2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

domenica 11 febbraio 2018

Il tramonto della razza

Si noti che avevo cercato "racial differences" su wiki
 commons e non esiste nulla.
Esiste invece ethnic differences e viene fuori questa sciocchezza.
decisamente "disputable" come è ammesso nella presentazione.
Si sta discutendo su più fronti se proporre la cancellazione della parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione Italiana. In particolare, sono gli antropologi fisici e i genetisti a far notare l’assurdità dell’utilizzo di un termine assolutamente non scientifico nella Costituzione, che darebbe adito a giustificazioni postume sul suo utilizzo, come quella del candidato del centro-destra alla Regione Lombardia.
Ribadendo che anche l’antropologia culturale italiana ritiene il concetto del tutto non scientifico, non corrispondente ad alcunché di reale nello spazio fisico, vorrei, da antropologo culturale, impostare la cosa in modo diverso, per provare – udite udite – a dimostrare che il termine “razza” non andrebbe tolto dalla Costituzione, per il fatto che le costituzioni sono creazioni politico-culturali, non scientifiche, e devono parlare il linguaggio naturale delle popolazioni di cui sono le costituzioni, non il linguaggio formale della comunità scientifica (che lavora, almeno idealmente, oltre le differenze culturali e politiche).
Parto da un sintomo. Per giustificare la richiesta di rimozione del termine, l’antropologo fisico Gianfranco Biondi (primo firmatario con la mia collega di Tor Vergata Olga Rickards, anche lei antropologa fisica, o genetista che dir si voglia, di fatto) ha dichiarato al manifesto che i padri costituenti, usando “razza” all’articolo 3, “è come se avessero scritto che il sole gira attorno alla terra”.
Ora, la concezione corretta (scientifica) dell’eliocentrismo non ci impedisce, nel linguaggio ordinario (anche il quello tecnico degli almanacchi e delle comunicazioni ufficiali), di usare espressioni come “il sole sorge alle ore” e “il sole tramonta alle ore”. Si tratta di un errore o di una convenzione culturale, per cui, dal punto di vista del linguaggio ordinario (dal punto di vista culturale, diremmo noi antropologi culturali), fingiamo (o mettete il verbo che volete, basta non mettiate “crediamo”, che non corrisponde a quel che succede per la maggior parte di coloro che usano i verbi sorgere o tramontare) che il sole si muova nel cielo e quindi possa tramontare e sorgere di moto proprio? Dovremmo cancellare Machado, che chiedeva al poeta cosa cercava nel tramonto, visto che il tramonto è un errore prospettico? Oppure dovremmo rimproverare due volte al giorno gli istituti geografici che insistono nel dirci a che ora il sole “sorgerà” domani?
Le culture, vivaddio, creano loro costruzioni che sono perfettamente reali dentro la rete semiotica che le costituisce, e si interessano molto poco del fatto che queste costruzioni siano scientifiche o meno, corrispondenti cioè a oggetti fisici misurabili con indicatori indipendenti dal soggetto. Del resto, se dovessimo togliere razza dalla Costituzione, allora dovremmo cancellare anche democrazia perché non mi pare esista un oggetto reale effettivo in grado di manifestarsi con autoevidenza che corrisponda al contenuto semantico del termine.
Dobbiamo insomma distinguere tra razza1, di cui parlano giustamente gli scienziati, e razza2, di cui può parlare il senso comune.
Razza1 è un non ente fisico, semplicemente non esiste, è una sciocchezza, una stupidaggine, una bestialità, un assurdo: pretendere che gli esseri umani siano compartimentabili in gruppi distinti in base a caratteristiche fisiche osservabili (colore della pelle eccetera, si dice fenotipicamente, in antropologia fisica) e, soprattutto, pretendere che a queste caratteristiche fisiche nettamente separabili corrispondano in modo biunivoco capacità intellettuali o qualità morali è una schifezza vergognosa che non ha ragione d’essere. E’, insomma, spacciare per vera una visione geocentrica del sistema solare.
Razza2 è invece il modo in cui io, cittadino italiano che ha visto il primo uomo “di colore” all’età di 12 anni (ricordo perfettamente lo choc, in un supermercato veneziano, e lo choc fu ancora maggiore quando il signore mi guardò cogliendo il mio stupore e mi apostrofò in dialetto) posso riconoscere se una persona ha, molto genericamente, i suoi antenati in alcune zone dell’Africa settentrionale o subsahariana, da zone dell’Asia o tra i nativi amerindiani. Devo imparare che questa informazione non significa nulla, che il signore di colore mi può parlare in veneziano, come Balotelli parla con un riconoscibile accento bresciano e molti dei ragazzini di Torpignattara parlano un romanaccio pesante indipendentemente dal colore della pelle e della forma degli occhi. Le razze2, dal punto di vista culturale esistono eccome, esattamente come esiste la democrazia, l’amore, il libero arbitrio e l’anima (per chi crede in questi enti culturali).
Il lavoro che va fatto, secondo me, non è quello dei censori, imponendo un uso tecnico per un termine del linguaggio comune, ma quello dei maestri. Che poi è quello che hanno fatto i padri costituenti, dicendoci che le differenze fisiche, per quanto evidenti possano essere, per quanto ci possano stupire, sorprendere e addirittura spaventare, non significano nulla anzi, non vogliamo che significhino nulla. Certo, è confortante sapere che non c’è alcuna base biologica del razzismo, che il principio su cui si basa il razzismo (vale a dire la differenza biologica tra esseri umani raggruppati) è falsificato proprio dalla scienza stessa (alla quale, originariamente, i razzisti fecero appello).
Ma il fatto che la scienza abbia definitivamente collocato la razza1 negli enti non esistenti non ci aiuta a risolvere i casi come quello di Fontana: lui dice razza2, dice differenze visibili, dice Romeni e musulmani, dice Ghanesi e neri, fa un mischione pretendendo che attorno a quell’uso vergognoso (associare differenze visibili a qualità morali) si coaguli un consenso possibile.
Continuiamo (con circospezione, mi raccomando) allora a parlare di razze2 come costruzioni culturali e lasciamo ai padri costituenti il merito che spetta loro, vale a dire di aver scritto a chiare lettere che quelle differenze (che noi, nel nostro sistema culturale, abbiamo imparato a riconoscere come “oggettive”) non possono e addirittura non devono significare nulla sul piano della convivenza sociale. Aumentiamo non la repressione, ma la consapevolezza semmai: lavoriamo assieme perché chi usa razze sappia che sono oggetti del modo in cui le nostre culture ci spingono a costruire il mondo delle differenze, sono oggetti che abbiamo imparato a percepire ma non significano nulla di nulla, perché quei segni esteriori (e attenti che il gioco vale anche per la parola etnia, che ormai ha sostituito il termine razza nell’uso comune delle persone sensibili, rischiando di occultarne gli aspetti politicamente pericolosi) nulla ci dicono di cosa sa, come pensa e come agisce quella persona con quel colore di pelle, con quegli abiti, con quell’accento. Riconosciamo che dentro il nostro senso comune, il senso dell’ovvio dentro cui ci immerge la nostra cultura, le razze2 esistono, ma non significano nulla. A meno che non ci inducano a riflettere, affascinati come di fronte a un bel tramonto, sulla straordinaria bellezza della differenza che ci fa tutte e tutti umani.

