2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

giovedì 28 settembre 2017

Anthropology of Globalization for Global Governance #1 & #2

27/09/17 There we go. Eventually Wednesday 27th we started "Anthropology of Globalization" for Global Governance, years 2 and 3 together. Four full hours in class, since the first two hours were a make up for the class due for 4th October and cancelled because we have the inauguration ceremony the same day.
It was exciting to meet the students, always attentive and provocative as only GG students can be here in Rome.
So, we are going to talk about Anthropology of Globalization. I have divided the course in two parts. In the first we’ll talk about cultural anthropology, the technical meaning of “culture” and the way we can investigate such a slippery concept. Assigned reading for this part (it shall last approximately till the end of October) are
·        Notes from class
                                                
In the second we’ll focus on cultural dimensions of Globalization, bringing to surface different case studies, mostly taken from my fieldwork experience in Rome and related to the assigned reading of
·        Global Rome. The changing faces of the eternal city, the great book edited by Isabella Clough-Marinaro and Bjorn Thomassen

We started with some practical pieces of information, about this blog, the online lessons in mp3 format and the possibility to write feedbacks that count as pre-midterm reports to be evaluated.
Taking on one question about surprise tests in class (there will be none), I briefly elaborated on the model of basic behavioural patterns for humans:
1. competition
2. cooperation
3. reciprocity
4. revenge
QUESTION FOR YOU: report one example for each type of social behaviour. At least four standard page lines for type (total 15 lines minimum)
Then we discussed about the concept of CULTURE, and we elaborated a definition of it as whatever knowledge that has been ACQUIRED, pitting it against INNATE KNOWLEDGE.
ANOTHER QUESTION FOR YOU: list innate and acquired forms of human knowledge. More important, bring examples where the distinction is blurred and not clear at all (20 lines)
Next class I promised I should start from “Rocks and fairies”. We’ll definitely touch that important point that has to do with the
·        symbolic dimension of culture
but before we’ll analyse two other dimensions of culture the way anthropologists mean in, namely:
·        Culture is acquired (and we will see it can be acquired in different forms, and that makes the difference)
·        Culture is shared (with some extremely clear limitations. We shall thus begin to debate the de-finition of cultures, to what extent we can really detect cultural BOUNDARIES

·        See you in class Monday 2nd October in room P12!

lunedì 25 settembre 2017

Che cos'è "Gente de barrio" (fare arte in carcere)

La mia introduzione allo spettacolo "Gente de barrio", che si tiene a Rebibbia lunedì 25 settembre 2017.

