2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 30 giugno 2008

Postilla sul Fato


Ho trovato nella borsa con cui viaggio l’articolo di Remo Bodei cui accennavo un paio di post fa.
Si tratta della recensione di Vergogna e necessità, di Bernard Williams, il Mulino, Bologna. È un libro che ricostruisce lo spessore della morale in epoca greca preclassica, sfidando la concezione che vorrebbe quell’epoca tutta protesa esternamente verso la vergogna, intesa come pura espressione sociale, e incapace di scavare nelle profondità dell’individuo. Williams, dice Bodei, riesce a farci vedere invece lo spessore dei personaggi omerici, per i quali il concetto di vergogna (esteriore) comprendeva almeno in parte anche quello di colpa (interiorizzata), che ovviamente verrà portato alle sue estreme conseguenze dal Cristianesimo.
Il tutto serve a Bodei per affermare quanto segue:
Ciò che più sta a cuore a Williams è far vedere come il concetto moderno di individuo agente in sintonia con le proprie libere scelte omette un dato di cui i greci erano ben consapevoli: che ciascuno di noi è esposto al caso e alla necessità, ai rovesci di fortuna e alla coercizione della natura o della volontà altrui… (Remo Bodei, Il Bene in balìa della fortuna, “Il Sole 24 Ore - Domenica”, 15 giugno 2008, n. 164, p. 39).

Per chi avesse voglia di approfondire, l’opposizione vergogna/colpa (introdotta da Ruth Benedict per spiegare in Il crisantemo e la spada la specificità culturale del Giappone durante la seconda guerra mondiale di fronte all’America giudaico-cristiana, che non lo capiva) ripresenta alcuni suoi tratti nella più tarda opposizione tra onore (gerarchico) e dignità (democratica) di cui parla Charles Taylor in Charles Taylor, Jürgen Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1999, di cui ho già detto qualcosa su questo blog. Si tratta, credo dell’ennesima versione della metafora “l’io è un contenitore che le diverse fasi della storia umana procedono a rendere più profondo”, metafora che varrebbe la pena di indagare proprio nella produzione della soggettività moderna.

Discipline in dialogo

Il Dipartimento di Archologia e Storia delle Arti dell'Università della Calabria organizza una serie di incontri tra le diverse componenti disciplinari per far discuture gli studiosi e gli studenti con un intento interdisciplinare. La formula scelta è la seguente: per ogni incontro, l'esponente di un settore di ricerca (antropologia, storia dell'arte, archeologia, filologia) presenta un libro che ritiene importante per la sua disciplina, dopo di che si apre il dibattito.
Il 25 giugno scorso si è tenuto il primo incontro, in cui ho presentato il libro di Francesco Remotti Contro natura. Una lettera al papa.
Questo pulsante vi guida alla cartella dove potete scaricare gli mp3 dell'incontro. Consiglio: non ascoltate i file direttamente in streaming (a volte il filtro di esnips li distorce) ma scaricateli sul vostro computer.
Il prossimo incontro, a settembre, sarà guidato da Duccio Clausi, che ci introdurrà alla lettura di Filologia e libertà, di Luciano Canfora.

