2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

martedì 31 marzo 2020

Antropologia e storia delle religioni 2019/20

Gli studenti e le studentesse che volessero seguire il modulo (da 6cfu) di Antropologia e storia delle religioni (804000926) o Antropologia delle religioni (8048599) dell'Università di Roma Tor Vergata possono collegarsi tramite Zoom per le dirette (link indicato alle date e negli orari di lezioni, riportati nel calendario qui a lato) oppure scaricare la registrazione delle lezioni dalla Playlist dedicata nel mio canale YouTube, dove verranno aggiunte regolarmente le nuove lezioni. Le lezioni si svolgono solitamente al lunedì dalle 9.15 alle 10.45, il mercoledì dalle 16.15 alle 17.45 e il venerdì dalle 15.15 alle 16.45. Come negli anni precedenti, cercheremo di studiare il rapporto tra antropologia culturale e scienze religiose e racconteremo in modo particolare la funzione della religione come "sistema di pensiero" o, come diceva Clifford Geertz, come "sistema culturale".

mercoledì 25 marzo 2020

Cosa c’entra l’antropologia con il coronavirus

Nulla, è ovvio. Gli antropologi non sono epidemiologi, non sono medici, non sono biologi, non sono virologi e non devono parlare di prognosi, diagnosi, terapie, diffusione e contagio in questo senso medico e bionaturale.

Visto che però molti hanno letto i miei ultimi post su questo tema, e che i commenti, le critiche e le annotazioni sono state veramente tantissime, provo a riassumere alcuni punti, soprattutto per ringraziare tutte e tutti per l’attenzione che hanno dimostrato per quel che ho condiviso.

1. Stare a casa è una buona cosa. Anzi, è un’ottima cosa. Ma non è l’unica cosa da fare e se l’attenzione si concentra sullo stare dentro casa il più possibile a discapito di come si sta quando non si sta a casa, rischiamo di fare danni da trascuratezza o da inconsapevole avventatezza. Non sono l’unico, credo, che ha raccolto storie di persone fermate da pattuglie a piedi che senza mascherine fanno ramanzine e fanno compilare i moduli a stretto contatto di gomito chinandosi a pochi centimetri dalla faccia dei passeggianti mentre fanno il loro pistolotto del “restate a casa”. Non sono l’unico ad aver fatto file chilometriche con tante, tante persone. Non sono l’unico che ha visto gente insultare dai balconi i passanti, solo perché erano passanti. Non è questo un buon modo di affrontare la questione, se l’obiettivo è rallentare l’espandersi del virus.

2. Se “restare a casa” diventa un fine in sé e non un mezzo tra i tanti (anche tra i principali, ma non deve essere l’unico) per abbattere i rischi del contagio, a me, come antropologo, si accende la lampadina rossa: allarme simbolico, allarme simbolico. Come italiano non posso non pensare allo spazio della casa come spazio simbolico della famiglia (istituzione fondamentale e molto fantasticata, molto, in questi anni di sua riconfigurazione strutturale) e penso che in Corea del Sud la situazione dei contagi è assai diversa dal caso italiano anche per questo.

3. Cioè, un conto è considerare lo spazio come un piano cartesiano fratturato tra spazi sicuri (la casa) e spazi pericolosi (la strada) a prescindere, come si è fatto prevalentemente in Italia, e un conto assai diverso è considerare lo spazio come costruito fisicamente da una raggiera che si diparte da ogni singolo individuo infetto, per poi da lì (da ogni caso singolo) ricostruire lo spazio come sistema relazionale interindividuale di distanze relative, da mappare punto a punto, come ha fatto invece la Corea del Sud applicando una diagnosi sistematica dell’intorno sociale dei casi via via scoperti, e procedendo a testare e semmai isolare tutti coloro che sono entrati in quell’intorno. L’effetto sulla capacità di contenimento è evidente: in Corea il tempo di raddoppio del contagio è stato fin da subito due settimane, pur senza chiudere tutti gli spazi pubblici, in Italia solo ora comincia a decrescere verso i tre giorni.

4. L’antropologia culturale dice, (semplicemente o complicatamente, dipende), che non c’è nessuna ragione oggettiva o utilitaristica per misurare lo spazio come hanno fatto gli italiani (posti dentro/posti fuori) o come hanno fatto i coreani (punti vicini/punti lontani) ma che sono le culture a scegliere questa concezione dello spazio, con le conseguenze che vediamo in termini di tenuta sociale e dei rispettivi sistemi sanitari. Va benissimo, gli italiani amano le loro famiglie, i governanti sono convinti che la reclusione familiare sia la strategia migliore, ma come cittadino non posso far notare che ci sono strategie alternative, che sembrano funzionare meglio.

5. Il rilievo che “quelli sono asiatici” e per loro è “naturale” sentirsi come individui interconnessi direttamente al sociale e quindi sono più inclini a seguire le regole e meno preoccupati della loro singola privacy, non ha alcun valore, proprio perché da antropologo so benissimo che le culture non sono blocchi compatti immutabili e per necessità o per inerzia possono cambiare anche in tempi brevi. Meno di cinquant’anni fa si fumava nei cinema, e fino a quindici anni fa si fumava nei ristoranti. Oggi gli sparuti fumatori rimasti (una minoranza che già può vociferare la soppressione dei suoi diritti di base, fin quando non si estinguerà) proverebbero imbarazzo se qualcuno gli offrisse una sigaretta al ristorante, o in vaporetto, come mi capitava da ragazzo a Venezia. E se a Napoli quasi il 70 percento degli automobilisti ora usa le cinture di sicurezza in auto, a me pare la prova inconfutabile che le culture possono cambiare, e cambiano anche in fretta se necessario.

