2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 29 ottobre 2010

'Kwa:le vu'wò:lo?

Il titolo di questo post è la trascrizione fonetica di una frase che Amanda (26 mesi quasi 27) ha imparato a pronunciare da qualche giorno, e che potrei trascrivere con la grafia dell’italiano in modo più comprensibile: Quale vuolo?
Tra i suoi dvd (alcuni in realtà ereditati dalla sorella maggiore, Rebecca, quasi nove anni) ce ne sono alcuni a episodi, oppure sono raccolte di corti riuniti in un unico disco. In questi casi, Amanda è di fronte al dilemma della scelta: quale vuolo? Cioè: quale scegliamo di vedere? Ha capito che non c’è necessità di guardare gli episodi in sequenza lineare, ma grazie al concetto di “menu”, cioè di schermata iniziale da cui si può saltare a un’esposizione visiva dei diversi “capitoli” del dvd, può accedere alle immagini in modo non sequenziale, può scegliere.
Ecco allora la domanda come le si pone: quale voglio?
Quando avevo la sua età questa domanda era di certo molto meno impellente, dato che gli oggetti tra cui scegliere erano in misura estremamente limitata, soprattutto se il godimento era di tipo visivo. In quel caso non c’era praticamente nulla da “vuolere” e ci facevamo andare bene Oggi le comiche del sabato a pranzo (filmati del cinema muto!), i risicatissimi cartoni animati di Braccio di Ferro e quell’ora scarsa di Tv dei ragazzi che c’era prima della riforma del 1975. Con il risultato che lo spazio dell’immagine era relegato ai grandi e ci sembrava in buona misura una cosa noiosa (telegiornali in bianco e nero, e qualche sabato di Canzonissima più gradito per la vestaglia da indossare sedendo nella stessa poltrona con papà mangiando caramelle, che per il contenuto del programma, mortalmente barboso per noi piccoli).
Oggi Amanda, a poco più di due anni, è messa dal mercato dell’immagine di fronte al suo desiderio, deve cominciare a capire come funziona, cosa preferisce, cosa più le dà piacere.
L’unica cosa positiva che posso rintracciare in questa precocizzazione della consapevolezza desiderante è il suo sforzo di socializzarla. Amanda non si limita a un amletico dubbio interiore, non parla con il teschio di Yorick ma ha il coraggio di guardarci in faccia, me, sua madre, sua sorella. Ci interpella, vuole sapere da noi qual è il suo desiderio. Noi la guardiamo perplessi, certamente, ma in fondo sentiamo che la sua domanda resta lì, in attesa della nostra risposta, della nostra responsabilità: mi avete regalato la bicicletta? E allora forza, insegnatemi a pedalare...

Mission Impossible

Ogni semestre mi ritrovo con un nuovo gruppetto di studenti americani del Trinity College - Rome Campus cui devo insegnare la forma peculiare che la globalizzazione prende in una città come Roma (Urban & Global Rome), e ogni anno, per spiegare come funziona Roma, devo spiegare almeno un poco come funziona l’Italia. E per spiegare come funziona l’Italia devo raccontare a questi bei giovanottoni di vent’anni, che praticamente nulla sanno del nostro paese, anche un poco dell’attuale politica italiana.
Ora, mi dite voi come posso spiegare a questi benedetti ragazzi che negli ultimi due anni la politica italiana si è sostanzialmente occupata di (e di certo dimentico qualcosa di parimenti rilevante):
  • una diciottenne festeggiata per il suo compleanno dal Presidente del Consiglio mentre la moglie lo lasciava dicendo che è malato e che al diciottesimo compleanno dei figli lui non si è mai presentato
  • il tipo di relazione tra i genitori della diciottenne e il Presidente del Consiglio
  • un ministro che si è dimesso perché non sapeva chi gli aveva comprato la casa
  • un ministro che avrebbe dovuto essere un ministro ma non è mai stato un ministro perché pensava che diventando ministro si sarebbe salvato da  un processo
  • il cognato del Presidente della Camera
  • a quale casa fosse destinata una cucina acquistata dal Presidente della Camera
  • da chi abbia comprato un terreno ad Antigua il Presidente del Consiglio
  • il bunga bunga
Sono di fronte all’incommensurabilità culturale, all’abisso tra sistemi di riferimento alternativi, alla prova della credenza relativista (“uomini diversi vivono in universi diversi”). Non ho proprio margine per spiegare loro cosa significhi “politica” in Italia. Già strabuzzano quando gli spiego che il Presidente del Consiglio è contemporaneamente il maggior editore del Paese, ma i misteri bizantini degli acquisti “a mia insaputa”, delle cucine Scavolini e del bunga bunga travalicano non solo la mia, ma credo qualunque capacità di comunicazione interculturale.
Mi torna in mente un vecchio detto dei politologi americani durante la Guerra Fredda: della politica sovietica non si sa nulla, ma si capisce tutto; della politica italiana si sa tutto, ma non si capisce nulla.

