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giovedì 22 luglio 2010

Basta kakàje

Amanda sta per compiere due anni, e da qualche qualche settimana si è lanciata nell'universo linguistico con estrema spericolatezza. Ieri sera, in terrazzo, mentre noi grandi stavamo cenando, si è avvicinata chiedendomi: "papà dziukàle", che sarebbe "giocare" e dopo un po' si è sbilanciata in un più accurato "papà dziukàmo".
Mi fa piacere vedere i suoi progressi, ma un po' mi spiace che stia abbandonando una sua parola totemica (chi mi legge ricorderà che un'altra era kunga), vale a dire kakàje, che aveva coniato ormai quasi un anno fa, agli albori del suo rapporto con il linguaggio.
Era stata una delle sue prime performance e uno dei miei primi successi interpretativi. Ci vuole infatti un bel po' di immaginazione a capire che kakàje sta per "giocare", ma molto presto Amanda ne aveva fatto un suo grido di battaglia. Al mattino dopo aver preso il latte nel lettino, scattava in piedi come un soldatino,  urlando: kakàààje!, che diventava anche la motivazione principale per andare al nido (kakàje!) e il motivo più bello per tornare a casa (kakàje!). Rebecca, la sorella maggiore, lo aveva addirittura convertito nella radice di un verbo dell'idioletto familiare, per cui le diceva: Amanda, kakajamo? Andiamo a kakajàre?
Ecco, anche questo pezzettino dell'infanzia di Amanda se ne sta andando (la kunga ogni tanto riappare, ma è quasi una citazione ironica, la sua...) e lo lancio nella Rete per lasciarne memoria.
Qualcuno dovrà cominciare a ragionare sul fatto che Internet non è solo un eterno presente, e che molti di noi anzi utilizzano questo mezzo per lanciare messaggi in bottiglia sperando di trovarne traccia nel futuro.

sabato 10 luglio 2010

L'esperto (2)

Eccomi di nuovo a Tor Vergata TV, a parlare di blog, web 2.0 e identità su Internet. Notare l'eleganza della mise, per di più ero zuppo dato che aveva fatto un bel temporale mentre arrivavo con la moto.
La cosa forse più interessante è il doppio parallelo tra Internet e una città e tra Facebook e un centro commerciale. Internet è nata come una città di frontiera: poche indicazioni stradali, ci abitavano e ci costruivano solo quelli dotati di fegato e di competenze. Poco alla volta si è trasformata in una città piena di servizi e di informazioni, tanto che tutti ci trovano qualcosa da fare o da dire. Inevitabile che questo dia fastidio ai pionieri.

venerdì 9 luglio 2010

Se ho ragione, non arriverete in fondo a questo post

Con il tempismo che mi caratterizza, commento un post di Luca Sofri pubblicato su Wittgenstein venti giorni fa. Si tratta di un pezzo un po’ ironico e un po’ irritato su Nicholas Carr, uno scrittore che un paio d’anni fa ha tirato fuori la storia che internet abbassa il livello di concentrazione e ci starebbe rendendo “stupidi” e su questa presunta “notizia”ci marcia di gusto tra libri e interventi pubblici che gli devono rendere un bel po’ di quattrini.
Non voglio entrare nel dettagli della tesi di Carr ma vorrei riportare qui un pezzo dello scritto di Luca Sofri:

Perché di certo un effetto certo del cambiamento per me è che non ho più tempo di leggere niente fuori dal computer o dall’iPhone o dall’iPad o dal Kindle. Ovvero, peraltro, luoghi su cui si legge qualunque cosa, quindi va anche bene così. Io la carta non la frequento davvero più. L’unica cosa che mi manca, però, della carta, sono le cose lunghe. Non che in rete non ci siano – ci sono meno – ma uno non ha tempo e abitudine di stare a leggere una cosa lunga senza farsi distrarre da altre cento brevi (e meravigliose, eh). Non leggo libri da mesi e mesi, forse anni: cioè, li apro, ne leggo dei pezzi, o li sfoglio, ma non li riprendo quasi mai. Ne apro degli altri, eccetera. So di cosa parlano, insomma, e anche come sono scritti. Conoscenza superficiale, eccetera: ma io avevo un’attitudine alla conoscenza superficiale già prima che il mondo diventasse a mia immagine ed accoglienza. Volete che ve lo racconti? O stavamo parlando d’altro? Comunque, non leggo più un libro intero. [enfasi mie, pv]
A me sembra che, al di là delle aggettivazioni sensazionalistiche di Carr, quella di Sofri sia una confessione che non fa che confermare la tesi dell'americano. Sofri è un intellettuale (non so se si identifichi attivamente in questa posizione ideologica, ma oggettivamente è un intellettuale, uno che vive delle idee che produce, non certo dell’opera delle sue mani) e credo sia un’assoluta novità che un intellettuale apprezzato possa ammettere pubblicamente di non leggere più un libro intero.
Sofri, come si vede leggendo i suoi post, legge un sacco di roba e ascolta un sacco di musica. Ma per sua esplicita ammissione non legge più un libro intero. Come fa notare lui stesso, non stiamo discutendo del “supporto” (carteo o elettronico), ma della lunghezza fisica del testo, del suo numero di parole, le “cose lunghe” come concisamente le chiama Sofri.
Un libro è, per sua materiale condizione d’esistenza, una dichiarazione politica, che potrei sintetizzare in:
ci si può occupare a lungo di un unico tema, e questo occuparsene a lungo (pura quantità temporale) è l’unica forma finora conosciuta dalla mente umana per occuparsene in profondità (qualità)
Certo, ho lavorato 15 anni come redattore editoriale e traduttore, quindi so per esperienza che ci sono milioni di libri che non contengono nulla se non l’ego ipertrofico del loro autore o un lasciapassare per qualche avanzamento di status, ma questo non toglie il fatto che il libro come modello cognitivo più che come oggetto fisico è concepito espressamente con l’intenzione di andare a fondo, di sondare, di vagliare, di ispezionare, di com-prendere, di capire.
Capire, ci racconta anche Alessandro Bergonzoni, è essere capaci, ed essere capaci è una proprietà dei bauli, non delle persone intelligenti. Capire è avere spazio per contenere, essere abbastanza larghi e profondi per farci stare quel che ci deve stare. Un libro questo fa (quando lo fa): ci fa capire, cioè ci allarga per farci stare qualcosa che prima non ci stava, la conoscenza del suo oggetto.
Non leggere libri significa restare in-capaci rispetto all’oggetto su cui sono scritti i libri che non leggiamo. Vale a dire che potremo con-tenere solo entro lo spazio che abbiamo già a disposizione, che non faremo spazio, non ci allargheremo. Senza libri non è vero che non c’è conoscenza, ce n’è anzi un sacco e una sporta, ma quella conoscenza non sarà capita. Sarà assunta solo nella misura in cui ci sta già dentro lo spazio che le rendiamo disponibile. I libri insomma ci allargano, mentre le “cose brevi” ci possono stuzzicare, al massimo solleticare. Riprendendo una vecchia opposizione sociologica, il testo breve è quasi di necessità “consolatorio”, ci conferma rispetto al nostro orizzonte culturale e morale, mentre il libro può essere “nutritivo”, costringendoci a modificare proprio quella linea dell’orizzonte che chiamiamo “noi stessi”:
Questo post è già abbastanza lungo, direi, e molti dei potenziali lettori non saranno stati capaci neppure di arrivare fin qui, ma ripeto che questo è esattamente quello su cui dovremmo provare a riflettere meno sbadatamente, meno frettolosamente. Per provare a capire, ancora una volta.