2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 31 gennaio 2020

“Shoah – Porrajmos”, l’abbraccio delle due Memorie

All’interno della Settimana della Memoria, Associazione 21 luglio, organizza domenica 2 febbraio alle ore 11,00 una passeggiata urbana nel cuore di Roma per unire, in un unico abbraccio le Memorie delle due persecuzioni.

La passeggiata inizierà alle ore 11,00 presso Largo 16 ottobre 1943 davanti alla targa che ricorda il “sabato nero” del ghetto di Roma. All’evento è prevista la partecipazione e l’intervento di Lello Dell’Ariccia, sopravvissuto al rastrellamento del ghetto del 16 ottobre del ’43, Tobia Zevi membro della comunità ebraicaTriantafillos Loukarelis, direttore UNAR e testimoni del genocidio delle comunità rom.

I partecipanti si sposteranno poi in una passeggiata libera verso Piazza degli Zingari dove è previsto un omaggio presso la targa che ricorda lo sterminio del popolo rom. Le due commemorazioni saranno accompagnate dalla musica del violino di Gennaro Spinelli, artista rom. Ogni singolo partecipante è invitato a portare un fiore da deporre nei due luoghi delle Memorie.

Le cittadine e i cittadini di Torbellamonaca e del VI Municipio, gli studenti e le studentesse dell'Università di Roma Tor Vergata, gli italiani e le italiane, le straniere e gli stranieri, gli emarginati, gli esclusi, i non integrati, i non accolti, le persone sole, le persone che fanno fatica a trovare una loro comunità di riferimento sono TUTTE caldamente inviate a partecipare, a portare un fiore per lasciare un segno. Chi avesse bisogno di eventuali ulteriori informazioni o avesse problemi a raggiungere da solo il centro di Roma può contattare Piero Vereni al whatsapp 3339812520. Faremo in modo che possiate venire, perché è importante la partecipazione di tutte e tutti.

Hanno sino ad ora aderito: LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche, Amnesty International Italia; Associazione Progetto Memoria, Ebraismo Culture Arti Drammatiche ECAD; Radicali Italiani; ANED Associazione Nazionale Ex Deportati; Verdi di Roma; Fondazione Migrantes; Gruppo PD Consiglio Comunale di Roma; Partito Democratico di Roma


lunedì 27 gennaio 2020

Chi era Massimo Rosati

PER GLI STUDENTI DI TOR VERGATA: I POSTI PER L'EVENTO SONO ESAURITI, NON POSSIAMO PIU' ACCETTARE REGISTRAZIONI. QUANTI SI SONO REGISTRATI ENTRO IL 28 GENNAIO AVRANNO IL POSTO GARANTITO (ANCHE SE STAREMO STRETTINI...)

Era un amico e uno studioso. Oggi, a sei anni dalla sua morte inaspettata, crudele per lui e sconvolgente per noi che gli siamo sopravissuti, proviamo ancora a raccogliere la sua eredità intellettuale.
Come altri che ci hanno lasciati troppo giovani, Massimo non ha fatto in tempo a diventare un maestro, ma amava battere piste insolite con intelligenza e profondità.
Delle discussioni con lui io mi porto dentro soprattutto l'attenzione per la religione, per il pensiero religioso e per il sentire religioso.
Da laico e non credente, Massimo aveva però capito che non si può "spiegare" la religione se non si tenta di comprenderla, se non se ne colgono gli aspetti fondativi e ci si concentra ciecamente solo sulla strumentalizzazione politica del credere.
Proprio perché dio non esiste, diventa importantissimo comprendere cosa spinge gli esseri umani da sempre a cercare un qualche senso trascendente, un mondo altro cui fare riferimento e da porre in collegamento con il mondano dell'evidente.
Massimo stava lavorando attorno al quadro teorico del postsecolare come spazio dove aprirsi a queste riflessioni di frontiera, e non sappiamo (almeno, io non so) che direzione avrebbe preso il suo pensiero oltre le sue ultime riflessioni, uscite postume.
Ma partendo da quegli stimoli ci incontreremo nell'anniversario della sua morte, per riprendere il filo di un discorso, per tenere accesa un'interlocuzione anche ora che Massimo non può più ascoltarci.
Ci troviamo allora giovedì 30 gennaio alle ore 16.00 negli spazi dell'Istituto Tevere, un posto che Massimo conosceva bene e con il quale amava collaborare, per parlare con Paolo Costa e Valeria Fabretti, del Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler.
Discuteremo, postecolarmente, se posso dire così, del "sacro in mezzo a noi".