lunedì 25 ottobre 2010

Il velo pietoso

Domani mattina (martedì 26), dalle 10.00 in poi, su Radio24 Gialuca Nicoletti a Melog discute il fondo di Mario Calabresi in cui il direttore della Stampa racconta come ha deciso di cestinare le registrazioni dei verbali di interrogatorio di Michele e Sabrina Misseri. Ero a pranzo dai miei suoceri ieri (domenica 24) quando abbiamo sentito la voce dello zio di Sarah Scazzi in televisione. E poi i commenti raccapriccianti di qualche “opinionista” di cui è bello tacere. Per fortuna eravamo a fine pasto e mi sono potuto alzare da tavola.
Ci sarò anch’io, in collegamento telefonico con Melog, per portare il contributo dell’antropologia culturale alla discussione: dove bisogna fermarsi?
Rischiamo il paradosso, e sicuramente tutti ne saremo consapevoli, domattina: come si fa a parlare di una cosa per discutere se di quella cosa sarebbe meglio tacere? L’unica possibilità che abbiamo di salvarci è trattare il caso di Avetrana come uno dei casi “trucidi” di cui i media italiani si sono interessati in questi anni, e cercare di capire alcune tendenze, alcune delle ragioni che hanno prodotto una sorta di incantamento della comunicazione di massa.
Io ricordo i casi di Alfredino Ciampi e Vermicino, il “delitto di via Poma”, Simonetta Cesaroni, Cogne, Annamaria Franzoni e “il piccolo Samuele”, Garlasco, Chiara Poggi e Alberto Stasi. Come nota autobiografica posso aggiungere che leggo e seguo pochissimo questi casi non per distinguermi dalla massa beota, ma solo perché sto fisicamente troppo male al racconto di morti truculente in cui le vittime sono sempre giovani o addirittura bambini, e semplicemente “non reggo”, per cui giro la pagina o cambio canale. Sono di stomaco troppo delicato per la cronaca nera.
Ma posso ancora chiedermi cosa spinge allo sguardo morboso molti di noi (e probabilmente spingerebbe anche me, se non fossi un cacasotto).
La disciplina che pratico e che insegno mi ha convinto che, al di là delle motivazioni di ordine economico, gli uomini sono spinti all’agire dall’impellenza del senso, vale a dire dalla necessità di colmare quell’immenso buco semantico che chiamiamo “vita” con quella merce sempre carente che chiamiamo “senso della”, vale a dire la convinzione che gli eventi che si dispongono nella linea del tempo sono in qualche “ordine”, per noi e per gli altri. Mi pare evidente che nei delitti di cui si è occupata di più l’opinione pubblica c’è sempre un elemento attrattore costituito dalla suspance (come nel terribile caso di Alfredino) o dal mistero. La suspance riguarda un evento futuro (come andrà a finire?) mentre il mistero riguarda un evento passato (cosa è successo?) e noi, dal nostro presente, pretendiamo che quell’evento abbia un senso, che si capisca qual è cioè la sua ragione. La tensione dei media si alza quanto più la sequenza lineare si ingarbuglia verso il futuro o verso il passato, quanto più insomma il rischio è quello di trovarci di fronte a un evento “insensato”, che simbolicamente ci condannerebbe al fallimento nel nostro tentativo di “riempirlo”.
La controprova di questa ipotesi interpretativa è costituita dal fatto che omicidi anche più sconvolgenti vengono rapidamente derubricati dall’attenzione dei mass media (quindi del pubblico) quando la soluzione è chiara in tempi brevi. Molti ricorderanno almeno vagamente il caso dell’imbianchio del Varesotto che mozzò le mani a un’anziana ottantenne per non lasciare tracce del suo delitto, ma chi ricorda i dettagli, i nomi dei protagonisti (la vittima era Carla Molinari, mentre il folle smembratore era Giuseppe Piccolomo)? Quel che ci attrae, direi, è quindi prima di tutto la carenza di un senso, il timore che non ve ne sia alcuno e la speranza invece che scavando quanto più a fondo possibile si giunga al “vero” senso della morte (e quindi della vita).
