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mercoledì 5 dicembre 2007

Precarietà e blogging (i conti della serva certe volte sono l’unica cosa vera di cui si può parlare)


Temo di aver lasciato l’impressione che il netto calo di miei post in questi ultimi due mesi sia dovuto a una scelta, quasi una protesta contro certi ritmi frenetici della produzione intellettuale su internet (sempre preoccupatissima di essere aggiornata, e ancor più di sembrarlo) o come una specie di perorazione in nome della sacralità della vita “vera” contro le artificialità della vita “virtuale”.
Certo, ho scritto gli ultimi post attorno a questi temi, e resto convinto che l’impossibilità di elaborare un “tempo virtuale” renda impossibile di fatto la duplicazione delle nostre vite su internet (a meno di non rinunciare alla vita fatta di interazioni fisiche) ma i motivi per cui ho praticamente smesso di scrivere sono altri, molto meno filosofici e molto più contingenti.
Tanto per chiarire, sono gli stessi motivi per cui ho ridotto drasticamente la lunghezza media dei resoconti che stendo per il mio privatissimo diario quotidiano: dalla pagina, sono passato alla mezza pagina, e addirittura la settimana scorsa ho dovuto condensare in un unico paragrafo cinque giorni pieni, che non avevo avuto modo di raccontare per totale e cronica carenza di tempo.
La scarsità di tempo disponibile è stata aggravata dal fatto che per quasi un mese sono stato senza portatile (monitor rotto, tra consegna e restituzione se ne sono andate quattro settimane). Solitamente scrivo qualche nota per i miei post proprio in treno, e ovviamente non se ne parla neanche di scrivere a mano e poi ricopiare. Dove lo troverei il tempo?
La ragione per cui non ho scritto è quindi la stessa per cui non ho risposto a diverse mail, in questo periodo, né mi sono preso la briga di rispondere ai post di chi ancora mi legge sul blog. Vivendo in un sistema di produzione intellettuale che non mi consente non dico una certa agiatezza, ma neppure il minimo per il sostentamento, sono costretto ad arrabattarmi con lavori diversi, facendo così un po’ di tutto, ma tutto un po’ male, senza alcun incentivo alla cura o anche alla semplice professionalizzazione di quel che produco. Come ricercatore a tempo determinato, ricevo uno stipendio di 1.150 euro al mese. Dato che però lavoro all’Università della Calabria ma ho la mia famiglia a Roma (e non posso spostarla perché sono separato con una bimba di 6 anni, che ovviamente ha diritto di passare metà del suo tempo con la mamma e metà con il papà) faccio su e giù tutte le settimane, il che significa che di quello stipendio 300 euro vanno in biglietti del treno (senza alcuna possibilità di rimborso, o anche solo di detrazione dalle tasse) e 200 vanno nel costo dell’alloggio al campus, dove dormo tre notti a settimana. Dello stipendio iniziale, quindi, mi restano 650 euro scarsi, cui vanno tolti i 300 euro al mese che passo alla mia ex moglie come contributo per il mantenimento di nostra figlia. Si capisce quindi che non posso vivere con 350 euro al mese, da cui i lavori extra come editor per alcune case editrici.
So che molti trovano disdicevole o almeno imbarazzante parlare così francamente della precarietà della propria situazione economica, ma io credo che l’imbarazzo altro non sia che un trucco per rendere meno visibile una condizione di vera umiliazione, facendola quindi passare per normale, dato che se ne parla poco. No, dico, parliamone.
Non mi riferisco al fatto che il mio lavoro è precario, ma alla precarietà della mia condizione economica, cioè al fatto che il mio lavoro di ricercatore è pagato troppo poco per consentirmi di sopravvivere. Certo, posso ancora fare lo spiritoso e il brillante coi miei post (ho una sfilza di ideuzze niente male, nel mio taccuino) ma poi mi chiedo cosa c’entri questo con la mia vita, con lo strazio di passare i sabati e le domeniche quando non sono con mia figlia Rebecca a lavorare anche 15 ore al giorno, per guadagnare quel po’ di tempo che mi permetta poi in treno di preparare con un certo agio le lezioni da tenere per i due moduli che insegno in contemporanea all’università.
La stesura di un post “bello” mi sembra allora l’ultimo tassello di un’ipocrisia produttiva disperante, che io con la mia “brillantezza” paradossalmente contribuisco a perpetuare: certo, mi pagano di merda, certo, lavoro sedici ore al giorno, ma vuoi mettere come sono figo, coi miei post brillanti e intelligenti? Mica come i miei colleghi professori associati, che hanno uno stipendio doppio del mio ma non hanno tutta la mia verve intellettuale!
Smettere di scrivere sarebbe del resto altrettanto subalterno, come atteggiamento, dato che – come ho potuto constatare in queste ultime tremende settimane di tour de force – sarebbe la resa totale all’alienazione produttiva: non esisto assolutamente più come persona dotata di propri interessi e in grado di comunicarli, sono ridotto a una pura macchina produttiva, da un lato studenti da preparare e esami da fare, dall’altro libri da editare e bozze da correggere.
Forse, e paradossalmente, la soluzione è costituita da post come questo, in cui non cerco per forza di compensare la frustrazione della mia condizione lavorativa, ma provo seriamente a farci i conti. Il problema è che post come questi chi mai può avere voglia di leggerli?