Raccontare quel che succede dietro le mura di un carcere è sempre difficile. Da fuori le aspettative sono sempre poche, e in effetti che cosa mai dovrebbe “succedere” in un luogo che per definizione è marcato dall’attesa, dalla sospensione? Non ci si aspetta molto, guardando al carcere da fuori, ma basta affacciarsi un momento per imbattersi invece in un’umanità in fermento, incapace di aspettare e rinunciare alla vita.
È anche vero che di “attività” e “iniziative” ormai molte carceri traboccano. C’è sempre un’anima pia che fa un corso di yoga o esperanto, qualche gruppo di volontari attivissimi nel compito di rendere attivi i detenuti. Ma queste benemerite iniziative nulla hanno a che fare con quel che succede a volte, quando le persone detenute danno corpo alle loro aspirazioni e ai loro progetti, dentro un’istituzione che sembra deputata invece a frustrare in modo pazientemente sistematico proprio ogni umano rigurgito di iniziativa individuale.
Bene, questa è una di quelle volte. Chi come Noi non è solo un’associazione culturale, è un patto di umanità, un progetto di resistenza e resilienza umana. Se ti piacciono le feste, i club e la night culture e sei un libero cittadino, forse sarai considerato un eccentrico, i tuoi tatuaggi scriveranno sul tuo corpo il tuo dandysmo un po’ retrò; ma se fai le stesse scelte culturali da dentro le mura di un carcere, e ti fai crescere venti centimetri di barba hypster che ti costa un sacco di tempo mantenere in ordine, e ti viene in mente che potresti anche metter su un gruppo musicale, e poi neppure quello ti basta e cominci a ragionare in grande, e pensi a una compagnia teatrale, ad allestire spettacoli in cui coinvolgi decine di altri detenuti ma ti rivolgi a tutto il mondo fuori; se nel tuo cervello Bukowski chiacchiera con Picasso, la beat generation non è mai morta e la trasgressione come oltrepassamento della frontiera è sempre pronta a scintillare come ipotesi, allora sei proprio uno strano tipo di animale, non sei solo un eccentrico un po’ fru-fru. Perché tenere in piedi il baraccone della tua identità quando tutto il resto lì attorno, tra guardie e compagni, ti porterebbe da altre parti, ti porterebbe a startene al massimo al calduccio imbozzolato in un angolo, a non fare nulla?
Non si tratta, quindi, di parlare nuovamente di “Uno Spettacolo Teatrale” a Rebibbia, ma di qualcosa di più denso, più colloso nel suo appicciarsi ai nostri pensieri, di qualcosa che pretende un’interpretazione profonda. Cosa significa per settimane e mesi scavare tra i libri, e poi stendere parole sulla carta e sul video, provando e riprovando, e poi allestire una sala musica in reparto, coinvolgere le persone, ore e ore di prove, trovare una misura tra quel che vorresti fare (tutto) e quel che probabilmente ti lasceranno fare (molto poco, pochissimo)? Perché sbattersi con quel livello di intensità?
Come antropologo, sono sempre attratto dalla dimensione simbolica del reale sociale ma riconosco anche che tale dimensione si coagula attorno ad alcuni oggetti più che ad altri, e sicuramente Chi come Noi è un catalizzatore potente di simboli, una macchina fattrice di segni. Partiamo dal progetto in corso, ad esempio, Gente de barrio. Un gruppo di detenuti si pone in cammino cercando negli interstizi dell’urbano la condizione minima per una vita libera. Sembra uno scherzo, come quando, più di due anni fa, con Carlo e Mauro organizzammo un intervento per una giornata del “Festival delle letterature di viaggio” che si teneva a Rebibbia (“di viaggio”, a Rebibbia? Sembrava uno scherzo di cattivo gusto).
Quindi un gruppetto decisamente cosmopolita di detenuti si imbarca metaforicamente in un giro delle metropoli, chiedendosi se la civitas lasci ancora spazio alla communitas. Quest’anno Carlo e Mauro hanno dunque lavorato sull’idea di città, un tema che mi è caro anche professionalmente. Gente de barrio sono loro, le persone detenute, e ovviamente siamo noi, poveri uomini che ci illudiamo di essere liberi. Da oltre le mura, il gruppo di “Chi come Noi” si è spinto in giro per il mondo, alla disperata ricerca di uno spazio urbano dove la libertà non sia assente o un bene a disponibilità limitata. La disperazione viene non dall’impulso alla ricerca (quella è anzi accesa dal miglior utopismo) ma dal rientro a casa con poco, dopo tanto girovagare. Ci sono centri storici, quartieri popolari, passaggi e passeggi, ma quella libertà auspicata proprio non si trova.
Alla fine del pellegrinaggio urbano, Carlo e Mauro devono riconoscere che la libertà è uno stato mentale, non geografico, una disposizione dell’anima, non delle cose nello spazio, e ammetterete che questa banalità retorica assume tutt’altro valore se pronunciata da chi ha un problema vero con la Libertà, e non si può accontentare di discettarne sul piano allegorico.
Ma Chi come Noi non è un progetto intellettuale, è prima di tutto un contesto culturale, dove il conoscere è orientato al fare. Conoscere non basta, se quel sapere non diventa azione, e se quell’azione non è a sua volta espansa oltre gli ideatori per farsi gruppo, combinazione di corpi.
Gli antropologi chiamano questo processo performativo “strutturazione rituale”. Una sequenza di azioni pubbliche che modificano lo status dei partecipanti. Da oltre un secolo, inoltre, sappiamo che i riti di passaggio si organizzano attorno a tre momenti riconoscibili: c’è la fase della separazione, dove gli iniziandi vengono rimossi dal flusso della vita quotidiana; segue la fase liminare, dove ha luogo il vero rituale di trasformazione; e il tutto i conclude con la fase della riaggregazione, dove gli iniziati sono reintegrati nel flusso della vita quotidiana con il loro nuovo status acquisito.
Nelle iniziative culturali di Chi come Noi questo triplice movimento è come incastonato in una struttura più ampia, che ovviamente è quella del carcere. Il carcere, di suo, separa, ma il buio della noia galeotta, della piattezza dei giorni tutti uguali, viene squarciato dalla Festa, dal momento performativo. In attesa di una reintegrazione che è solo, nulla di più, sul serio, che il recupero di un tempo liberato, lo spazio liminare del carcere si espande oltre misura, trabocca su sé stesso. La liminarietà diventa una condizione magmatica in cui le differenze nitide vengono meno: i detenuti diventano artisti, e viceversa. I “civili” nello spazio dell’Area Verde si confondono coi detenuti, la prosa e la poesia sfumano una nell’altra, gli spettatori e gli attori occupano gli stessi spazi, la luce e il buio si sostengono a vicenda senza mai de-finirsi del tutto.
Negli spettacoli allestiti da Carlo e Mauro questa dimensione liminare è fortissima, io dico anzi che prende piede nonostante Carlo e Mauro, si apre spazio a forza. So che li fa ridere questo mio blaterare antropologico, ma dentro il loro stile di performance un antropologo ci vede per forza una dimensione sacerdotale. Victor Turner, un grande antropologo britannico, scrisse nel 1982, alla fine della sua carriera e della sua vita, un saggio titolato Dal rito al teatro, in cui discuteva la rilevanza (la “serietà”) del gioco per gli esseri umani. Possiamo dire che Gente de barrio (e tutta l’attività di Chi come Noi) è un’incarnazione di quella riflessione, quasi raffigurata nel suo passaggio ulteriore, dal teatro al rito. Vedere uno spettacolo di Carlo e Mauro non è mai un assistere oltre la quarta parete, ma è giocoforza un entrare oltre. Tocca fare la fila all’ingresso, prima ancora si sono depositati i propri dati, e spesso anche le proprie borse, costa arrivare fin dentro le mura del carcere. Ma se ne esce lasciandosi attraversare da un rito comunitario, si viene imbrattati da uno spazio liminare che non dà scampo alla purezza e ai suoi cantori. Tutti assieme, tutti impuri, detenuti e civili, attori e spettatori, si ragiona sul nostro stare assieme, sul senso di quell’essere, per un momento almeno, un gruppo che parla con una voce sola.


