2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

mercoledì 25 aprile 2018

L'orologio di mio nonno

Per festeggiare questo 25 aprile ecco cinque pagine dal mio ultimo libro, dove racconto la storia dell'orologio di mio nonno, muratore veneziano per cui comunismo significava libertà personale e dignità sociale. In queste pagine racconto perché il suo vecchio orologio è così importante quando insegno antropologia culturale. (Se volete capire i riferimento allo hau e ai marziani, però, dovete leggere anche il resto del libro).

domenica 22 aprile 2018

Islam italiano


2018 0422 Caro amico musulmano italiano, fratello mio, 
ho riflettuto a lungo sulle parole che ci siamo scambiati rapidamente ieri pomeriggio, alla fine della bella giornata organizzata alla Moschea di Centocelle, in via dei Frassini. Ti avevo detto che sono molto preoccupato per l’eventualità che un accordo politico ora (o, come la vedo io, in vista delle prossime elezioni, che salderanno in un’unica coalizione elettorale i vincitori di oggi, separati da ragioni allora contingenti e ora non più sussistenti) possa produrre seri problemi per tutti i cittadini anomali, vale a dire stranieri, riottosi, senza casa, senza passaporto, senza la giusta lingua o il giusto dio.
Ti ho detto, con franchezza, che a me, personalmente, la questione tocca molto poco: sono riconoscibile come italiano, bianco, con una solida istruzione cattolica (anche se non sono credente), per di più maschio, dipendente pubblico garantito, non pago neppure il mutuo perché io e mia moglie veniamo dalla media borghesia, ho il dottorato di ricerca, vale a dire il massimo titolo di studio, ho una famiglia che fatico a volte a mantenere solo perché gli standard che implicitamente ci siamo dati sono piuttosto elevati (almeno per le mie origini comunque provinciali e operaie, che mi hanno insegnato un’etica della morigeratezza). Insomma, per quel che riguarda me e i miei più stretti cari, chi governa, governa. Diversa invece sarà la situazione per molte delle persone con cui lavoro, le persone “che studio”: occupanti abusivi, immigrati irregolari o in condizioni lavorative complicate, mamme spesso straniere e sole, padri stranieri con le famiglie e migliaia di chilometri, persone detenute, musulmani e altri credenti di fedi minoritarie nella cattolicissima Italia.
Per tutti questi, pensavo, le condizioni di vita non potranno che peggiorare se il Governo che si prospetta terrà fede alle promesse elettorali, fatte di merito, giustizia senza sconti, rabbia finalmente sfogata, prima Noi, vale a dire noi italiani, bianchi, cattolici, legati ai sani valori di una volta.
Mi hai detto che non è detto. Che i musulmani si stanno già muovendo, che avete già dei contatti nelle sfere politiche che contano, e un interlocutore che partecipava al nostro scambio ha aggiunto che Salvini stesso era stato in Marocco a invitare gli imprenditori italiani, che il giuramento sul Vangelo era solo uno specchietto per le allodole. Ho fatto notare che la propaganda può non essere creduta da chi la mette in atto, ma certamente lo è da coloro cui si rivolge. Mi hai ribattuto che ci sarà posto per l’islam in Italia, che non è detto che sia poi così male.
Ho capito di colpo, guardando alle nostre spalle, nella moschea divenuta un centro culturale, quei ragazzi di seconda generazione, di famiglie bangladesi, marocchine, tunisine, pachistane, che tra loro parlano italiano ma ancora provano a ricordarsi il bengalese, l’arabo, l’urdu, e si sforzano di ricordarsi o di imparare come si scrivono, quelle lingue di un tempo, ora appannate nella voce dei genitori. Ho guardato quelle ragazze in jeans o con il velo indossato solo nello spazio di preghiera, e ho pensato che sono nella situazione peggiore: non sono abbastanza italiani, con quelle pelli olivastre, quei veli sul capo; e forse non sono abbastanza musulmani per gli adulti delle loro “comunità”, con quegli abiti troppo italiani, quelle preghiere recitate in arabo con accenti insoliti, quei gusti musicali inopportuni, quel loro connettersi, parlare troppo italiano, chattare.