L'Istituto Tevere è un posto bellissimo ma gli spazi sono ridotti. Per consentire un afflusso ragionevole chiediamo per cortesia di effettuare la prenotazione della vostra presenza
Gli studenti di Tor Vergata possono partecipare solo dietro iscrizione dati i posti limitati. La partecipazione consente di guadagnare un punto sulla valutazione finale di Antropologia culturale o di Antropologia e Storia delle religioni. Solo 12 posti sono stati riservati per gli studenti.

giovedì 23 gennaio 2020

Katia Balacchino. Cosa fanno gli antropologi (anzi, le antropologhe)

Lavorare a Tor Vergata e al polo culturale ex Fienile come antropologi è contemporaneamente entusiasmante e snervante. Di cose se ne fanno tante, molte sul territorio (soprattutto come LaPE, al Fienile e in giro per la città abbiamo fatto e stiamo facendo cose veramente belle, scusate se me la tiro un poco...), ma è anche faticoso perché non c'è un corso di studi centrato sulla mia disciplina e spesso ci dobbiamo limitare a gettare pizzichi di antropologia in contesti dedicati ad altro (alla comunicazione, alla filosofia, ai beni culturali, all'educazione, alle lingue, al turismo, alla didattica e altro ancora).
Una delle cose che ci piace fare è provare ad allargare lo spazio, portare gli studenti al centro di Roma, come abbiamo fatto con il progetto #Umano del Macro Asilo, oppure portare antropologi e altra umanità dal centro fin qui da noi, oltre il raccordo del VI municipio.
Stasera Katia Balacchino ci racconta, sorseggiando un bianco fresco e un po' di spizzichini offerti dal Fienile, cosa vuol dire fare l'antropologa oggi, come si diventa antropologi, quali sono i percorsi di riflessione e di lavoro per una professione sempre negletta ma, crediamo, sempre più importante.

Vi aspettiamo alle 21:00 al polo culturale ex Fienile, in largo Mengaroni 29, in quello strano miscuglio di campagna e periferia che chiamano Torbellamonaca.

Per gli studenti di Antropologia culturale di Roma "Tor Vergata" sarà possibile partecipare acquisendo punteggio per un totale di 0.3 punti sulla valutazione finale. QUI trovate il modulo da compilare per chi vorrà partecipare (ma si può venire anche senza prenotare; la prenotazione serve solo per sapere quanti panini, quante pizzette e quante bottiglie di bianco preparare). Come al solito, provvederemo a raccogliere le firme durante l'evento.

lunedì 20 gennaio 2020

Prospettive ravvicinate sull'immigrazione

Come Scuola di politica - Confini al Centro, noi del polo ex Fienile siamo sempre stati attenti alla questione dell'immigrazione, sapendola uno dei temi centrali del dibattito pubblico.
Ne abbiamo parlato in diverse occasioni in questi due anni, sempre con l'intento, prima di tutto, di fornire informazioni attendibili da poter consolidare in un quadro di conoscenza.
Vogliamo contribuire, per come possiamo e con i pochi mezzi a nostra disposizione, a sovvertire la tendenza attuale a confondere il dato con il giudizio, la presentazione dei fatti con l'esposizione pubblica delle proprie opinioni. Un giudizio non è tale se non è informato, e "questo lo dice lei" è un modo sbagliato per contestare qualunque analisi dei dati.
Abbiamo bisogno di capire, di imparare e di ascoltare e questo cerca di fare la Scuola di politica - Confini al Centro: aprire lo spazio per l'ascolto, imparare da chi ne sa di più.

E' quindi con grande piacere che mercoledì 22 gennaio allore ore 16:00 ospitiamo Ginevra Demaio,  curatrice del Quattordicesimo Rapporto "Osservatorio Romano sulle Migrazioni", che ci darà un quadro complessivo della situazione dell'emigrazione a Roma, assieme a Sara Rossetti e Katiuscia Carnà che hanno scritto un bellissimo ritratto ravvicinato di un gruppo di donne bagladesi (si dice bangladesi perché sono cittadine del Bangladesh; bengalesi vuol dire parlanti bangla, e parlano la lingua bengalese anche molti cittadini indiani).