6. Ma, in fondo, io intendevo tutt’altro, quando ho cominciato ad assumermi sta rogna di parlare pubblicamente, da antropologo, del coronavirus. C’è stato anni fa un lungo dibattito (in parte ancora in corso, pur se sopito), dentro la mia disciplina, se dovesse prevalere un’epistemologia “indiziaria” (studiamo indizi = come Sherlock Holmes l’antropologia delimiterebbe le circostanze delle cause del Reale) oppure un’epistemologia “interpretativa” (studiamo sintomi = come Sigmund Freud l’antropologia cercherebbe i segni del significato sociale del Reale). È noto che parteggio da un quarto di secolo per gli interpretativisti, ma questo poco importa gli esterni al dibattito. Più importante è rimarcare un’altra cosa: io credo che l’antropologia sia, sempre nella mia visione, soprattutto una disciplina essoterica, vale a dire condannata a una dimensione pubblica di servizio. Siamo volpi, non ricci ci ha insegnato Isaiah Berlin, il che non significa solo che andiamo in giro a rubacchiare qui e lì idee e letture, ma che quel che comprendiamo va fatto circolare rapidamente, pena il suo insterilirsi nella muffa delle culture defunte. Se non impariamo a occupare una porzione significativa del senso comune, se non sappiamo portare nella sfera pubblica le nostre competenze sul rito, la morte, il pericolo, la purezza, l’amicizia, il nemico, il capro espiatorio, il dovere, la libertà individuale, il potere e mille altri segni che schizzano dai rostri del coronavirus mutando senso e creando scompiglio morale oltre che fisico, io dico che il nostro sapere, per quanto ci sia caro, conta ben poco. C’è gente che soffre, che è confusa, che è angustiata oltre ogni limite. Abbiamo o non abbiamo gli strumenti per dare una mano alle nostre comunità ferite? Se ce li abbiamo, cosa aspettiamo a condividerli con chi ne ha bisogno ora? Vogliamo fare come i banchieri tedeschi nel 2008, che tennero chiusa la borsa quando più c’era bisogno di far circolare ricchezza in Europa? Se invece non abbiamo alcuno strumento conoscitivo, perché continuiamo ancora a considerarci scienziati e studiosi, e non accettiamo il fatto (tristissimo per me) che siamo solo piccoli dilettanti del narcisismo distintivo?