Ho capito guardandoli e pensando alla loro condizione giuridica che con il Governo che si preannuncia un certo Islam verrà tollerato. Non certo l’Islam rigoglioso di differenze, pieno di contraddizioni, pasticcione, riottoso, produttivo, creativo, ribelle, fiero della propria forza razionale, grandioso nell’organizzare la vita quotidiana connettendola a quadri di senso più ampli, in grado di scrivere poesie inebrianti, musiche veramente divine, architetture commoventi, geometrie funamboliche, commistioni senza ritegno in nome dell'unicità della Divinità, che accetta e riconosce la pluralità delle sue creature.
No, quell’Islam, che gronderebbe dalle vite delle seconde generazioni (se solo li lasciassero fare e non li colpevolizzassero per il loro continuo non essere “abbastanza”), quell’Islam che ancora li attrae come attrae gli italiani che si convertono, che sentono il profumo di libertà dalle gerarchie e la gestione individuale della spiritualità e della fede, quell’Islam sarà spazzato via.
Ma ci sarà ben altro posto per l’Islam retrogrado, fallocratico, oscurantista, ignorante, strumento di controllo e di oppressione. Quell’Islam ligio al potere (maschile), ossequioso verso chi comanda (gli italiani cattolici) perché preoccupato di tenere sotto controllo poliziesco “i suoi”, la propria maledetta “comunità”. L’islam di destra, quello sempre pronto a stare dalla parte del più forte, che sia Erdogan o qualche partito neoislamico di moda, ma ci va bene anche Salvini, basta che ci lasci fare. Quell’Islam che controlla la verginità delle sue figlie, ossessionato dal culto arabo dell’onore e dalla fissazione mediterranea della vergogna. Quello sì, immagino, avrà spazio: tutto legge e ordine, si sa chi comanda e si sa chi deve obbedire.
Non vedo legittimazione per altri Islam, con il Governo che si prospetta. Vi aspetta una bella fila di barbuti oscurantisti, rispettosi con i padroni e pronti a fare i padroni con la loro “comunità”, che metteranno in riga i giovani irrequieti, i riottosi che credono che si possa stare in questo paese con velleità artistiche, con spirito libertario, con creatività e passione, e credono, poveri illusi, che l’Islam sia uno strumento di approfondimento spirituale del loro Sé, un pungolo alla loro umana curiosità. No, quei musulmani scomodi verranno rimandati “a casa loro” (anche se sono nati a Torpignattara o all’Esquilino o a Torre Angela) e sostituiti con una bella truppa di cittadini con la terza media, bene che vada con qualche diploma triennale da meccanico, a riempire i posti nelle bancarelle dei mercati, a fare lavoretti a basso costo, commercianti di cianfrusaglie e banane troppo mature. Le donne a casa, mi raccomando, a tirar su figli ancora più miseri e ignoranti, maldestri nell’uso della lingua italiana, sconfitti e feriti dagli spigoli delle periferie orrende. Ci serviranno, alla fine, questi musulmani sottomessi, così non avremo neppure più la scusa di dover accogliere nuovi stranieri per coprire i lavori più umili, che nessun italiano vuol fare più. Ce li tireremo su in casa questi italiani di seconda classe, che pregano in arabo, ma a parte questo sono sottoproletari buoni come quelli di una volta.
Per piacere, amico mio, fratello musulmano italiano, non lasciare che questo avvenga facendo di ogni erba un fascio, confondendo l’amico che riconosce la potenziale bellezza della tua diversità religiosa con la pacca sulla spalla di chi ha capito come sfruttarvi per i suoi schifosi interessi nazionali e “popolari”.