Ecco allora che chi vuole imparare qualcosa di attendibile sull'immigrazione a Roma, proprio con l'intento di poter elaborare un giudizio che sia ragionevole e non solo un pre-giudizio istintivo, è invitato a partecipare. In modo particolare, ci sentiamo di invitare i dubbiosi, i critici, e tutti quanti nell'immigrazione prima di tutto un problema. Pensiamo che sia un atteggiamento legittimo, non c'è nulla di per sé sbagliato nel vedere nell'immigrazione una questione spinosa, persino un pericolo incombente. Proprio per i cittadini più critici crediamo sia importante capire un po' di più di cosa si tratta, che conseguenze ha o può avere l'immigrazione sulla vita di tutti noi. Ascoltare persone che studiano questo tema da anni, che hanno da tempo contatti con persone immigrate seguendone i percorsi di integrazione o emarginazione, le piccole storie personali e i grandi quadri sociologici non potrà che arricchire chi vorrà ascoltarle.

Per ringraziarvi della vostra partecipazione e della vostra attenzione, verso le 18:00 serviremo un APERITIVO durante il quale sarà possibile continuare a conversare con le nostre relatrici, facendo domande e proponendo letture critiche.
Vi aspettiamo numerosi e numerose: il nostro compito come Scuola di politica è quello di allargare il più possibile gli spazi di informazione e discussione nella città di Roma.

Per gli studenti di Antropologia culturale di Roma "Tor Vergata" sarà possibile partecipare acquisendo punteggio per un totale di 0.5 punti sulla valutazione finale. QUI trovate il modulo da compilare per chi vorrà partecipare. Come al solito, provvederemo a raccogliere le firme durante l'evento.

martedì 14 gennaio 2020

Utopie concrete

Giovedì 16 gennaio, dalle 17:00 alle 19:00 ci troviamo alla Sapienza, nel ciclo di Seminari "Cantare i tempi oscuri", organizzati da Matteo Aria e Pino Schirripa,
per parlare del "laboratorio curdo".
Questo primo incontro affronta di petto una questione centrale nella riflessione dell'antropologia culturale, e cioè la possibilità che vi possa essere Democrazia senza i contraltare dell'istituzione che l'ha tradizionalmente accompagnata nella storia della riflessione politica, e cioè lo Stato.

A partire proprio dal caso curdo, ne parleremo con Stefano Boni, antropologo dell'Università di Modena-Reggio Emilia, e con Yilmaz Orkan, membro di UIKI, Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia.

Sarà l'occasione per discutere non solo del caso specifico del Rovaja/Kurdistan Occidentale e della questione curda più in generale, ma anche di appartenenze, identità, sistemi politici e assetti di potere.

Per gli studenti di Antropologia culturale di Roma "Tor Vergata" sarà possibile partecipare acquisendo punteggio per un totale di 0.5 punti sulla valutazione finale. QUI trovate il modulo da compilare per chi vorrà partecipare. Come al solito, provvederemo a raccogliere le firme durante l'evento.