domenica 22 marzo 2020

#IoStoAllaLarga


Da antropologo, cerco di notare gli scarti di senso, cioè quei punti in cui “culture come discorso” e “culture come pratiche” non coincidono e producono un effetto di distorsione che si nota però più “da fuori”, con lo sguardo straniante dell’antropologia, che non da dentro, nella vita quotidiana di chi quella cultura vive. Con la crisi medica e sociale in corso, mi pare evidente che c’è uno scarto tra quel che la nostra società dice di voler fare, e quel che di fatto realizza, forse obbedendo a logiche motivazionali di ordine morale più che economico-funzionale.
Dobbiamo contenere la diffusione del coronavirus e questo obiettivo primario va perseguito non nel bloccare il virus (obiettivo di fatto impossibile, quindi da escludere), ma nel rallentarne la diffusione, in modo da evitare un sovraccarico sul sistema della sanità che in certe zone si sta già realizzando e che devasta non solo le vite dei malati e dei loro cari, ma in generale distrugge alle fondamenta l’idea stessa di vita associata.
Dobbiamo, con tutte le forze, rallentare la diffusione. La parola d’ordine, allora, è diventata #IoStoAcasa, perché “stando a casa” quanto più possibile, cioè sempre tranne che nello stretto tempo necessario al vettovagliamento, si diminuirebbero le possibilità di diffusione e quindi si realizzerebbe il contenimento sperato. Sembra una logica razionale, ma mi pare evidente che ci sono sintomi chiari che non sia così.
1 la crescente insofferenza, che a volte sfocia in odio aperto, verso i runner;
2 l’indifferenza sociale verso le aziende che hanno tenuto aperte fabbriche non indispensabili alla fornitura dei servizi essenziali;
3 la riduzione degli orari di apertura dei supermercati e
4 la riduzione dei mezzi di trasporto pubblico
sono quattro “pratiche sociali” (vale a dire sistemi di azione che dipendo da istituzioni di diversa natura [senso comune, decisori politici, amministratori locali] ma che hanno l’effetto di sembrare ovvie e dettate dalla loro intrinseca utilità) che si possono comprendere solo a patto di rileggere quel #ioStoAcasa non come un’approssimazione di “cerco di ridurre il più possibile la diffusione del virus”, ma piuttosto di un principio culturale immotivato e alquanto difficile da spiegare in termini pratici che mi pare dica “dentro si sta sicuri, fuori si sta in pericolo”.
Che una persona corra da sola come un ossesso o come un guru o come uno sportivo, a me ha sempre fatto una certa impressione, ma qual è la natura oggettiva del pericolo di essere un runner solitario? Non c’è. Punto. Neanche se corre a kilometri da casa.
Che degli imprenditori sconsiderati possano voler lucrare ulteriormente su commesse da realizzare in un regime di concorrenza del tutto falsato è certo molto razionale in termini economici, ma come non si può notare che costringere i lavoratori a contatti ravvicinati è semplicemente idiota se non criminale? E come si può anche solo pensare di tenere aperte le fabbriche come si è fatto nel bergamasco, se non illudendosi mentendo a sé stessi che “la fabbrica” in quando “dentro” sia equiparabile alla “casa” come spazio sicuro?
E come si può pensare che ridurre i tempi di accesso ai supermercati possa aumentare la sicurezza quando è geometricamente inevitabile che una riduzione dei tempi aumenti il numero di persone che occupano lo spazio nel medesimo tempo residuo, riducendo così quella rarefazione sociale che dovrebbe essere lo scopo da raggiungere? Non si tratta di elucubrazioni, ma di un minimo di spirito di osservazione: da quando nel Lazio i supermercati sono aperti solo dalle 8.30 alle 19.00, si sono formate delle code assurde (ho contato 120 persone lungo una coda di oltre 300 metri fuori dalla mia Coop, a Roma) che hanno aumentato di molto la pericolosità dell’andare a fare la spesa. In alcuni supermercati si sta di fatto instituendo un laissez faire negli accessi, per cui se non stai in coda per un’ora e mezzo, ma solo per venti minuti, poi dentro ti trovi gomito a gomito nelle corsie come mai prima, e cassieri e tutto il personale sono sottoposti a condizioni lavorative molto più pericolose.
Che poi si siano ridotti i treni e gli autobus negli spazi urbani e interurbani è parimenti incomprensibile, se la logica pratica fosse davvero quella del raggiungimento dell’obiettivo razionale, vale a dire il calo dei contagi riducendo le potenzialità di diffusione del contagio. Meno autobus ma fabbriche aperte, meno autobus ma supermercati aperti in tempi ridotti, meno autobus e quindi mobilità pubblica ridotta non può che significare far aumentare il numero delle persone compresenti negli autobus residui. Fare di una risorsa necessaria una risorsa competitiva diminuendo l’offerta non riduce il consumo, aumenta la competizione, che negli spostamenti significa affollamento e vicinanza di corpi, l’opposto di quel che si diceva di voler fare. E allora andiamo in macchina! E allora, notizia di ieri, fermiamo tutte le macchine con le pattuglie, così avremo una nuova occasione di assembramenti, e una bella ondata di carabinieri e poliziotti infetti che faranno da untori per i prossimi automobilisti fermati e controllati, cioè tutti, visto che tutti verranno fermati e controllati.
Pratiche così contraddittorie (dagli al runner, a prescindere; fabbriche aperte; negozi con l’orario contingentato, mezzi di trasporti ridotti, controlli polizieschi che servono solo a incrementare il rischio di contagio) si possono spiegare solo se sono motivate da qualcosa di diverso dalla razionalità e dall’utilità.
Qui, credo, noi antropologi qualcosa da dire ce l’abbiamo. Studiosi come Mary Douglas (Purezza e pericolo) e Marshall Sahlins (Cultura e utilità) ci hanno dimostrato or è circa mezzo secolo che la logica simbolica (cioè un sistema di associazioni che stabilisce le priorità indipendentemente dall’utilità, e che anzi determina cosa quella cultura considera utile e indispensabile) è al fondamento dell’agire sociale. Su questo gli economisti neoclassici e la loro concezione della razionalità hanno completamente mancato il bersaglio (come ci ha dimostrato l’economia comportamentista e i lavori di Daniel Kahneman e dei tanti che da lui hanno tratto ispirazione) ed è arrivato il momento di tirare un po’ le fila anche per il grande pubblico, su questi temi, che non possono restare nei circoli esoterici dei seminari specialistici.
Quando il Governo pone come obiettivo lo “stare a casa” e non “stare a distanza gli uni dagli altri” sta agendo secondo una logica simbolica che di razionale ha veramente poco. I casi della casa per anziani e del convento infettati stanno lì a dimostrare che non ci sono spazi “privati” sicuri contrapposti a spazi “pubblici” infetti. Nel mio condominio i ragazzini continuano beatamente a riunirsi a frotte (siamo novanta famiglie) e a giocare a rimpiattino nel cortile, e la risposta al dubbio di alcuni è “ma tanto stanno a casa!”.
C’è insomma un immaginario simbolico che enfatizza la frattura assoluta tra spazio privato e spazio pubblico. Ho scritto in diverse occasioni come quella frattura (che ha ristretto fino a cancellarlo lo spazio del vicinato, su cui potete leggere il libro bellissimo di Luigi Zoja) sia il frutto del parallelo sviluppo urbanistico ed economico, e non posso parlarne qui (semmai qui chi vuole può leggere le mie cose a riguardo) ma basterà dire che la logica sottostante è: il pericolo è comunque sempre “fuori”, trovati uno spazio “dentro” e starai al sicuro.
Questa logica funziona al di là degli obiettivi razionali che la società si è data (ridurre le occasioni di contagio) e, anzi, può addirittura funzionare in contraddizione con quegli obiettivi, dato che ridurre la mobilità (invece di aumentare la distanza), costringendo più persone negli stessi spazi per tempi contingentati, può solo aumentare il rischio di contagio, non diminuirlo.
Se mi posso permettere un consiglio ai decisori politici, dobbiamo cambiare slogan, e non dire più “io resto a casa” come se fosse un obiettivo pratico o utile in sé. Se resto a casa, ma quando esco per forza (perché mi costringono ad andare a lavorare o perché devo andare a fare la spesa) vado a infettarmi in spazi tutt’altro che rarefatti, e se mi illudo che “la colpa” sia dei runner o delle vecchine che non ne possono più di stare segregate e vanno due volte al giorno al supermercato a fare la spesa, non sto raggiungendo l’obiettivo, anzi.
Aumentiamo le possibilità di uscire di casa in sicurezza, lasciamo i runner liberi di girare da soli e a debita distanza se lo vogliono fare, lasciamo che gli anziani, i padroni di cani, chi vive in spazi angusti, chi non ha una casa degna di questo nome, chi soffre per tensioni in famiglia, tutti noi insomma per un motivo o per l’altro, possano uscire stando attenti a due cose, che sono molto più fondamentali di tutto il resto:
1. Manteniamo la distanza, sempre, con tutti: una distanza di almeno due metri, meglio tre, altro che metro.
2. Portiamo ad ogni uscita la mascherina e i guanti monouso, e cambiamoli ad ogni occasione di passaggio di spazio, vale a dire fuori e dentro casa, ma io penso che si dovrebbero cambiare i guanti anche all’uscita dei supermercati e dei pochi altri posti aperti, se ne sono rimasti. Stiamo veramente lontani dai medici, dai cassieri dei supermercati, dai clienti, dagli amici, insegniamolo ai bambini e anche con loro per quanto possibile evitiamo smancerie in questo periodo. Prendiamoci cura dei nostri cari, soprattutto degli anziani, con le dovute cautele, per il timore di infettarli se non abbiamo paura di essere infettati.
Chiediamo la riapertura con orario prolungato dei supermercati, dalle 6 di mattino a mezzanotte, con l’obbligo di nuove assunzioni per tutto il periodo di orario prolungato, visto che i supermercati stanno facendo affari d’oro, di questi tempi. Chiediamo ai comuni di aumentare la circolazione dei mezzi di trasporto consentendo così agli autobus e ai treni e alla metro di essere sempre poco affollati, così che i pochi passeggeri per ogni corsa potranno mantenere la distanza di sicurezza (e chissà che questo non possa attivare pratiche migliori per la mobilità nelle nostre città, in futuro).
#IlStoAllaLarga, allora, non più #IoRestoAcasa. Non è la strada il posto pericoloso, è la vicinanza tra le persone, il posto assolutamente da evitare. Così, forse, ce la potremo fare.