sabato 28 giugno 2008

Verso il Fato


Gli intellettuali si fanno vanto di saper interpretare lo spirito dei tempi, di capire in anticipo dove andrà il mondo. A parte aver azzeccato con una certa regolarità per diversi anni il “vincitore morale” del Festival di Sanremo, da questo punto di vista io sono un pessimo intellettuale, dato che la mia capacità di previsione è prossima allo zero (o comunque del tutto sovrapponibile a qualunque vaticinio stabilito a caso). Basti pensare ai consigli a mio padre di investire in Albania nel 1996 (pochi mesi prima del crollo delle piramidi che ha portato a una specie di guerra civile), al fatto che misi piede per la prima volta in una sede del Pci credo nel novembre 1988 (vale a dire pochi mesi prima che da quelle parti finisse praticamente tutto), e al fatto che qualche mese fa avevo segnalato in Capezzone (sì, quello che ora è il portavoce di Berlusconi) la vera novità della politica italiana.
Ammesso quindi il mio disastroso livello di perspicacia sullo spirito dei tempi, non ce la faccio comunque a resistere. Ci sono alcuni segnali recenti che mi fanno presagire un mutamento di rotta nel modo in cui concepiamo la nostra vita.
Negli ultimi trent’anni ha dominato il modello della agency, sia sul piano della pratica sociale, sia sul piano dell’analisi. Con agency, prendendo il termine in prestito dalle scienze sociali, indico un atteggiamento per cui i soggetti della vita sociale si sentono artefici delle loro sorti, e questo atteggiamento attraversa in modo trasversale le classi. Se infatti la borghesia ha incorporato il modello della agency da diversi secoli (sostanzialmente è quella classe sociale che fa della agency la sua struttura identitaria centrale), è solo con le grandi lotte politiche del Novecento che il modello prova a passare alle classi lavoratrici, ed è solo (e paradossalmente) con la fine dell’acme della lotta politica che il modello si rende effettivamente disponibile a una popolarizzazione capillare. Che si fosse ferrotramvieri, popolo delle partite IVA, colletti bianchi o imprenditori, tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Duemila ha dominato una concezione del sé tutta orientata al “mi faccio da me” e “scelgo quel che voglio essere”.
Da qualche anno, mi pare, questo modello è in declino. Sarà la precarizzazione del lavoro, sarà stata la crisi morale dell’Occidente susseguente all’11 settembre, sarà la stagnazione ormai radicata dello “sviluppo”, fatto sta che sempre più evidenti emergono i segnali di una concezione (e di una teorizzazione) della vita sociale che insiste sull’imprevedibile, sull’imponderabile, sulla dimensione letteralmente caotica della cause che producono specifici effetti sociali.
Un libro che va per la maggiore nella saggistica di queste settimane è il Cigno Nero di Nassim Nicholas Taleb.
Il libro vuole sostanzialmente dimostrare che buona parte di quel che succede, sul piano dell’azione sociale, dipende da fattori teoreticamente imprevedibili, che cioè non possono essere inclusi nei nostri quadri teorici (che come si sa dovrebbero essere assieme esplicativi degli eventi passati e predittivi di quelli futuri). Non siamo, dunque, in grado di formulare nel campo delle scienze umane teorie nel senso compiuto del termine, e dobbiamo accontentarci di glossare a margine gli eventi che sono “accaduti”, per evidenziare proprio (ovviamente solo ex post) quei fattori scatenanti e del tutto impossibili da ipotizzare ex ante.
Un secondo indizio è un pezzo che Remo Bodei ha pubblicato qualche settimana fa sul domenicale del Sole24ore, ma a casa non riesco a trovare l’articolo, e quindi dovete fidarvi (anzi, se qualcuno ha notizie precise di questo pezzo, pubblicato credo all’inizio di giugno, mi fa un grande favore a segnarlamelo).
Il terzo, infine, più privato, è stata una recente conversazione con il mio amico e collega Bjorn Thomassen. Bjorn mi raccontava come lui e i suoi colleghi stiano riflettendo, attorno alla nuova rivista International Political Anthropology, sulla differenza tra cose fatte e eventi accaduti. La maggior parte delle azioni che compiamo, dice questo abbozzo di teoria sociale, non è la conseguenza di scelte (razionali o irrazionali non è una distinzione interessante, in questo contesto) ma piuttosto un mero intersecarsi di eventi che ci succedono. Il semplice essere riconosciuti socialmente come “maschi” o “femmine” non dipende dalla nostra agency, e il tipo di interazione che abbiamo avuto con i nostri genitori nell’infanzia, con gli insegnanti nella scuola elementare o con i nostri pari fino all’adolescenza (una serie di fattori che si sa essere di fatto determinanti nella formazione di qualunque soggettività) sono tutte cose che “ci sono successe” e su cui non avevamo alcun controllo effettivo.
Ecco, dunque, che dopo la fase moderna degli strutturalismi (in cui il soggetto era la risultante di un fascio di relazioni che poteva essere districato dall’analisi sociale, e quindi orientato dalla politica) e la fase postmoderna della agency (in cui il soggetto è ironico homo faber del suo destino) ci avviciniamo a una fase (neopagana? Non c’è un termine per questo modo di vedere le cose, ancora) in cui i soggetti danno importanza al Fato come fattore determinante della struttura sociale e della loro posizione al suo interno. Non so dove ci porterà questa fase ma, a vederla da qui, suona un aggiustamento interessante del feroce pessimismo strutturalista e dell’irragionevole ottimismo postmoderno.