giovedì 8 febbraio 2018

Di cosa parliamo quando parliamo di Antropologia culturale

Non ne ho ricevute poche, in quasi vent'anni di onorata carriera, di lettere come questa. Ma forse è ora di superare la tendenza a privatizzare questi giudizi, che invece sono una pietra miliare per sostenere il nostro lavoro, sempre più sprezzato (maledetti baroni!) o indirizzato verso strade sbagliate dalle istituzioni che ci dirigono (vi raccomandiamo: professionalizzare, portare i ragazzi al successo, o almeno al lavoro!). Io invece voglio continuare a lavorare per questo, perché credo che la mia disciplina sia un esercizio di consapevolezza, uno strumento per una vita più intensa individualmente, e più solida socialmente.

Annamaria

7 feb (1 giorno fa)
me
Buongiorno prof. Vereni
A conclusione del percorso dei due moduli di antropologia culturale, avverto la necessità di esprimere il mio personale ringraziamento per l’impegno e la dedizione che ha mostrato nell’intero percorso formativo. Ho avuto modo di constatare quanto ogni singola azione fosse studiata e progettata con lo scopo di arrivare ai partecipanti, e di come minuziosamente abbia studiato strategie operative, tempi e luoghi, al fine di rendere questo percorso assolutamente indimenticabile.
Le confesso che ho inserito questi due esami quasi casualmente, ma già visitando il suo blog, mi sono imbattuta in un post che mi ha sorpreso e positivamente colpito per l’estrema semplicità con la quale descriveva una giornata al tramonto nel quartiere di Torbellamonaca. Ho iniziato quindi ad ascoltare le registrazioni delle lezioni con passione e costanza e senza alcuna difficoltà (mercato autoregolato a parte!!!), inserendole in alcuni momenti meno caotici della mia giornata!
Ad oggi sono assolutamente felice di aver fatto questa scelta, anche se onestamente non sono ancora riuscita a capire se mi ha più attratto la conoscenza dell’antropologia o la modalità di acquisizione delle conoscenze.
Qualunque sia il motivo, so per certo, che molto spesso mi imbatto in situazioni che precedentemente mi sarebbero sembrate assolutamente ovvie, e che invece ora analizzo più profondamente per cercare di capire se esistono altri punti di vista che non riesco a cogliere.
In qualità di genitore spero di riuscire a trasmettere ai miei figli, seppur nel mio piccolo, una minima parte di quello che Lei ha insegnato a me.
La ringrazio di cuore e cordialmente la saluto