lunedì 16 marzo 2020

Anatre in covata a Venezia

Venezia è una città speciale per tanti motivi, ma il più evidente è la sua capacità di incorporare il naturale nel sociale senza soluzione di continuità. Vai in giro per le calli e l'acqua costantemente ti ricorda che è uno spazio naturale quello che nonostante tutto attraversi. Nonostante le pietre squadrate, i masegni su cui metti i piedi, i mattoni tutto attorno, il marmo, la pietra onnipresente.
Gli austriaci ci hanno messo del loro, mettendo i corrimano di ferro a tutti i ponti che non ce li avevano, e hanno portato a compimento la pavimentazione pressoché integrale della città. I bambini nella Venezia italiana hanno sempre avuto questo problema, che manca la terra nuda, mancano i parchi e chi esce dai microscopici giardini Papadopoli vicini a piazzale Roma deve aspettare di arrivare dall'altra parte della città, all'isola di Sant'Elena, per avere uno spazio che sia un vero parco.
Da mestrino campagnolo, quando a 11 anni cominciai a studiare a Venezia questo salto di organizzazione dello spazio era fortissimo e saltava all'occhio. C'era insomma un attrito costante tra l'eccesso di acqua e la scarsità di terra, tra una sovrabbondanza di natura nella sua veste meno gestibile e una scarsità di natura nel suo vestito terragno della solidità sotto i piedi. Sotto i piedi i Veneziani hanno Cultura, organizzazione, struttura, mentre la Natura, pur abbondantissima, se ne sta contenuta nei canali.
L'acqua alta è anche, simbolicamente, una ripresa della Natura sullo spazio apparentemente domestico e mansueto delle calli e callette. Col cavolo, diceva la Natura ogni tanto: io mi faccio spazio, ti inondo di me.
E i Veneziani sembravano aver imparato a gestire questo curioso equilibrio fatto di rispetto e sospetto, di addomesticamento vissuto come un contratto tra pari, una specie di matrimonio tra due nobili, nessuno dei quali sembra disposto a deporre le prerogative del suo rango.
Tutto questo, dicevo, è durato fin quando il turismo in città è diventato di massa, vale a dire nell'ultimo quarantennio o poco più, dopo che la Legge speciale per Venezia aveva messo fine allo sciagurato sviluppo industriale del petrolchimico e tutte le energie produttive erano state, altrettanto sciaguratamente, concetrate progressivamente sulla monocultura del turismo.
Venezia non ha retto l'impatto, il numero crescente di turisti in uno spazio fisiologicamente ridotto e fragilissimo ha prodotto gli effetti disastrosi di una duplice frattura del valore naturale e del valore culturale della città. Venezia è diventata insostenibile per qualunque essere vivente, e lo spopolamento si è accompagnato con un progressivo esaurimento della varietà avio-faunistica.
Questo video, che ha montato mio cognato Dennis Zambon con i suoi poderosi mezzi tecnologici che tanto gli invidio (😁) con materiale raccolto sempre in famiglia, a me pare un felice sintomo di quel che potrebbe succedere con il coronavirus, l'azzeramento del turismo e il rallentamento della mobilità, che ha fatto sì che il passaggio di barche a motore nella città (e in particolar modo in Canal Grande) si sia praticamente fernato: un tentativo da parte di uomini e ambiente per ripensare la loro relazione. Non sono un fautore di pauperismi o decrescite felici, sono convinto che abbiamo ancora bisogno di sviluppo e crescita economica, e quest'anatra chioccia forse ci dice che possiamo riprendere a vivere meglio se ricomciamo a collaborare tra umani in generale e tra umani e non umani, invece che competere.