A questa prima necessità di sapere come andrà a finire o cosa è successo veramente penso se ne aggiunga un’altra, quando ci sentiamo irresistibilmente attratti dall’orrido. Questa seconda necessità è forse un retaggio antico, di una visione del mondo che razionalmente rifiutiamo ma che invece ancora ci possiede. E’ la convinzione che il male ha una quota necessaria e indisponibile che deve essere distribuita regolarmente, come se non solo il bene fosse a disponibilità limitata (non ce n’è per tutti) ma il male fosse a disponibilità obbligatoria. Se da qualche parte sentiamo ancora che questo è vero, ecco allora che assistere al male altrui è la garanzia di esserne esclusi, di averla sfangata, almeno per questa volta. Le vittime e i carnefici diventano capri espiatori preventivi: su di essi vediamo calare il male che altrimenti avrebbe potuto colpire noi. Il parente assassino o assassinato avremmo potuto essere noi, se quella cappa mostruosa di malignità fosse calata pochi chilometri più a sud o più a nord, e questa concezione sostanzialmente casuale e fatalista ha la necessità di alleggerire la tensione riversandola sulla colpa dell’altro. La vista del genitore sconvolto o del carnefice finalmente svelato ci rassicurano (almeno per un po’) che non è toccata a noi, stavolta. Indugiare sulla mostruosità dell’altro è cercare di misurarne quanto più male possibile. Se il volto che vediamo in tv è quello di un vero mostro, allora il male che rimane in circolazione ancora di distribuire è per forza poco, essendo stato quasi tutto speso per il mostro...
Queste due possibili ragioni della nostra attrazione (la ricerca di un senso, la visione apotropaica del male altrui) oggi trovano nei mezzi di archiviazione e di comunicazione di massa un alleato tremendo. La possibilità di sentire la voce di Michele Misseri mentre confessa è un’assoluta novità, che dipende dalla “virtualizzazione” dei dati. Qualcuno ha fatto uscire i file dalla sede dell’interrogatorio, e ha potuto farlo, immagino, copiandoli su una usb-key, una chiavetta di minuscole dimensioni. Solo cinque anni fa avrebbe dovuto far uscire una registrazione su qualche supporto magnetico, ma chi avrebbe corso il rischio di fare una copia delle bobine dei verbali di interrogatorio per poi farla uscire?
Oggi siamo tutti spiati e spiabili, osservabili, udibili, registrabili, e la messa in pubblico del (presunto) male non costa più nulla, non è percepita come una trasgressione (il passaggio di un limite) ma come un’asettica operazione demandabile alla tecnica.
Gli antichi greci avevano il nostro stesso bisogno di capire il senso del male e di vederlo proiettato sull’altro, e per questo si erano inventati il genere teatrale della tragedia, il luogo in cui si parlava del senso del male, e il pharmakòs, vale a dire un rituale in cui uno o due membri della comunità erano scacciati dopo essersi addossati il male collettivo, come un capro espiatorio umano.
Quindi, con la nostra ossessione per i delitti irrisolti e il nostro bisogno di vedere e sentire il mostro non stiamo facendo nulla di nuovo. La novità è che quei nostri bisogni di senso e di sollievo dal male vengono esercitati senza alcuna regola, mentre la tragedia e il pharmakòs erano eventi collettivi altamente ritualizzati, cioè sequenze di comportamento preordinate nei minimi particolari. L’oscenità (ciò che va tenuto fuori dalla scena), che allora non era consentita, oggi invece domina la rappresentazione perché la riflessione sul senso del male e lo sforzo per allontanarlo da noi sono state sottratti al poeta e al sacerdote (le figure che pur come individui singoli potevano incarnare i bisogni collettivi) per essere demandate al circo della comunicazione di massa, che è un coacervo di interessi privati che non potranno mai preoccuparsi del bene pubblico.
Bene ha fatto, quindi, Mario Calabresi a gettare al macero quei file, ma il suo gesto rimane la voce di uno che grida nel deserto, mentre sullo sfondo gli sciacalli non possono che fare il loro mestiere, vale a dire buttarsi a capofitto sulla preda agonizzante.
Dentro questo sistema della comunicazione, fatto di interessi singoli e privati associati a una tecnologia sempre più in grado di riprodurre il reale in scala 1:1, non abbiamo scampo e il futuro ci vedrà stuporosi ad ascoltare a cadenze regolari la voce rotta e vedere i lineamenti sconvolti del Michele Misseri di turno. Se vogliamo cambiare, se vogliamo impedire che questa barbarie prenda piede, dobbiamo restituire alla comunicazione la sua sacralità e la sua poeticità. Chi fa comunicazione, insomma i  giornalisti di professione devono ricominciare a pensarsi come responsabili del bene comune della collettività per cui e di cui scrivono, ricordandosi del valore potente delle loro parole e dei loro strumenti. Con l’aria che tira in Italia, non posso nutrire molte speranze sulla vitalità di questa prospettiva.