martedì 17 giugno 2008

Vacanza e nostalgia


A metà giugno finisce la radio e finisce la televisione. Si tratta di un rituale talmente assodato che neppure ci facciamo più caso, ma guardate i palinsesti e vedrete che strage di programmi si realizza nelle prime due settimane di giugno. C’è in particolar modo una categoria duramente colpita, ed è quella dei programmi “a striscia”, che occupano cioè una porzione stabile e quotidiana del palinsesto: Striscia la notizia, Affari tuoi, Viva Radio 2, Condor, Caterpillar e dozzine di altri titoli sono andati “in vacanza” alla fine della settimana scorsa o al termine di quella precedente. È vero che il secondo periodo di garanzia si è completato, ma questo non basta a giustificare una scelta che di fatto non ha equivalenti nel mondo del lavoro, e che trova l’unico vero corrispondente nella scuola. A metà giugno, cioè, i conduttori di questi programmi vanno “in vacanza”, e torneranno in video o in audio più o meno fra tre mesi, attorno a metà settembre (l’unica eccezione è il Fiorello di Viva Radio 2, che può imporre i tempi che vuole, e quest’anno “ha fatto sega” fino a febbraio).
Non c’è alcuna ragione intrinseca per questa periodizzazione del palinsesto, dato che i fruitori dei programmi radiofonici e televisivi continuano ancora per diverse settimane a fare la vita di sempre, fatta di lavoro, di ingorghi nel traffico, di spese al supermercato e di ritorni a casa. Le audience di I fatti vostri o di Caterpillar non muterebbero sostanzialmente tranne che per le prime due settimane di agosto, periodo in cui la concentrazione dei villeggianti è tale da modificare sensibilmente il quadro degli utenti radiotelevisivi. La prova che non vi sarebbe alcuna necessità di interrompere molti programmi ai primi di giugno è offerta dal fatto che poi quei programmi vengono rimpiazzati da cloni perfettamente identici (come il caso di Aria condizionata, che sostituisce durante l’estate Caterpillar ma con un formato identico fin nell’intonazione delle voci dei conduttori).
Allora, perché si celebra regolarmente, ogni giugno, il rito del “cari spettatori/ascoltatori, andiamo in vacanza, ci sentiamo/vediamo a settembre”? Io credo che una parte della risposta si debba cercare nella forza evocativa dei mass media cui accennava una citazione di La Cecla che riportavo qualche post fa. I media, proprio perché innescano un simulacro di presenza, attivano necessariamente un atteggiamento nostalgico, la saudade per un passato che si può anche non aver mai vissuto (su questo punto, un esempio classico: pensate a una limousine che passa in bianco e nero tra due ali di folla, l’uomo seduto sul sedile di dietro saluta con la mano ma poi si accascia di colpo, tra lo sgomento della donna che gli siede a fianco: potete ora “vedere” quell’uomo, e sareste in grado di riconoscerlo molto meglio di quanto non potreste riconoscere una fotografia di un vostro bisnonno, eppure cosa avete a che fare voi con John Kennedy?).
Quand’è l’ultima volta che avete avuto tre mesi di vacanza? Io devo tornare alla terza media, perché dall’estate successiva iniziai a fare le stagioni. Tutti voi, comunque, dovete tornare al tempo della scuola, dato che anche all’università si fanno almeno esami fino a metà luglio. I conduttori che vanno in vacanza con i nostri figli o i nostri fratelli minori sono una reminiscenza di quell’epoca. Luca Sofri (Rosario Fiorello, Cirri e Solibello e cento altri) che va in vacanza ai primi di giugno mi garantisce la nostalgica illusione che quel tempo della scuola sia ancora disponibile, che per qualcuno (e allora: perché non anch’io?) l’estate in toto sia un periodo di sospensione dagli impegni, dalle routine, dai “compiti” (notare il doppio senso).
Se Carlo Conti continuasse la sua striscia quotidiana (traduzione: continuasse a lavorare tutti i giorni) fino a fine luglio e poi ricomparisse ai primi di settembre, il suo lavoro suonerebbe maledettamente “normale”, così simile al nostro. Tanto simile al punto di rischiare di essere repellente. Per questo l’effetto “vacanza estiva” colpisce soprattutto i programmi a striscia, quelli cioè in cui la presenza dei conduttori è costante come il nostro obbligo di timbrare il cartellino, e puntuale come dobbiamo essere noi quando ci presentiamo in ufficio.
La radio e la televisione vanno in vacanza per far sì che noi si continui ad andare a lavorare. Un po’ più accaldati, anche un po’ più frustrati, forse. Ma con quel filo di nostalgia per i nostri anni giovanili che ci illanguidisca al punto da non avere più la voglia di ribellarci.