lunedì 13 gennaio 2020

POP Idee in movimento


Qualche tempo fa, un amico del mio antico nord mi chiedeva via social con aria di sfida: Fammi un nome, dai, fammi un nome se ci riesci. Dimmene uno.
Non ci ho dovuto pensare neppure un millesimo di secondo. Avevo IL nome, senza il minimo dubbio.
Mi chiedeva, l’amico, di fargli il nome di almeno “un politico” che fosse in grado di unire competenza e onestà, che insomma non fosse alternativamente l’ennesimo approfittatore personalistico o l’ennesimo ingenuo che non ha altro da dare oltre al suo animo candido.
Avevo il nome, perché conosco Marta Bonafoni da una decina d’anni, quand’era una giovanissima e vulcanica direttrice di Radio Popolare Roma. Quando Zingaretti le chiese di candidarsi, senza tessera, nel listino per le Regionali del 2013 io fui felice di questa scelta, che Marta non poteva prendere se non come qualunque altra cosa avesse fatto in vita sua: con uno spirito di servizio incredibile; una capacità di caricarsi di moli di lavoro insopportabili per qualunque uomo (maschio, intendo); una sensibilità umana che la rende sempre vicina anche quando è costretta alle “toccata e fuga” per i troppi impegni; un entusiasmo che fa il paio solo con l’energia profusa, e una umiltà di approccio che diventa subito voglia di imparare e studiare e capire.
Io, non c’è niente da fare, mi innamoro di due cose nelle persone: la loro intelligenza, prima di tutto; e la loro passionalità. Il cinismo delle pellacce mi incanta poco, spesso mi irrita. Adoro piuttosto l’apparente ingenuità di quelli che se la potrebbero tirare e invece restano al piano terra per non perdersi il gusto della vita ordinaria. Marta è così, una persona assolutamente speciale che ha messo i suoi incredibili talenti a servizio della collettività, anche a costo di enormi sacrifici personali.
Quando alla fine dell’estate mi ha raccontato l’ipotesi di lanciare un’associazione culturale e mi ha proposto di essere uno dei soci fondatori sono stato onorato di questo invito, che mi ha consentito intanto di entrare un poco nella meravigliosa rete di persone che con Marta hanno lavorato e condiviso almeno un pezzetto di strada. Ho così potuto conoscere Claudia, Patrizia, Enrico, Danilo, Aminata, Angelo, Giulia, Massimo e Leonardo, e far partire questa avventura.
Ognuno di noi è mosso dalla stessa passione di Marta, ma ognuno di noi è disposto a mettere a frutto le sue specifiche capacità e competenze, perché crede che il bisogno umano di aggregarsi non sia una condanna dettata dalla paura ma una scelta assunta con la forza della speranza. Crediamo che fare le cose insieme sia il modo per farle meglio, per renderle più vitali. Crediamo che la condivisione sia sempre un’opportunità di crescita e che un’associazione culturale che parte con questa energia saprà catalizzare altre passioni e altre energie, per contribuire a tutti i progetti di cittadinanza che si potranno realizzare nella nostra Regione. Abbiamo un sacco di idee, ci servono anche le vostre e il contributo di pensiero e azione per realizzarle. Venite a trovarci martedì 14 a Roma, allo SPAZIO DIAMANTE in via Prenestina 230/B, potrete iniziare a partecipare a una cosa più grande di ciascuno di noi. Noi non ci vergogniamo di chiamarla comunità.

domenica 12 gennaio 2020

L'uso pubblico dell'antropologia (Ernesto Galli della Loggia, Lévi-Strauss e il concetto di cultura)


Riporto qui di seguito una lettera che ho pensato per i miei colleghi e le mie colleghe antropologhe. Visto che è molto lunga, i paragrafi sono titolati in

brevi riassunti con questo font e colore

che si possono leggere al posto dello sviluppo integrale.

Care colleghe, cari colleghi,

Perché scrivo questa lettera: per rispondere a quanto detto da Ernesto Galli della Loggia sul Cds del 10 gennaio 2020.

vi scrivo a seguito del breve editoriale del professor Ernesto Galli della Loggia apparso sul CdS in data 10 gennaio 2020. Non entrerò, almeno all’inizio di questo mio intervento, nel merito se l’etnocentrismo che ci fa schifare i nigeriani “a causa del loro modo di fare”, i bengalesi per il fastidio “dall’odore del cibo cucinato” o i rom per essere “sgradevolmente” nostri vicini di casa si debba o non si debba considerare razzismo (ho però l’impressione che Occam avrebbe gioco facile, se davvero entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem).

GdL nel suo editoriale legittima l’etnocentrismo distinguendolo dal razzismo, ma il modo in cui lo fa è tramite l’assunzione di un concetto del tutto erroneo di “cultura”

Da antropologo professionista, sono però particolarmente preoccupato del modo in cui un peraltro fine intellettuale come il professor Galli della Loggia si trovi a impiegare il concetto di cultura, proprio visto che è lui stesso ad ammettere che “Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura”. Se le parole ci impongono certe conseguenze di pensiero e di azione, a me pare che GdL sia completamente fuori strada, dato che da un lato ammette la complicatezza del concetto in linea di principio, ma poi nel suo rapido argomentare riduce “la cultura” a una macchietta senza alcun valore euristico.