venerdì 22 ottobre 2010

Musulmani europei (non solo "d'Europa")

Il professor Angelo Panebianco è ordiario di Sistemi internazionali comparati presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna, e quindi non è un semplice opinionista del Corriere della Sera (con tutto il rispetto per gli opinionisti) ma uno studioso professionista.
Da qualche tempo sta sviluppando sulle colonne del CdS una versione all’europea dell’Huntingtonismo che trovo sinceramente indigesta. Ognuno, ci mancherebbe, ha le opinioni che crede, e non sarà un oscuro ricercatore di antropologia a contestare il nucleo della posizione di un famosissimo ordinario di scienze politiche, ma non ce la faccio a non fare alcuni rilievi specifici al fondo che ha pubblicato ieri.
Lo spunto per questo nuovo articolo è la riflessione pubblica di Angela Merkel sul “fallimento del multiculturalismo” in Germania. L’argomentazione di Panebianco è che l’assimiliazionismo (modello francese) è difficilissimo ma il multiculturalismo (modello anglosassone) è addirittura impraticabile. Le ragioni per cui il multiculturalismo (inteso come preservazione delle diversità culturali e autoregolazione della tutela delle diverse identità) non sarebbe praticabile mi sono però oscure. Dice il fondo:


Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico.

Questa affermazione non viene argomentata in alcun modo, viene lasciata così, senza alcuna spiegazione. I paesi che per primi e in modo più coerente hanno applicato i principi del multiculturalismo sono stati il Canada e l’Australia. Se sono queste le “specialissime eccezioni” cui fa implicito riferimento non mi è chiaro cosa ci sia di così speciale in questi paesi, se non il fatto che il multiculturalismo è stato assunto esplicitamente come una parte centrale del loro programma costituzionale. In buona parte, anche gli Stati Uniti sono un paese multiculturale, come lo sono la Gran Bretagna, l’Olanda e, ormai è chiaro, la Germania stessa. Per quanto il modello sia perfettibile (immagino che il professor Panebianco abbia consuetudine con questo aggettivo quando insegna la sua disciplina, che tratta proprio di sistemi politici) mi sento di poter sostenere che in questi paesi c’è, contemporaneamente, un tentativo di far convivere diversità culturale e democrazia, con risultati che non direi da buttar via.
Certo, ci sono momenti e aree di tensione, ma quel che è carente è uno spazio pubblico di dibattito e comunicazione tra diverse diversità, se così posso dire, più che la democrazia in quanto tale. L’emergere di contrapposte sacche di resistenza alla comunicazione interculturale (i culturalisti, tradizionalisti e fondamentalisti di ogni quartiere) non deve far dimenticare che il movimento epocale di popolazioni che si è messo in moto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale verso l’Europa non ha prodotto le catastrofi sociali che si sarebbero potute logicamente temere. C’è un sacco di lavoro da fare, certo, ma in larga misura l’integrazione (sia essa nella forma dell’assimilazione volontaria o nel recupero rispettoso della propria specificità culturale) è avvenuta e sta avvenendo in forme pacifiche. A meno che non si voglia accusare l’immigrazione di essere responsabile di ogni sperequazione sociale (come se “prima degli immigrati” non esistessero le differenze di classe, l’emarginazione sociale e l’ingiustizia), dobbiamo riconoscere che l’arrivo di diverse decine di milioni di stranieri si è realizzato in forme tali da non squassare il “nostro” stile e i “nostri” stardard di vita, anzi. Anzi, in massima parte possiamo dire che il mantenimento di alti standard di benessere sociale ed economico è stato possibile proprio grazie all’apporto della forza lavoro straniera.
Di che stiamo parlando, allora? Di cosa parla il fondo del professor Panebianco quando discetta sull’impossibilità di praticare il multiculturalismo se non “in modo non democratico”? Tutta questa fumosa premessa sul fatto (non spiegato) che è inutile cercare di applicare il multiculturalismo serve come argomentazione a supporto di quel che mi pare il vero “argomento” del fondo, proposto nella seconda parte, e che provo a sintetizzare: se il multiculturalismo non si può praticare, bisogna “tornare” al buon vecchio assimilazionismo. Ma per poterli assimilare, gli stranieri devono essere più vicini a noi, e “l’islam” è troppo lontano. Punto.
Questa conclusione è raggiunta con una duplice mossa. Prima ci si concentra sul presunto dato di fatto che vi è una incompatibilità oggettiva tra integrazione multiculturale e islam:


C’è però il caso dell’islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si contata il fallimento del multiculturalismo.

Ora, basta un poco di onestà intellettuale (o una scorsa ai giornali) per dover ammettere che questa affermazione è semplicemente falsa, almeno per quel che riguarda l’Italia (ma sono convinto che una comparazione attenta porterebbe alle medesime conclusioni in tutta Europa). La crisi di convivenza civile, l’esplodere dei conflitti che potrebbero essere il sintomo del “fallimento del multiculturalismo” sono sempre associati al colore della pelle (razzismo) e alla condizione socio-economica (classismo), e quasi mai alla religione. Una delle prime fobie anti-stranieri in Italia ha avuto come oggetto gli albanesi (febbraio-marzo 1997) e si è conclusa con Irene Pivetti che urlava isterica “buttateli a mare”, perorazione prontamente seguita il giorno dopo grazie all’affondamento della Kater-I-Rades speronata da una corvetta della marina militare italiana provocando almeno 70 morti,  e non mi risulta che a nessuno sia mai importato se quei morti fossero cristiani o musulmani.
Il delirio di Rosarno di inizio 2010, per arrivare vicino a noi, riguardava le angherie anti-multiculturali subite da un gruppo di negri, e di nuovo nessuno si è preoccupato di chieder loro se erano cristiani (allora prego, assimilatevi, non vedevamo l’ora!) o musulmani (vade retro, Satana!), e tutti indifferentemente sono stati sfruttati e impallinati per il divertimento di qualche capetto locale. Devo aggiungere le varie ondate fobiche contro rom e romeni?
Il fatto che Nicolae Romulus Mailat, lo stupratore e assassino romeno di Giovanna Reggiani fosse (lo deduco dal nome) un cristiano ortodosso ha reso più assimilazionista la rabbia anti-romena che si scatenò in quei giorni? Qualcuno ha idea di che religione praticava Thong Hong Sheng il ragazzo cinese picchiato alla fermata dell’autobus a Torbellamonaca il 2 ottobre 2008 da un gruppetto di balordi (evidentemente preoccupati del multiculturalismo, ma non di quello stesso paventato da Panebianco)? Potrei andare avanti fino alla nausea, dimostrando che le tensioni che potrebbero portare argomenti alla tesi del “fallimento del multiculturalismo” non sono praticamente mai dettate da attriti di natura religiosa, e  tanto meno dipendono dalla religione islamica.
Ma non è questo il punto, si potrebbe obiettare. Il vero punto è che “i musulmani” sono chiusi nel loro riferimento comunitario, e assumono valori antitetici ai principi europeo-occidentali, costituendo quindi, de facto, una quinta colonna, magari silenziosa per ora, ma pronta a balzare in prima linea non appena i numeri saranno dalla loro parte. In effetti, è proprio questa la seconda mossa di Panebianco, e l’unico punto che penso gli stesse a cuore quando ha aperto la questione del multiculturalismo, vale a dire l’inossidabile alterità dell’islam rispetto a qualunque definizione si voglia dare di occidente. Questa contrapposizione radicale e totale deve essere presentata in forma apodittica:


cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico?