mercoledì 18 aprile 2018

La governance dell'immigrazione e dell'asilo in Sicilia

Simon Martin da qualche anno organizza un bellissimo seminario nomadico in giro per Roma, con un unico, generalissimo tema: Modern Italy.
Si tratta di incontri dove studiosi dinamici raccontano la loro prospettiva sull'Italia moderna e contemporanea, con le più diverse letture tematiche: letteratura, storia, scienze sociali.
L'intento è quello di evitare che questa città cada ancor più nel sonno della sua meditabonda carenza di considerazione per sé stessa. Prendersi cura di sé articolando voci plurali, prospettive diverse e congetture interpretative alternative è un momento necessario alla vita di un paese. Chiamatelo contributo alla Sfera Pubblica, parlatene come volete, ma una nazione è tale se riesce a guardarsi, attraverso lo specchio dei suoi intellettuali, e si confronta con l'immagine che ne esce. Giovedì 19 aprile si prosegue con una lettura dell'immigrazione dalla prospettiva siciliana. (Il prossimo anno accademico, spero, questo ciclo di seminari potrà essere impiegato come "altre attività" per ottenere crediti nella Macroarea di Lettere, a Tor Vergata).

martedì 17 aprile 2018

La Madonna di Trapani a Tunisi

Gli antropologi sono sempre gente strana. Carmelo Russo, ad esempio, insegna matematica alle superiori ma non ha perso la passione per l'antropologia culturale e ha trovato il tempo di addottorarsi in Storia antropologia religioni, curriculum antropologia a Sapienza di Roma.
Ha scelto un campo di ricerca sanamente bizzarro, come sempre fanno gli studiosi di qualità.
Il culto della Madonna di Trapani era stato portato in Tunisia dai molti italiani che lì emigrarono dopo l'unità di Italia, per alcuni decenni (fin quando il fascismo vide bene di limitare questo movimento imbarazzante per la stirpe italica, tanto più in terre di colonia francese).
Recentemente il culto ha ripreso vigore, diventando anche (e forse soprattutto) l'occasione per rivendicazioni di ordine politico.
Sono felice di ospitare Carmelo nel corso di Storia delle religioni che anche quest'anno tengo (da modesto supplente, era la cattedra di Daniel Fabre, una grande perdita per l'antropologia europea e per Tor Vergata) e quindi mercoledì 18 aprile alle 13:00 in aula T28 a Lettere di Tor Vergata (via Columbia 1 - 00133 Roma) vi aspetto per parlarne assieme ai miei studenti.

lunedì 16 aprile 2018

La ninfa e lo scoglio. Riflessioni sul senso dell’antropologia culturale


Insegnare, tanto più in questo clima diffuso di non-mi-intorti-tanto-io-la-so-lunga, figurati-se-ti-credo, comunque-controllo-su-internet, in questo clima insomma a metà tra miocuggino e la end of deference, come dice Stefan Collini (il principio per cui quanto più ci sentiamo offesi dal Mondo, tanto più ci sentiamo liberi di offenderlo in sereno livore) è un mestiere complicato. Insegnare quando l’Autorità del Sapere è andata a farsi friggere diventa un vero pasticcio. Lo Stato, almeno una sua diafana epifania, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, si pone da decenni questo problema e ha cercato di risolverlo lavorando insistentemente sulla “formazione degli insegnanti” o come pare si dica per risparmiare tempo, sulla “formazione insegnanti”.

Pedagoghi, pedagogisti generali e della didattica, psicologi, educatori, istruttori, allenatori, tutti coloro che, a vario titolo, si sono occupati della trasmissione intergenerazionale del sapere sono stati chiamati a raccolta e a contribuire con le loro proposte, prospettive, suggerimenti, indicazioni, piani strategici e, vivaddio, riforme. La parola magica di questo ventennio è stata “riforma”. Rivoluzione aveva certo perso l’appeal e toccava comunque fare qualcosa, perché non si poteva più far finta che la giostra non girasse a mille. Hai voglia che girava.
Il mondo intorno cambiava, la fine dei blocchi contrapposti (che avevano reso fino ad allora tutto sommato facile dire chi fossero i Buoni e chi i Cattivi), l’emergere degli small media (pensate alla rivoluzione delle videocamere con le videocassette come luogo di autoproduzione del sé e delle collettività), lo spostamento sul pianeta sempre più facile, sempre più reversibile e sempre più a basso costo dovuto alla deregulation neoliberista, l’esplodere della comunicazione elettronica e la trasformazione dei consumatori di media in prosumer: tutto questo (e molto altro ancora) rimbalzava sul fortino della scuola sgretolandone le certezze.