La cosa grave in questa legittimazione è che il concetto di cultura che usa viene preso da un testo del 1988 di Claude Lévi-Strauss, famosissimo antropologo allora ultra-ottantenne.

Il dramma, per noi antropologi, è che questo lavoro di banalizzazione del concetto da parte di GdL è possibile facendo appello alla voce (per quanto senile) dell’antropologo (ahimè) tuttora più famoso nella sfera pubblica italiana, vale a dire quel Claude Lévi-Strauss che negli anni Sessanta del secolo scorso (vale a dire sessanta anni fa, dico: sessanta) era in grado con le sue riflessioni straordinarie e senza precedenti sul modo di pensare dei “selvaggi” di imporre la nostra disciplina all’attenzione della filosofia, della semiotica, degli studi letterari, dell’ermeneutica e financo della filosofia politica. Temo che risalga a quell’epoca la frequentazione degli studi antropologici da parte dell’allora studente universitario GdL, e in effetti è un tratto comune di quella generazione far coincidere l’antropologia con lo strutturalismo e lo strutturalismo con Lévi-Strauss (Lacan arriverà dopo, per quelli a cui arriverà).

Lévi-Strauss era stato molto creativo tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma poi si era progressivamente arroccato su posizioni politiche reazionarie pur mantenendo presso il pubblico non specialista il prestigio che gli veniva dalla prima fase della sua carriera.

Lèvi-Strauss è stato un autore così prolifico e così longevo (morto ultracentenario nel 2009) che ha fatto in tempo a incarnare in sé e nella sua scrittura le vette del pensiero occidentale prebellico e la crisi morale e cognitiva del pensiero occidentale postbellico e postcoloniale. Il vecchio Lévi-Strauss, quello ormai santificato nell’icona del professore dell’École pratique des hautes études che andava ogni mattina a prendere solitari appunti in biblioteca con il suo quaderno fitto di note sotto il braccio, non ha mai accettato la forza dirompente del giovane Lévi-Strauss (quello di Tristi tropici, della Forme elementari della parentela e della trilogia mito-logica, vere vette del pensiero occidentale e, direi, umano tout court) e si è poco alla volta rincantucciato in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta. Un po’ come è successo con altri personaggi pubblici, a Lévi-Strauss si dava parola (senza prestargli veramente ascolto) lasciandolo alla deriva del suo pensare sempre meno originale e sempre più imbarazzante. So che molti non condivideranno questa dicotomizzazione del grande francese (insistendo che il suo conservatorismo già era evidente già da Tristi tropici; o che la sua vena innovativa e insofferente del senso comune persiste fin negli ultimi scritti, divenendo solo più evidente) ma vi prego di accettare questa mia semplificazione (il Lévi-Strauss che piange sulle macerie dell’occidentalizzazione negli anni Cinquanta fa un effetto ben diverso dall’elitista che molti anni dopo disprezza senza troppi infingimenti gli immigrati in Francia, comunque la si pensi) per il mio argomentare, che posso così sintetizzare: l’aura ultra-autorevole che Lévi-Strauss si era giustamente guadagnata a cavallo dei Sessanta permane (“isteresi dell’habitus”, sintetizzerebbe Bourdieu) anche quando lo strutturalismo giunge epistemologicamente alla frutta, e quell’autorevolezza tracima sulle opere e le parole dagli anni Ottanta in poi, parole e opere che sono invece piene di corbellerie intellettuali.

Il testo di L-S citato da GdL in effetti è solo una ripresa di concetti che l’antropologo francese aveva già ampiamente presentato in un suo libro del 1983, Lo sguardo da lontano.

La conversazione con l’allora trentacinquenne Didier Eribon che GdL usa come fonte è un sintomo del provincialismo con cui l’editoria e il mondo intellettuale italiano già trattava l’antropologia, dato che venne urgentemente tradotta nello stesso anno di pubblicazione dell’originale francese (1988), per Rizzoli, senza che se ne comprenda il motivo intellettuale, dato che l’allora già ottantenne Lévi-Strauss aveva sul tema poco da aggiungere a quanto aveva detto compiutamente in un libro del 1983, Lo sguardo da lontano, tradotto da Primo Levi nel 1984 per Einaudi.