L’obiettivo è raggiunto: la solidità dell’Occidente e la sua monolitica compattezza vengono esaltate dalla contrapposizione a un altrettanto compatto Islam, definito “antitetico”.  La potenza retorica di questo pezzo di giornalismo scientifico è che la conclusione cui giunge (Occidente e Islam sono antitetici) è una deduzione inconsistente tratta da premesse assolutamente false o indimostrate (che il multiculturalismo non si può praticare se non in contesti non democratici; che l’islam sia sempre la pietra dello scandalo quando si vanno a verificare i casi di fallimento della convivenza).
L’Islam (come l’Occidente) è una costruzione linguistica cui non corrisponde un oggetto reale. L’idea di una “civiltà islamica” antitetica all’Occidente è il frutto di un incubo notturno, il riverbero di qualche trauma perduto nel tempo. Come “noi”, dentro l’Occidente, ci dibattiamo tra opinioni diverse, prospettive politiche radicalmente opposte, visioni del mondo divergenti, così l’Islam è un quadro multiforme di diversità e contrasti. Dentro l’Islam (come dentro l’Occidente) ci sta tutto e il suo contrario, e le storie dell’Islam e dell’Occidente (storie di tolleranza e di intolleranze, di pace e di violenza, di vita e di morte) sono lì a dimostrarcelo al di là di ogni nostra fobia, di ogni nostro terror panico. E se uno non ha voglia di studiare così tanta roba, basta farsi un giro in qualche moschea, parlare con un po’ di persone, provare a conoscere questi benedetti musulmani per scoprire che sì, sono tanto diversi da noi, ma sono anche tantissimo diversi tra di loro. Siete mai stati in una moschea? Avete parlato con i diversi imam e vi siete accorti di come la singola provenienza (dal Marocco o dall’Egitto, dal Bangladesh o dall’Indonesia) produca rifrazioni dell’Islam sensibilmente diverse? La storia multiforme del Cristianesimo, usato come giustificazione dei peggiori atti di violenza (anche recente, pensate alle violenze perpetrate contro i medici abortisti) e per gli atti più sublimi di altruismo non dovrebbe insegnarci che ogni credo religioso si può prestare (volentieri o meno) alle pratiche politiche più divergenti e contraddittorie? Il Got mit uns scialato per secoli in Europa fino ai nazisti non dovrebbe farci un poco calare la cresta quando parliamo di occidente laico e liberale e democratico? E se in questi ultimi trent’anni si è fatta largo una concezione estremamente rigorosa della fede musulmana, e se da questo recupero neo-tradizionalista e identitario si è staccata una malapianta velenosa che nutre il terrorismo internazionale, significa forse questo che tutto l’Islam ne è parte attiva? Allora, il fanatismo di alcuni pastori della Bible belt (e dei loro emissari sulla scena politica) dovrà forse ricadere sul capo di tutti coloro che si dicono seguaci di Cristo?
Io trovo del tutto insensato questo modo di pensare, e non mi resta che chiedere come mai un acuto scienziato politico proponga questa visione grottesca dell’Islam (e quindi dell’Occidente), un’immagine che non ha riscontro nella realtà ma che ha il pericoloso effetto di spingere proprio alla produzione nel mondo reale dell’oggetto tanto temuto nella fantasticheria. La pragmatica della comunicazione chiama questo modo di agire profezia che si autodetermina (self-fulfilling prophecy):


E’ il comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel dato comportamento sarebbe la risposta adeguata. Per esempio, una persona che agisce in base alla premessa “non piaccio a nessuno” si comporterà in modo sospettoso, difensivo, o aggressivo, ed è probaible che gli altri reagiscano con antipatia al suo comportamento, confermando la premessa da cui il soggetto era partito.

Queste sono parole che Paul Watzlawick e i suoi collaboratori del Mental Research Institute di Palo Alto, California, scrivevano nel 1966 (trad. it. Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971; la citazione è da pag. 91) pensando alle cause “lingustiche” di alcune gravi patologie psichiatriche come la schizofrenia. Trovo estremamente doloroso e preoccupante che quelle stesse parole possano essere impiegate, oggi, per descrivere un atteggiamento politico irresponsabile e gravido di conseguenze nefaste per tutti, coloro che le pronunciano facendosene alfieri, e coloro che sono involontari oggetti di quella descrizione aberrante.