venerdì 13 marzo 2020

La profezia (e nostalgia) delle Sardine


Sul New York Times di oggi, David Brooks racconta come le pandemie, diversamente dalle guerre, che spingono i popoli a unirsi al loro interno mentre i loro eserciti si combattono, portino a un indebolimento della compassione, a una rarefazione quindi che è morale oltre che sociale. Si sta alla larga per non infettarsi ma questo stare alla larga assume un valore metaforico, è un prendere le distanze, è un fregarsene relativamente.
Ancora più impressionante sembra essere la conseguenza culturale di questo atteggiamento sul ricordo collettivo, sulla capacità cioè di elaborare insieme quel che è successo. Racconta Brooks, per esempio, che a seguito dell’influenza Spagnola morirono negli Stati Uniti circa 675 mila persone, dodici volte di più dei 53 mila soldati morti durante la Grande Guerra. Eppure, mentre della prima guerra mondiale si parlò a lungo, raccontando vicende personali e collettive, la Spagnola non ha lasciato praticamente traccia nella memoria collettiva americana. Io credo che questo dipenda anche dalla forma del nemico, che nella guerra è sempre più narrabile in quanto antropomorfo, e quindi più facilmente inscrivibile in forme narrative, ma Brooks insiste sulla motivazione morale di questo silenzio del ricordo: non ci piace ricordare i periodi in cui siamo stati “più cattivi”, vale a dire più egoisti, meno sociali, più “rarefatti” come si dice ora. E sicuramente una pandemia come quella che stiamo vivendo induce a questo atteggiamento di distacco che è morale in quanto assume una forma fisica precisa, quella della “distanza”.

Il dramma che sicuramente stiamo vivendo è quindi insieme simbolico e medico, e insisterei che sia chiaro che il simbolico è la forma che per noi umani assume la questione medica, non è un di più spalmato sopra la dura determinazione del reale, ma è proprio il modo comprensibile che il reale prende per noi in questo periodo. Come esseri umani, stiamo vivendo la trasformazione tecnologica dell’ultimo secolo come una progressiva (e angosciante) perdita del “senso del luogo” che ci ha trasportato in una virtualità sicuramente fascinosa (che ci spinge a credere alla possibilità di avere un “io” senza corpo, ad esempio, vale a dire “un’anima”) ma non di meno destabilizzante, dato che come animali abbiamo costanti feedback organici che ci riporterebbero lì, alle informazioni che raccogliamo con i nostri sensi più ferini (la vista, certo, ma il tatto? E l’olfatto? Qualcuno ha sentito parlare dell’olfatto nella comunicazione mediatica dopo il simpatico ma fallimentare tentativo di Odorama di Polyester?).

È come se, per paradosso, il coronavirus fosse un alleato di instagram che ci spinge a rifugiarci ancor più nel virtuale lontano dai corpi, lontano dal contatto fisico, dagli odori che sono umori, dagli umori che sono insieme stati d’animo e afflati letterali, fumenti vaporosi del corpo dell’altro. Il mio amico Lorenzo D’Orsi, tra gli altri, ha fatto notare come il Presidente del Consiglio abbia citato nella sua perorazione alla nazione il sociologo Norbert Elias, cioè la sua impressionante ricerca sul processo di civilizzazione, che ci racconta che la modernità è stata in buona parte una progressiva delimitazione dall’esterno dell’individuo, un contenere, appunto, i suoi umori, gli sgocciolamenti, le perdite, le commistioni. Tutto quello da cui oggi ci dobbiamo tenere lontano per il bene di tutti.
La mia amica Ornella Barbieri, commentando il mio post precedente, mi faceva giustamente notare che dentro la famiglia non c’è solo la sicurezza atavica del legame biologico, ma c’è anche la possibilità di recuperare il sedimento prezioso di un sapere pratico e etico che la rarefazione del virtuale rischia di sbriciolare per sempre. Le facevo notare che probabilmente quel sapere tradizionale trasmesso nella storia delle famiglie deve oggi (e con oggi intendo da quando abbiamo cominciato a pensarci come moderni) per forza essere integrato con un sapere inedito che dobbiamo costruirci a fatica, ma raccolgo con favore il punto di discussione, che cioè dentro i legami sociali fatti di umanità fisica ravvicinata non c’è solo la forza politica della manipolazione del mondo, ma anche la forza morale della sua comprensione, almeno parziale.