Piero Vereni

15:41 (5 minuti fa)
Annamaria
Cara Annamaria,
secondo me sopravvaluta le mie qualità di stratega della didattica, visto che molte delle cose che faccio sono raffazzonate e improvvisate, ma la ringrazio tantissimo del suo giudizio positivo, soprattutto nei confronti dell'utilità di una materia che molto spesso è stata la cenerentola delle scienze sociali e che oggi recupera un poco di attenzione pubblica solo per la "paura del diverso" che incrocia sempre più spesso la questione dell'immigrazione.
Quando ricevo segnali di fumo come il suo, oltre a un moto di generoso narcisismo, sono mosso anche dal convincimento di essere sulla strada buona, che il mio lavoro acquisisca un senso più ampio della banale somministrazione di una pratica burocratica a utenti in cerca di un pezzo di carta. Mi conforta sapere che il sapere che cerco di trasmettere si adagia nelle pieghe del quotidiano, diventa cittadinanza prima che professionalità. Questo conta, sul serio, del lavoro che faccio qui dentro. Conta più di tutto.
Grazie mille
p

piero vereni
roma tor vergata
dipartimento di storia, patrimonio culturale, formazione e società
department of history, humanities and society
ex facoltà di lettere - stanza 16 primo piano
via columbia, 1 - 00133 roma

domenica 4 febbraio 2018

Il Fantasma della Patria


Nel Veneto bianco dove sono cresciuto io, prima elementare nel 1969, bandiere italiane non ce n’erano proprio. Ricordo in classe la foto del presidente (Saragat, ma lo ricordo poco, mentre mi è rimasta impressa l’elezione di Giovanni Leone), sempre a fianco al tristissimo crocifisso standard dell’epoca, con un Gesù fatto in serie, di una plastica color caramello.
Per veder sventolare una bandiera che non fosse il gonfalone di San Marco quelli della mia generazione hanno dovuto aspettare il Mundial del 1982, Pertini che gioca a carte con Causio, Rossi Rossi Rossi gooool, quelle cose lì.
Avevamo altri orizzonti, da un lato più ampli, l’universo cattolico della fede, dall’altro più ristretti, il Veneto, l’orizzonte piatto della pianura punteggiata di campanili. La nazione italiana non ci apparteneva.
Sappiamo quanto questo clima catto-democristiano abbia nutrito il separatismo leghista (fin quando la lega era separatista) per esplicita vocazione papalina e anti-nazionale della Chiesa Cattolica italiana, così forte in Veneto da divenire una sorta di stato nello stato, ma i tempi, vivaddio, sono cambiati, e ci troviamo oggi a parlare di nazionalismo italiano di matrice leghista, un ossimoro fino a pochi anni or sono.
Ieri sera mi hanno chiamato dalla redazione del Giornale Radio Rai per sapere che ne pensavo, da antropologo, della tentata strage di Luca Traini a Macerata. Come al solito, sintetizzare in venti secondi una riflessione vera (che non sia puro senso comune e discorso da umarel) è praticamente impossibile, signora mia, ma l’antropologia culturale deve assumersi delle responsabilità pubbliche, e quindi. Ho cercato di dire sostanzialmente una cosa.
Socialmente, un paese che utilizza la razza come criterio di differenza noi/loro è arrivato al lumicino della sua legittimazione culturale. Non mi riferisco a Luca Traini, sfigato per ragioni sue, ma a chi dice, più o meno velatamente, di comprenderne le ragioni, non nel senso antropologico di capire cognitivamente (senza condividere moralmente) quale sia il sistema morale che porta a certe decisioni, ma piuttosto di legittimare l’esasperazione di una data condizione, anche quando porta a gesti inconsulti. Qualcosa di simile si era già visto nel 2010, con l’arresto di Alessio Burtone, che con un pugno aveva ucciso l’infermiera Maricica Hahaianu. È la lunga storia storia che “dai, alla fine qualcuno che li metta al posto ci vuole”. Attenzione, credo certo sia deleterio l’atteggiamento del giustiziere, ma qui vorrei enfatizzare il pronome collettivo “li”, loro all’accusativo insomma. Traini viene compreso perché ha chiarito una volta per tutte, a colpi di pistola, che Loro sono Loro, che basta il colore della pelle per attribuire l’Alterità radicale del Mostro:

Innocent Oseghale è nero
Innocent Oseghale è un mostro
I neri sono mostri.

