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martedì 1 maggio 2007

Me paro che so’ io (o della rilevanza del paratesto)

Rebecca, cinque anni, mi chiede di vedere un dvd. Contrattiamo un Monster House che non conosco ma di cui mi fido perché sta nel settore “ragazzi” della videoteca di cui abbiamo la tessera.
A casa ci mettiamo a guardare il film io, Rebecca e Valeria.
Vale chiede se vogliamo accendere una luce e Rebecca dice una frase che al momento non capiamo:
– Sì, accendi la luce, sennò me paro che so’ io!
A parte il fatto che ormai il suo accento rivela marcatamente dove stiamo (Roma est: tra Torpignattara dove sta con la madre, Centocelle dove sta con me, e Pietralata dove stiamo con Valeria…), mi viene il sospetto che Rebecca stia facendo riferimento al suo posizionamento rispetto al contenuto del film.
– Amore che vuol dire me paro che so’ io?
– Che so’ io nel film se non c’è la luce. Se non vedo il televisore me pare che ce sto io dentro al film e me metto paura.
Poi si struscerà comunque ben bene durante le scene in cui la casa prende vita (il film è proprio ben fatto. Il motion capture rende i personaggi stranamente realistici, soprattutto nelle espressioni e nelle posture, cosa che stride piacevolmente con le loro forme vagamente esagerate, fumettistiche; alcuni dialoghi sono fulminanti; la baby sitter è un incubo se avete figli, uno spasso se invece avete la sua età e fate il suo lavoro) ma trovo impressionante che a cinque anni i bambini sappiano già controllare il contesto della loro fruizione estetica. Rebecca con quella frase strampalata ci stava dicendo che il paratesto è una dimensione essenziale della fruizione, non un semplice contenitore.