Insomma, dentro la rarefazione ci costituiamo facilmente come soggetti, individui isolati, e questo da un lato ci rafforza perché ci illude di essere autonomi, dall’altro ci indebolisce perché la parte biologica del nostro io continua a ricordarci che siamo autonomi per nulla, che abbiamo bisogno come animali di cura, contatto, protezione, relazione fatta di mani, sguardi, e anche incivili(zzate) goccioline di saliva.

Allora penso a novembre scorso, alle piazze improvvisamente piene di Sardine che non sapevano bene che ci stavano a fare e se glielo andavi a chiedere ti guardavano spesso un po’ stupite. Forse la folla aveva anticipato la situazione, ci mettevamo stretti stretti ad annusarci, ci guardavamo negli occhi invece che negli schermi, ci contagiavamo di un umore che era ancora solo uno stato d’animo, il bisogno di stare assieme. Era un “insieme” che allora reagiva al “da soli” della politica urlata e vergognosa che sembrava così facilmente vincente.
Avevamo capito che il sovranismo avrebbe preso di lì a poco strade nuove, inaspettate, e non ci piaceva, provavamo di nuovo a mettere in gioco i corpi, attualizzando quella che pomposamente si dice la sovranità popolare.

Abbiamo bisogno di tornare presto a quel contatto, senza il quale il nostro essere individui si inaridisce in una solitudine di cui un poco ci vergogneremo e che cercheremo di dimenticare appena possibile. Ma rimaniamo attenti, ché anche questa volta l’emergenza sta instaurando abitudini nuove, ci sta cambiando, e tanto. Teniamo viva quella nostalgia, quel bisogno degli altri, perché se ci facciamo piacere questo nuovo modo rarefatto di relazionarci costruiremo, su scala planetaria, un modo molto pericoloso di concepirci umani.

mercoledì 11 marzo 2020

Note antropologiche sul Coronavirus


Un caro amico, un collega antropologo che considero uno dei miei pochissimi maestri, mi ha chiesto ieri se avevo scritto qualcosa sul coronavirus. Gli ho detto di no, ma ho anche ammesso che avevo un po’ di pensieri che mi frullavano in testa da qualche giorno, e forse questa era la volta buona per cominciare a mettere un po’ di ordine.
Da 12 anni, oltre che a Tor Vergata, insegno nel campus romano del Trinity College, un college americano che ha sede a Hartford, in Connecticut e che ha diverse sedi esterne sparse nel mondo, dove i suoi studenti (ma anche studenti di altri college e università americane) possono passare un semestre durante il loro triennio di Bachelor.
Il Trinity college avrebbero dovuto festeggiare quest'anno il cinquantesimo anniversario del suo campus romano: c’erano un sacco di ex allievi previsti dall'America, un gran gala, un sacco di iniziative. Cancellato tutto, studenti partiti molto prima che la crisi divenisse nazionale, per la prima volta in cinquant'anni abbiamo sospeso il programma di lezioni (stiamo faticosamente riprendendo online).
Ho detto ai miei studenti americani durante la prima lezione di quest'anno (quando il coronavirus era solo in Cina) che Hartford ha iniziato 50 anni fa per via della globalizzazione, cioè di prezzi del trasporti accessibili, comunicazioni via via più semplici, turismo di massa che addomesticava i contesti locali per le esigenze dei city users contro gli abitanti locali. Ora, con il coronavirus ultimo arrivato dopo il terrorismo, dopo la Sars, dopo la Aviaria, quel modello di globalizzazione (che soprattutto aveva reso "figo" viaggiare per larghe fette della popolazione mondiale, per la prima volta) sembra arrivato al capolinea. Spostarsi, cioè una pratica che come masse popolari abbiamo sentito per secoli una necessità e per qualche decennio un piacere, sta cominciando ad essere un fastidio e un problema per molti, non solo per i migranti economici e i rifugiati politici.
Ai miei studenti americani, in quella lezione malauguratamente profetica, ho detto che la trasmissione intergenerazionale della cultura è messa a dura prova da cose come il coronavirus.
Un programma che stava in piedi da cinquant’anni come il campus romano del Trinity College si basava su un principio semplicissimo: un gruppo di mediamente ingenui e ottimisti studenti americani passava un semestre a Roma e per il semplice fatto di essere qui si imbeveva (non solo, e direi non principalmente, in classe) di cultura italiana. Questo meccanismo è stato in piedi per mezzo secolo crescendo e rafforzandosi, ma è bastato un virus, qualcosa che non sappiamo neppure se si possa considerare un essere vivente, per mettere seriamente a repentaglio quella costruzione semisecolare.
Siamo gli animali più straordinari perché possiamo crearci l'ambiente in cui viviamo grazie allo strumento della cultura, ma siamo anche animali fragilissimi perché quegli ambienti prodotti dalla nostra incredibile disponibilità simbolica hanno bisogno di manutenzione costante e di essere trasmessi attraverso solide materialità che non possiamo trascurare. Siamo angeli quanto a creatività, ma siamo nani minatori quanto a capacità di portare a casa la pagnotta.
La cultura, che è la caratteristica principale della nostra specie, ha bisogno di una struttura sociale, di ospedali, una comunicazione intelligente, informazione, mezzi di trasporto (o di controllo) per poter sopravvivere.
Questo ho detto loro.
Poi ne ho pensate altre, ma la più importante mi sembra questa: che nella crisi del coronavirus il potenziale culturale si accorge di quanto ha bisogno della struttura sociale per potersi tramandare alle prossime generazioni. Vedi le scuole chiuse. Se continua così i ragazzi avranno tutti perso tutto il quadrimestre, e non basteranno i “compiti per casa” perché la trasmissione del sapere presuppone proprio quello, la trasmissione, la condivisione, il dubbio, la domanda, la risposta, la riprova, la lezione. Senza lezione non c’è modo che certe forme del sapere possano essere tramandate.