lunedì 9 giugno 2008

Riforma e distinzione


Il "focus" del Corriere di oggi (9 giugno) è dedicato alla riforma universitaria del 3+2. Il giudizio è sintetizzato nel titolo: Laurea breve bocciata. I pareri poi riportati sono discordanti, e se Luciano Canfora parla della riforma come “follia”, Umberto Eco ricorda che il 3+2 esiste in tutta Europa e l’Italia non ha fatto altro che adeguarsi. Certo, è stata l’Italia ad accettare il modello “nordico”, e non viceversa, come fa notare Salvatore Settis nelle stesse pagine, ma forse questo dipende dal fatto che la “resa” delle università in quei paesi – in termini di rapporto con il sistema produttivo, di contatto tra università e società civile, di contributo alla crescita dei paesi dove quelle università si collocano, di risultati di ricerca – era infinitamente superiore rispetto all’Italia perché il nostro paese potesse costituire un modello di alcunché, in questo campo. Forse ci siamo adeguati al modello inglese (e non viceversa) perché le università inglesi erano, al momento di far partire la riforma, infinitamente migliori delle nostre.
La riforma non sta andando bene, ma questo dipende più dalle contingenti interpretazioni che si sono date delle cose da fare, vale a dire il ridicolo sistema con cui si sono valutati i crediti formativi, e il sistema dei “moduli” dall’altro. La riforma sta fallendo perché chi doveva realizzarla (il corpo docente) l’ha di fatto boicottata. Non sto dicendo che ci sia stato un esplicito accordo per farla saltare, ma la sua realizzazione compiuta avrebbe comportato un mutamento tale negli stili di didattica che molti docenti non sono stati semplicemente in grado di compiere.
Le ragioni di questa inerzia del sistema docente possono essere molte, ma qui vorrei limitarmi a indicarne una, che possiamo sintetizzare come “il rischio democratico della riforma”.
Il focus del Corriere riporta una serie di dati statistici, alcuni dei quali vengono commentati negli articoli che li accompagnano. Così ci si compiace che l’età media delle lauree (anche specialistiche) si sia abbassata rispetto al vecchio ordinamento, o ci si rattrista perché gli studenti partecipano al programma Erasmus sono in calo, ma negli articoli nessuno sembra fare riferimento a due dati che invece mi paiono estremamente rilevanti per l’intensità del loro mutamento pre- e post riforma.
Il primo dato si riferisce alle esperienze lavorative durante gli studi: mentre con il vecchio ordinamento ad aver lavorato durante l’università era solo il 55,1% degli studenti, con il nuovo ordinamento questo numero schizza al 73,2% per la triennale e al 70,9% per la specialistica. Questo dato può significare due cose: che frequentano l’università persone già inserite nel mondo del lavoro che intendono migliorare le loro competenze (e le loro prospettive di carriera, immagino) qualificandosi ulteriormente; oppure che hanno iniziato a frequentare l’università persone che un tempo sarebbero state attratte direttamente dal mondo del lavoro dopo il diploma. Le due cose sono ovviamente vere entrambe, e se molti sono “tornati” a studiare dopo anni di lavoro, altri hanno continuato a studiare pur se la loro condizione socio-economica li avrebbe, con un altro sistema, facilmente allontanati dal modo dello studio.