In particolare, una parola diventava centrale, la parola nemica della Scuola (di base) Tradizionale (ST). Quella parola era Diversità.
La ST aveva avuto, classicamente, un compito primario: quello di formare cittadini uniformi, in grado di essere efficienti produttori e consumatori su tutto il territorio nazionale servito dalla ST. C’era un concetto che stava alla radice di questo odio, ed era il concetto di località: la ST doveva livellare il più possibile i dialetti, le parlate, i panini con la frittata, le pizze bisunte, i costumi locali, e rimpiazzarli con italiano standard (tollerate le pronunce regionali), mense con grammatura standard e grembiuli tutti uguali. L’obiettivo finale era la produzione di un cittadino compatto e replicabile, semovente ed equipollente su tutto il territorio nazionale: “Una d'arme, di lingua, d'altare / Di memorie, di sangue e di cor”, ovviamente “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, più o meno…
Se c’è stata un’istituzione nazionalista in Italia, tra la fine del fascismo e la vittoria del Mundial 1982, quell’istituzione è stata la scuola. Tutta la scuola, direi, elementare, media inferiore e pure superiore. Con l’unica differenza tollerata, quella di classe, che cominciava a farsi evidente con le superiori.
Quel bel mondo compatto di alunni italiani tutti uguali, tutte formichine nerovestite che solo alle superiori cominciavano a evidenziare connotazioni di classe (licei vs istituti tecnici vs professionali = dirigenti vs impiegati vs operai) è saltato per le contingenze esterne indicate, cui si è sommata la fine del fordismo, che ha fatto implodere quel sistema di produzione e reso inutile l’omogeneizzazione spinta.
Questa finalità unificante è divenuta ancora più incomprensibile quando la diversità che ha cominciato a brulicare nelle scuole non era più riducibile alle varietà regionali, quando la “calata” diventava “lingua straniera”, quando addirittura il Dio pregato era straniero. A quel punto, Houston, abbiamo un problema.

Nell’ultima riforma, della Buona Scuola, questa ingestibilità anche solo quantitativa della differenza culturale è divenuto uno snodo centrale. Morale della favola: gli antropologi italiani (una sparuta e alquanto sgangherata presenza accademica, senza prestigio, e senza una vera storia disciplinare condivisa) sono stati investiti dello stesso onere che spetta di diritto ai pedagogisti e agli psicologi e, udite udite, sono stati convocati a contribuire alla formazione insegnanti. Chi voglia poter accedere al concorso che porterà all'insegnamento deve ora dimostrare di aver conseguito crediti formativi anche di antropologia culturale, non solo pedagogia, didattica e psicologia. Lo so, gli esperti del DM 616 staranno già lì coi fucili puntati dicendo che non è vero, che l'antropologia non è obbligatoria, visto che gli ambiti (pedagogia, didattica, psicologia, antropologia) da coprire sono solo tre su quattro, ma il senso non cambia: per la prima volta l’antropologia culturale è considerata, in Italia, alla stessa stregua della pedagogia, della didattica e della psicologia nella formazione degli insegnanti. Siamo entrati nel club delle discipline “che contano”.
Con il libro La ninfa e lo scoglio, (che dovrebbe prestissimo essere acquistabile online, e si può già comperare dall’editore Universitalia, in via di passolombardo, 421, 00133 – Roma) offro la mia prospettiva su questo mutamento significativo della significatività della mia disciplina. Qui potete leggere il primo capitolo.
Con fare un po’ sospettoso (pur sapendo quando alcuni colleghi, e in particolare una stimatissima collega, si sono battuti perché finalmente l’antropologia contasse qualcosa, alla faccia di tutti i sociologi, assai più potenti di noi e rimasti a becco asciutto in questa riforma per la formazione insegnanti) mi chiedo cosa voglia il Ministero da noi: che cosa c’è di tanto importante nel nostro specialismo, nelle minuzie spesso assurde di cui ci occupiamo, da essere considerato addirittura un prerequisito per diventare insegnanti? Non è che quel che vuole il Ministero è forse un po’ diverso da quel che siamo in grado di dare noi? Per spiegare cosa dalla mia prospettiva il Ministero si aspetta e cosa sempre dalla mia prospettiva l’antropologia è in grado di dare ai futuri insegnanti, mi trovo a parlare dell’orologio di mio nonno visto da un marziano, di un principio estetico giapponese e di quel che è successo alla “scuola Pisacane” alcuni anni fa, quando alcuni solerti politici provarono a chiuderla perché aveva “troppi alunni stranieri” anche se il problema era piuttosto che non c’erano abbastanza alunni italiani perché i genitori avevano smesso da tempo di mandarceli. Ah, e parlo anche di cosa sia una pubblicazione scientifica, e di cosa, forse, vada considerato scientifico nel sapere antropologico. Secondo me si legge bene.