E poi c’è la questione dei vecchi. Ricordo, con sgomento, che solo qualche mese fa un vecchio comico che da anni non fa più ridere nessuno (se non coloro che lo disprezzano) propose di interrompere il diritto di voto per “i vecchi” perché tanto per loro i giochi erano fatti.
Ricordo che quel giorno mi si chiarì ancora di più il problema politico di fondo del nostro paese, che è tutto nell’immaginazione di sé stesso.
Se qualcuno riesce veramente a essere credibile nel proporre un’immagine così lacerata del tessuto sociale italiano da rappresentare gli anziani come fuori dai giochi (quando chiunque sa invece che sono le pensioni degli anziani, per ora, a impedire che la struttura del welfare crolli totalmente) allora abbiamo un problema culturale e sociale molto serio.
È vero che gli anziani non saranno più su questa terra quando i giovani di oggi saranno anziani, ed è vero che l’età induce a più miti consigli sulle potenzialità dell’ingegneria sociale, per cui i vecchi tendono ad essere conservatori se non dichiaratamente nostalgici. Questo, come dire, è inevitabile sul piano affettivo-culturale, sul piano cioè di quel che la gente pensa, o dice di fare.
Ma sul piano socio-economico, su quel che succede in verità, su quel che le persone fanno, anche senza saperlo, la storia è diversa e va raccontata: le pensioni degli anziani (anche le pensioni sociali) e le case comprate dagli anziani per i giovani sono il perno di tanta economia domestica, e in generale senza anziani e senza la loro disponibilità come nonni, cuochi e sostegno economico, il paese sarebbe allo sbando totale. Per dire, nelle grandi città scoppierebbero rivolte in molti quartieri se la ridotta autonomia di movimento degli anziani in famiglia non costituisse più la garanzia del parcheggio riservato sotto casa.
Il coronavirus apre una voragine sul tema delle relazioni intergenerazionali. Chi ha meno di 65 anni può serenamente sbattersene del virus, farsi la sua vita, i suoi aperitivi, le sue spese al centro commerciale. Per “loro” il virus è un’altra influenza, non cambia nulla.
A meno che.
A meno che non si pensino interconnessi socialmente agli Altri, vecchi compresi. Se credono, come dice l’antropologia, che vi sia una “mutualità dell’essere”, che la propria individualità sia costituita da una rete di relazioni e non dal distacco da quelle relazioni, allora, forse, il coronavirus può portare alla luce quell’innervatura sociale di mutualità dell’essere, per cui io scrivo appoggiando il mio computer sul tavolo di una sala da pranzo che mio suocero ha comprato alla mia compagna, mentre i bambini dormono al sicuro nelle loro camere della parte nuova della casa, anche quella comprata coi risparmi dei miei suoceri, e quando vogliamo possiamo (potremo presto, anzi) andare a casa di mio padre a Mestre, o in Trentino, oppure andare giù a Erice, e far passare ai bambini settimane di gioia e di relazioni coi cugini, perché i miei genitori e i genitori di Valeria ci hanno messo a disposizione, in un sistema di reciprocità generalizzata, una serie di beni e servizi che non abbiamo comprato, che non sono stati mercificati, ma che sono invece il cemento delle nostre relazioni affettive e sociali.
E se io, con i tanti giovani e adulti che si spaccano la schiena come volontari e come operatori, lavoro al polo culturale ex Fienile di Torbellamonaca e spero che si affaccino giovani e vecchi, è perché credo, profondamente credo, che quel tessuto sociale fatto di reciproca solidarietà transclassista, di parole condivise assieme ai corpi, sia l’unica salvezza del mondo.
Le culture sono creature bellissime ma evanescenti, come sistemi di pensiero, come credenze, come reti di significato, se non trovano strutture sociali dove ancorarsi. Pare che il campo di Higgs, da cui si sono estratti i bosoni che abbiamo tracciato e festeggiato nel 2012, sia quello che consente alle particelle (che altro non sono che increspature dei loro rispettivi campi) di acquisire massa, di uscire cioè dal flusso inenarrabile di energia dei primi momenti dell’Universo per organizzarsi in quark e protoni e neutroni e elettroni, e quindi atomi, e quindi elementi e quindi materia e quindi vita. Se il campo di Higgs non si fosse congelato in forma di rete o filtro, intrappolando l’energia e separando la luce da tutto quel che chiamiamo materia, non saremmo qui a discutere di coronavirus.
Voglio dire che senza una struttura sociale in grado di filtrare le nostre paure individuali, di dare un peso specifico sociale al nostro casuale dimenarci personale, senza qualcosa che ci faccia capire che il nostro io è nostro solo nella misura in cui è condiviso (altrimenti è solo un tic nevrotico della tarda modernità e dell’espansione della società di mercato); senza questo siamo già condannati ad essere spazzati via dal vuoto della nostra carenza di strutturazione sociale.
Si vede già quello che dico nelle diverse reazioni alle misure previste. È sano e giusto che i carcerati facciano il diavolo a quattro, dato che per loro la carcerazione è prima di tutto la resecazione di tutte le pochissime relazioni residue che ancora li costituiscono e il loro essere in galera è concepibile solo se si mantiene quel barlume di relazione garantito dalle visite.
Ed è inevitabile che un funerale a Napoli diventi un’occasione di scontro con le forze dell’ordine. Non perché io sia d’accordo, ma perché è inevitabile che gli esseri umani si aggrappino a qualche forma di strutturazione sociale per tenere in piedi i loro fragilissimi castelli simbolici. E se la società più ampia non ha nulla da offrire, resta la forma primordiale della famiglia, paradossalmente contro la società.
Fino a quando famiglia e società saranno, come troppo spesso in Italia, contrapposte e non armonizzate, avremo i treni pieni di persone singole che egoisticamente si accalcano per trovare un rifugio lì dove pensano di trovarlo.
Il coronavirus mette in scena un dibattito pubblico sul senso dell’agire sociale. Siamo da soli, ognuno di noi ridotto a sé stesso o al massimo alla rete biologica delle interconnessioni sentite e vissute come naturali e necessarie, come il più povero degli animali; oppure la nostra umanità di “animali politici”, vale a dire disposti a condividere la vita sociale, ha ancora un margine? Abbiamo ancora la forza immaginativa per pensarci come comunità al di là di quel che è biologico e necessario? Possiamo scegliere dove appartenere, a chi appartenere, con chi appartenere, oppure siamo ridotti a corpi nudi legati al massimo da tenui catene di dna e di istinto di sopravvivenza?
Il coronavirus sta costringendoci, in fretta, a dare una risposta a queste terribili domande.
Come dice il mio amico Daniele Casolino, “noi restiamo a casa per non infettare e non per non infettarci”. Non che tra le due posizioni ci sia per forza antitesi, ma di fronte a questa crisi, dentro di noi, ognuno deve ammettere almeno a sé stesso qual è la motivazione principale del suo agire.

