esseri umani a interrogarsi su ciò che trascende l’ovvietà del senso comune. In ogni cultura esistono pratiche, linguaggi e sistemi simbolici che articolano la distinzione tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il meta-umano, senza necessariamente postulare una trascendenza separata. Questa distinzione è più evidente nelle culture non ancora soggette alla "trascendentalizzazione", cioè al processo moderno che estromette il sacro dal mondo.

Sogno, morte e l’idea di anima


Due esperienze fondamentali che sembrano sollecitare la disposizione religiosa sono il sogno e la morte. Entrambe portano il soggetto umano a intuire l’esistenza di un principio vitale separabile dal corpo, cioè qualcosa che possiamo chiamare anima. Il sonno, simile alla morte ma temporaneo, e la morte, come evento definitivo, suggeriscono che vi sia "una parte che se ne va", che si può spostare, uscire, tornare. Questa intuizione non è il prodotto di una dimostrazione logica, ma di una forma di pensiero che Charles Sanders Peirce definirebbe "abduzione": se l’anima esistesse, spiegherebbe ciò che sto vivendo. L’anima, quindi, non è dedotta né indotta, ma proposta come ipotesi esplicativa.

La socializzazione dell’intuizione religiosa

L’intuizione dell’anima, una volta condivisa socialmente, diventa sistema di senso. Non si insegna tanto quanto si trasmette, si condivide nella comunità. È in questa dinamica che nascono forme culturali e narrative religiose più complesse. Gli antenati, ad esempio, continuano a esistere come presenze semiotiche, garanzie di senso e riferimento simbolico per il gruppo. In molte culture si parla ad alta voce ai morti perché “sentano meglio”, come ricorda Maurice Bloch, a testimoniare una realtà immanente, in cui il sacro non è esterno, ma intrecciato alla vita quotidiana.

Critica a Marshall Sahlins e alla separazione netta immanenza/trascendenza

La lezione critica la lettura troppo netta che Marshall Sahlins fa tra culture immanenti e culture trascendenti (a partire dall’epoca assiale). L’idea che solo le religioni storiche abbiano introdotto la trascendenza è messa in dubbio: anche nelle culture cosiddette primitive esistono forme di esternalizzazione e simbolizzazione che assolvono a simili funzioni. La modernità, pur avendo formalmente rimosso il sacro, continua a produrre nuove forme di bisogno di senso e trascendenza.

La religione come proiezione del sociale in Durkheim

L’autore centrale della lezione è Émile Durkheim, che interpreta la religione come proiezione della società: la religione nasce dal bisogno del soggetto di oggettivare la propria appartenenza a un ordine che lo precede e lo sostiene. Non si tratta, come spesso viene frainteso, di una funzione politica di controllo, ma di una funzione morale e simbolica, originaria. Le “forme elementari della vita religiosa” sono modi in cui l’individuo esperisce il livello ulteriore del collettivo. La religione non è, per Durkheim, lo strumento dei dominatori, ma una tensione strutturante tra individuo e società.

La proposta di Jonathan Haidt: religione e coesione sociale

Ampio spazio viene dedicato al TEDTalk dello psicologo sociale Jonathan Haidt, che recupera la lettura durkheimiana per proporre una visione evolutiva e adattiva della religione. Per Haidt, la religione è un dispositivo che consente la trascendenza della soggettività individuale e l’ingresso in una dimensione collettiva. Questo passaggio è adattivo: favorisce la coesione, la cooperazione e la sopravvivenza del gruppo. L’esperienza religiosa è definita come esperienza diretta di un livello superiore, percepita come immediata anche se culturalmente mediata.

Il problema della selezione di gruppo e il ruolo della religione

La lezione affronta uno dei nodi della sociobiologia contemporanea: la selezione di gruppo, concetto rifiutato da autori come Richard Dawkins, che vedono la selezione esclusivamente a livello individuale. Tuttavia, attraverso Haidt, si esplora la possibilità che forme culturali di appartenenza (parentela, religione, nazionalismo) creino somiglianze semiotiche tali da giustificare sacrifici altruistici e strategie cooperative. In questo quadro, la religione fornisce codici simbolici condivisi, essenziali per l’azione collettiva.

Cultura, parentela e riconoscimento simbolico

Un’ulteriore articolazione del tema riguarda la distinzione tra riconoscimento biologico (negli animali) e riconoscimento simbolico (nell’uomo). La parentela, ad esempio, è una costruzione sociale che produce somiglianze attraverso indicatori arbitrari (cibo, spazio, abiti, emblemi). Questo consente la formazione di gruppi coesi e favorisce la selezione di gruppo in senso culturale, laddove la biologia non offre spiegazioni sufficienti.

La religione come esperienza fenomenologica e spiritualità laica

Si recupera William James come figura chiave nello studio della esperienza religiosa individuale, spesso svincolata da istituzioni religiose. La disposizione religiosa è descritta come una capacità umana di “uscire da sé”, condivisa in tutte le culture. Questo porta a rileggere anche la funzione sociale del religioso: non alienazione o oppio dei popoli, ma dispositivo fondamentale per trascendere la soggettività ristretta e accedere a un senso condiviso.

Dalla trascendenza agostiniana al soggetto moderno

Il confronto finale è con la figura di Agostino, padre del soggetto moderno: nell’interiorità, Agostino trova Dio, mentre nella modernità si scava nell’io e si trova il nulla. Questa trasformazione genera una soggettività solitaria, incapace di riferirsi a un senso collettivo o a un ordine ulteriore. Da qui, l’esigenza – per l’antropologia delle religioni – di riflettere sul ruolo della trascendenza condivisa, non come dogma, ma come struttura dell’umano.

Conclusione e rilancio

La lezione si chiude con il riconoscimento che non si è riusciti a toccare molti temi previsti (mana, totemismo, possessione…), ma ha aperto un orizzonte concettuale profondo, ponendo le basi per le prossime riflessioni. L'obiettivo è chiarire come la religione emerga come dispositivo simbolico originario e non semplicemente come prodotto storico o politico. L'antropologia delle religioni, in questo senso, è anche un'indagine sul limite tra il biologico e il culturale, tra il soggettivo e il collettivo.