Questa interpretazione sembra confermata dal secondo dato cui facevo riferimento, che è la percentuale di studenti che hanno almeno un genitore laureato. Con il vecchio ordinamento questa percentuale era del 45,1%, vale a dire che, qualunque università aveste avuto modo di visitare fino al 1999, quasi uno studente su due aveva un genitore già laureato. Ora questo numero è crollato al 23,5% per la triennale e al 31,1% per la specialistica. Chiunque abbia fatto un po’ di sociologia di base dovrebbe avere la consapevolezza della rilevanza di questo dato, che segnala un mutamento radicale nella struttura sociale del paese. Non sono più i laureati a generare figli che si laureeranno (com’era di fatto prima della riforma del 1968), e non è più neppure vero che la laurea di un genitore è un fattore che predice quasi al 50% l’eventualità che un figlio si laurei: oggi quella percentuale è scesa a meno di un terzo per le lauree specialistiche e addirittura a meno di un quarto per la triennale. Significa che la riforma ha scardinato il sistema di casta dell’accesso all’istruzione terziaria, portando all’università nuove masse di studenti che non portano da casa alcuna frequenza con l’alta istruzione. Perché nessuno sembra fare caso a questo dato? Dopo la riforma del Sessantotto si tratta del cambiamento strutturale più evidente e più importante che l’università italiana abbia attraversato, eppure molti stanno lì a discettare sul 3+2 come fosse un delirio o l’opera di un folle, senza tenere conto delle sue valenze profondamente democratiche, se per democrazia intendiamo consentire a tutti, indipendentemente dal censo e dalla provenienza familiare, di accedere equamente alle risorse disponibili.
Ora, se si pensa alla struttura sociale dell’università della riforma, è evidente una “lotta di classe” in corso: gli studenti (che non hanno genitori laureati, che vengono dalle classi impiegatizie e lavoratrici, che non hanno “la Cultura” come consuetudine domestica, che devono imparare sui libri chi sia Proust e cosa sia la nostalgia borghese dei bei tempi andati) dovrebbero essere istruiti da un corpus docente che invece è ancora almeno per la metà fortemente connotato in senso classista, docenti che vengono da famiglie “bene” in cui le ragazze studiavano il piano e i maschi tiravano di fioretto, famiglie soprattutto in cui “la Cultura” era un modo fondamentale per distinguersi socialmente, per distaccarsi dalla plebe cafona che ascoltava le canzoni di Massimo Ranieri e leggeva al massimo Grand Hotel. Ora quegli stessi docenti che con tanta fatica hanno prodotto la loro immagine sociale di se stessi dovrebbero “regalare” il loro sapere ai figli di quelle masse da cui loro si sono distinti: non se ne parla neppure, mi pare scontato.
La riforma sta fallendo perché chi avrebbe dovuto realizzarla non poteva farlo pena la perdita del proprio privilegio distintivo, e non si è mai visto una classe applicare una pratica sociale che porta alla propria indistinzione, vale a dire alla propria estinzione come classe.
La riforma si può ancora realizzare se quella porzione del corpo docente che proviene dalle classi impiegatizie e operaie avrà il coraggio di allearsi con gli studenti, facendoli crescere socialmente e politicamente. Sono cioè i docenti che vengono da famiglie di non laureati (come la mia) il fulcro politico della fase in atto, dato che sono gli unici ad avere di fronte un’alternativa. Mentre infatti i docenti “borghesi” e gli studenti “proletari” hanno di fronte un’unica prassi, che viene dalla loro storia di classe, i docenti di estrazione proletaria debbono decidere se allearsi coi docenti borghesi in nome di una distinzione acquisita (continuando di fatto ad essere paria del mondo accademico, il cui potere è concentrato nelle mani della porzione borghese) oppure allearsi con gli studenti proletari, in nome della comune origine sociale.