venerdì 6 marzo 2020

La situescion per gli studenti e le studentesse di Antropologia culturale, Antropologia economica e Storia e antropologia delle religioni


Un rapido aggiornamento in cui non ripeterò le cose che gli studenti hanno già potuto sapere dagli organi istituzionali dell'Ateneo, ma un paio di cose in aggiunta, pià specifiche per i miei corsi.

1. Antropologia economica, attualmente in corso, prosegue regolarmente con lezioni a distanza, che si possono scaricare sia in versione audio, qui, sia in versione video, a questa playlist nel mio canale YouTube. A questo link infine potete scaricare tutto il materiale di studio per questo modulo. Il modulo di Storia e Antropologia delle religioni è previsto per il 30 marzo come data di inizio. Inizieremo regolarmente, o in aula, o da casa con videolezioni online in giornata.

2. Ho completato l'annosa verbalizzazione della sessione invernale con alcune centinaia di voti. Non ho medie ancora disponibili ma mi pare sia andata abbastanza bene e tutto sommato credo che abbiamo fatto un buon lavoro, visti i numeri. Ringrazio tutte e tutti per l'attenzione con cui hanno seguito e partecipato al corso di Antropologia culturale 2019/20.

3. IN EFFETTI, ho programmato, con gli stupendi ragazzi del LaPE, una serie strepitosa di eventi al Fienile (e anche a Lettere di Tor Vergata) che  abbiamo dovuto temporaneamente sospendere per le note faccende virali. Sappiate (è una seria minaccia) che abbiamo intenzione di tenere in piedi tutto e di posticipare (non cancellare) tutti gli eventi che abbiamo dovuto sospendere finora. Chi ancora deve fare Antropologia culturale sappia che può partecipare a questi ulteriori eventi primaverili (faremo il calendario appena usciamo dall'emergenza) per acquisire punti ulteriori rispetto a quanto già guadagnato con lo scritto e la tesina.


4. MA visto che alcuni avevano programmato di prendere punti e poi hanno perso le occasioni cancellate di queste settimane accettando quindi di verbalizzare voti più bassi del previsto, sappiate che è in realtà possibile incrementare il voto anche DOPO la registrazione ufficiale, visto che è mia facoltà riaprire i verbali e modificare i voti già registrati.
Insomma, il LaPE non vi molla, sappiatelo...