giovedì 21 settembre 2017

Pollici in mostra

Ho conosciuto Pietro Lofaro quasi tre anni fa, quando ho iniziato la mia attività didattica a Rebibbia. Nel reparto di Alta Sicurezza divideva il suo tempo tra l'aula studio (allora felicemente zeppa di studenti universitari) e  e un laboratorio di pittura che si era inventato e che teneva in piedi con le unghie e con i denti, coinvolgendo altri detenuti. 
Non aveva ancora elaborato la tecnica con cui lavora ultimamente, vale a dire ritratti bellissimi fatti usando come strumento di lavoro prima di tutto i polpastrelli delle dita, quegli stessi polpastrelli che lo identificano nel casellario giudiziario e che gli garantiscono un'identità praticamente imperitura (i pregiudicati sono fuori moda, hanno pochissimi problemi di identità visto che tanto un modo per costringerli dentro una forma rigida di identità lo troviamo sempre, per "loro"). 
All'epoca, quando l'ho conosciuto dicevo, Pietro faceva dei bianco e nero mozzafiato, ha sempre avuto una buona mano, ma questi ritratti polliciosi sono tecnicamente perturbanti, dato che prima di attraggono con la loro apparente solarità, e poi ti stordiscono quando capisci che il ritratto è costruito con il marchio identitario del polpastrello. Il mezzo insomma è l'infamia, il risultato invece è sempre solare, sensuale, anche buffo. Ah, sì, questo è Pietro Lofaro, del resto. Non sono un esperto d'arte, ma poche volte ho visto delle opere assomigliare così tanto al loro autore.
Venerdì 22 settembre si inaugura una sua mostra alla Biblioteca Guglielmo Marconi, in via Gerolamo Cardano 135, a Roma
tel. 06 45460301 guglielmomarconi@bibliotechediroma.it
Pietro sarà lì, a darvi una polliciata in faccia su richiesta, a raccontarsi e raccontarvi. Io purtroppo non sono a Roma, ma la settimana prossima ci torno di sicuro e prendo un appuntamento con Pietro per portarci alcuni miei studenti. Fino al 5 ottobre, vale la pena farci un salto. Una ventina di quadri che lasciano il segno, veramente.

mercoledì 13 settembre 2017

Gente de barrio. Spettacolo a Rebibbia su cosa sia vivere nella città

Rebibbia è un posto strano, a dir poco. Uno si aspetta di trovare gente incallita dal crimine e nel crimine (e in effetti i criminali doc non mancano) ma poi ci si imbatte facilmente in artisti stralunati, musicisti polistrumentisti, attori strepitosi, scrittori di poesie, di liriche rap, di romanzi, pittori, tatuatori, cuochi che si arrangiano a fare manicaretti con fornetti costruiti con il foglio d'alluminio. Un mondo incredibile, cangiante, vibrante, in cui tutti sembrano seriamente determinati a superare quelle maledette sbarre, con il cuore e il cervello, se non con il corpo.
"Chi come noi" è un'associazione che unisce persone detenute e "esterni", e organizza eventi culturali, spettacoli e altro.
Per la terza volta dal 2015, "Chi come noi" ha messo in piedi uno spettacolo dentro Rebibbia, si terrà lunedì 25 settembre 2017 alle ore 18.30, ed è rivolto al pubblico degli esterni (per i detenuti ci sarà spero una messa in scena specifica). Io parteciperò volentieri, voglio vedere che cosa hanno combinato quest'anno. Il titolo dello spettacolo è Gente de barrio,  tema è "la città" e gli artisti cercheranno con rapide scene teatrali alternate a pezzi musicali di raccontarci cosa significhi vivere nel contesto urbano, se la città sia ancora un luogo di libertà e ricerca intellettuale e umana, oppure una trappola dell'esistere.
Io spero sinceramente (sinceramente) che vogliate esserci anche voi, in molti, in tantissimi proprio. Se volete, vi prego di compilare questo form online, scritto in brutto burocratese ma necessario per poter accedere agli spazi di Rebibbia con il dovuto scrupolo, necessario per tutti.
Questo è un vero appello, non vi costa niente venire, saranno anzi due ore di puro piacere, ma per le persone detenute sarebbe un segnale importantissimo che "quelli fuori" possono pensare a loro in modo diverso e meno stereotipato. Un segnale di umanità, per scalfire un poco un muro altissimo e spesso.