venerdì 6 giugno 2008

Ricercare e riflettere

Martedì scorso sono stato tutto il giorno in biblioteca, alla Nazionale di Roma. Non è certo la biblioteca più efficiente del mondo, niente scaffali aperti, la distribuzione è rigidamente ogni mezz’ora, ma da un anno hanno almeno eliminato i foglietti delle richieste cartacee, sostituite da richieste direttamente via computer.
Erano più di due anni che non ci mettevo piede, e quando ho acceso il portatile ho subito controllato se ci fosse una rete wireless per internet. Nulla.
Che peccato, ho pensato, se c’è veramente un posto dove varrebbe la pena di avere internet è proprio una biblioteca: leggi e trovi uno spunto, fai una ricerca su internet, che ti rimanda a un altro testo, che puoi cercare poi in biblioteca. Sembrerebbe un sodalizio virtuoso. E invece, almeno per me, non è così. Non so da cosa dipenda, forse è un limite generazionale, ma non riesco ad essere veramente produttivo nello studio se ho internet aperto “sotto”. C’è sempre qualcosa che mi porta via da quel che sto facendo: la posta da controllare, le notizie da leggere, quel nome da verificare su Wikipedia. E ho pure rinunciato da quasi un anno a qualunque servizio di messaging. Skype e la chat di Google mail azzeravano la mia capacità di produrre qualcosa di sensato, e ho dovuto semplicemente smettere di collegarmi.
Forse per chi fa altri tipi di lavori è diverso, ma se, come nel mio caso, si tratta di leggere testi e ragionarci sopra, il processo migliore è ancora quello sequenziale: un testo alla vota, una schedatura alla volta. Poi, quando sono a casa (ma spesso anche in motorino) trovo collegamenti, creo allacci tra i diversi spezzoni, mi produco un ipertesto ad accesso non sequenziale. Ma per poterlo fare devo prima avere sequenziato i singoli pezzi. E internet mi crea enormi ritardi in questo lavoro.
Dicevo della biblioteca. Lì, senza internet, costretto a leggere e schedare e null’altro, la mia resa è almeno triplicata in termini di pagine lette e schedate.
Paradossalmente, mi creo meglio una struttura del materiale che sto studiando se posso lavorare all’antica. Non è, ci mancherebbe, un elogio dei bei tempi quando scrivevamo con inchiostro e calamaio. So quanto mi è utile fare ricerche in rete, scaricare materiale, trovare cose impensate. Ma è come se la rete fosse perfetta per il lavoro di scouting, mentre è controproducente quando si tratta di assimilare quel materiale, farlo mio, depositarlo dentro i miei pensieri e farlo germogliare in pensieri nuovi. Per questo, ho bisogno di silenzio, non del caos della rete. E ho bisogno di uno spazio mentalmente limitato, non della sterminata prateria di internet. Devo crearmi una struttura temporale, e capire quando è il momento di cercare e quando, invece, è il momento di riflettere.

mercoledì 4 giugno 2008

Nostalgia da tavolino

In Surrogati di presenza, un libro che per alcuni versi trovo irritante ma comunque ricco di ottime intuizioni, Franco La Cecla offre un’interessante interpretazione di un tema che ho affrontato altre volte in questo blog, vale a dire il rapporto tra Internet e nostalgia, e in generale tra identità e revival. Dice La Cecla:

I media sono formidabili provocatori di nostalgia, perché sono essenzialmente evocativi: è l’evocazione la vera trasmissione che producono […] Chi oggi parla di ciò che accade nella rete, per esempio, parla di cinismo, di nichilismo, ma non afferra a fondo che il carattere nostalgico della rete stessa è sostanziale, non accessorio. La rete, simulando la realtà, sostituendola, la evoca, evoca con struggimento l’incontro che postula (p. 19).

Il punto forte è che ci spiega l’effetto Blade Runner che sembra pervadere il mondo: se i media trasmettono l’evocazione, posso provare effettivamente nostalgia per qualcosa che non ho mai sperimentato, dato che vengo colpito mediaticamente dalla sua ombra, dal suo “ricordo” (che è ricordato da qualcun altro, ma che posso esperire come fosse un ricordo mio).

Il punto debole è che anche questa proposta interpretativa tende a separare “la realtà” da “i media” (almeno i new ones), come se stare di fronte a un computer pigiando tasti o facendosi venire dolore al braccio a forza di mouse non fosse “reale”, tanto quanto scrivere una lettera o parlare al telefono.