Inutile rimandare i fascisti a scuola di logica, inutile spiegare che un sillogismo non si può basare su due premesse minori, vale a dire su enunciati che riguardano individui specifici senza un “giudizio universale affermativo” (tutti gli uomini sono mortali). Forse è più semplice ammorbidire le dure cervici utilizzando la dimostrazione per assurdo:

Pacciani era toscano
Pacciani era un mostro
QUINDI?

Ma di nuovo, da antropologo, prendo le “giustificazioni” (per non parlare degli inneggi) del comportamento di Luca Traini come il sintomo (gravissimo) di un collasso culturale del paese. Se consideriamo i nostri in base al colore della pelle vuol dire che abbiamo smarrito il senso della civiltà, intesa come la capacità di coabitare gli spazi urbani (civitas) e la politica (polis). Se dobbiamo regredire al corpo per decidere chi è dentro e chi è fuori significa che non abbiamo altro cui appellarci. Se si spara ai neri o si dice che questo gesto è comprensibile, significa che non si ha alcun orizzonte sociale della propria appartenenza, non c’è alcuna scelta (voglio stare con questi, non con quelli) che non sia dettata dalla natura (devo stare con i bianchi) e allora siamo ridotti al rango di animali gregari, sviluppiamo solo un’identità territoriale (questo spazio è nostro).

Attenzione, non sto dicendo che quelli che arrivano sono tutti buoni e noi che (non) li accogliamo siamo tutti cattivi. Dico più o meno l’inverso, che buoni e cattivi si distribuiscono attraverso tutti i Noi e tutti i Loro che riusciamo a concepire, ma sicuramente la contrapposizione sulla base delle differenze fisiche visibili è risibile, se non portasse a queste tragiche conseguenze. Chi vi si aggrappa (come lo sfigatissimo Traini, che manco in palestra riusciva a farsi accettare; come i troppi sfigati che a lui inneggiano pubblicamente) lo fa perché non ha altro, non ha un gruppo di riferimento vero, non ha un sistema sociale affidabile, non ha un’idea politica, non ha un progetto di crescita sociale. Ha solo il terrore della propria condizione di sfigato della società dei consumi che vive la presenza altrui come competizione perenne, e allora si aggrappa al suo corpo, lo pompa in palestra, se ne prende cura come del suo unico bene, e lo trasforma in unità di misura del bene e del male, a seconda della distanza dal modello che egli stesso incarna. Fateci caso, tutto il fascismo di questo stampo è affascinato dal corpo come oggetto dell’espressione del Sé in tutte le dimensioni (estetica, politica, morale) e produce una tendenziale riduzione di tutto il Politico al Biologico. Come c’erano i proletari, che avevano solo la prole come unico bene, ci siamo ridotti nella società industriale avanzata ai somatari, che hanno il soma, il corpo, come unico loro possedimento e metro.

La Patria allora, la Bandiera diventano null’altro che orpelli fisici, espressioni corporali come il tatuaggio, il bicipite rigonfio, il cranio pelato, il pizzetto curato. Non c’è Pensiero, c’è solo un Corpo solo, solissimo, che cerca disperatamente di trovare connessioni sociali. Alla ricerca di un Noi che compensi la disperazione di una vita oggettivamente di merda, il Corpo non ha i mezzi per elaborare il Noi dentro un Pensiero e si scatena nella prassi di De-finizione del Loro, scontornati sulla stessa base biologica che definisce quel Corpo Senza Senso Sociale.

Dobbiamo riportare un po’ di pensiero dentro quei corpi, parlare con Traini, spiegargli piano piano che se stiamo assieme non è per legami fisici, ma per scelte morali, e quelle riguardano il nostro Pensiero. Si tratta di rimodulare un orizzonte culturale sbilenco. Se Traini fosse un musulmano parleremmo sicuramente di radicalizzazione, e in effetti il quadro cognitivo è lo stesso: un soggetto destrutturato, ridotto all’osso di sé stesso, costretto a pensarsi come corpo a confronto con altri corpi. Tutti quelli che hanno ancora un senso della cittadinanza come convivenza sulla base di alcuni principi condivisi devono impegnarsi in questo senso: abbassare i toni, parlare con calma ai testoni radicalizzati (ce ne sono di tutti i tipi, nigeriani compresi) che hanno smarrito il lume della ragione come tentativo di comunicazione, come sforzo di pensare che dall’altra parte ci sono altri esseri umani, con i nostri dubbi, i nostri rancori, ma anche le nostre speranze e ambizioni. Non me la voglio tirare, ma sicuramente se c’è una disciplina che pratica in maniera sistematica questo approccio è l’antropologia culturale. Studiatela, e fatela studiare a Luca Traini e a quelli che “lo capiscono”.