GdL attribuisce quindi a un testo minore di un autore decadente un prestigio eccessivo rispetto allo sviluppo dell’antropologia culturale contemporanea.

Insomma, GdL prende come fonte della sua giustificazione dell’etnocentrismo un piccolo esercizio di furbizia editoriale (che immagino Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica), introdotto nel frusto panorama del dibattito antropologico italiano solo per assecondare la miopia del nostro mondo antropologico e di quello editoriale assieme. Essendo “il nome” (cioè l’unico nome che gli editori sapevano di poter imporre all’attenzione degli uffici stampa dei giornali, allora fulcro della popolarizzazione culturale), Lévi-Strauss andava bene per tutte le stagioni, qualunque cosa avesse detto, e comunque l’avesse detta.

Il testo originario da cui deriva questa concezione nefasta della cultura (che finisce per legittimare l’etnocentrismo), vale a dire Lo sguardo da lontano, era stato già ampiamente criticato in un saggio dell’antropologo americano Clifford Geertz pubblicato nel 1986 e intitolato Gli usi della diversità.

Il provincialismo, come si sa, è una brutta bestia in ogni caso, ma diventa un mostro patetico se impugnato come strumento conoscitivo dalla disciplina che si occupa professionalmente della diversità, e anche in questo caso la lezione è confermata: mentre in Italia, nel 1988 si perdevano tempo e denari a tradurre la minestra riscaldata di un vecchio maître à penser ormai privo di qualunque scintilla intellettuale, dall’altra parte dell’Atlantico, due anni prima, nel 1986, un certo Clifford Geertz (ancora pochissimo noto in Italia, dato che la sua clamorosa raccolta di saggi del 1973 era stata tradotta dal Mulino solo nel 1987) si era preso la briga di fare i conti con il testo di Lévi-Strauss del 1983, quello Sguardo da lontano che già dal titolo marcava la postura conservatrice del pensatore francese.
Nel saggio “Gli usi della diversità” (tradotto in italiano in due riviste prima di confluire nel bellissimo Antropologia e filosofia, una raccolta che nella pur meritevole traduzione del Mulino ha perso la forza drammatica del titolo originale, Available light), Geertz si confronta proprio con il Lévi-Strauss dello Sguardo da lontano per scardinare la concezione di “cultura” che il francese aveva impiegato, concezione che è esattamente la stessa impiegata implicitamente, inavvertitamente quasi, da Ernesto Galli della Loggia e che è la ragione fondamentale della fallacia del suo argomentare para-politico. Ecco i passaggi in cui GdL impiega il termine “cultura”:

GdL nel suo editoriale usa sempre una concezione del tutto “reificata” e antropomorfa di cultura, seguendo la cattiva lezione di L-S. Ciò significa che “cultura” è pensata come se corrispondesse a una cosa reale, dotata addirittura di stati d’animo e di sentimenti.

1. Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di…

2. Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita.

3. …se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale…

4. …un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria.

5. …quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che…

6. Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura.

7. …la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario

Si tratta, in tutti i casi, di concezioni reificate della cultura e, tranne la 6, implicano un utilizzo completamente fuorviante del glorioso concetto che sta alla base della nostra disciplina. In pratica, ogni cultura è vista come un oggetto specifico, dotato di una sua natura interna e di suoi confini esterni, come un bicchiere, una scarpa, una porta, un portafogli. Questi oggetti si dispongono nello spazio estensivamente e ciascuno di essi non solo è “posseduto” da alcuni e “non posseduto” da altri ma ha contemporaneamente la curiosa caratteristica di avere stati d’animo e sentimenti autonomi, al punto che “una cultura” può “provare ostilità” per un’altra oppure alcune culture possono “rispettarsi” o sentire diversi “livelli di affinità”.

Questa idea di cultura dotata di realtà quasi fisica e quasi soggettiva è raffigurata da L-S nell’immagine delle “culture come treni” che corrono su binari diversi. Ognuno di noi, dice L-S, sta dentro la sua cultura come fosse un vagone di un treno, e guarda dal finestrino con poco interesse a treni che corrono in senso inverso al suo, e che lo distraggono dalle sue meditazioni e dalla sua creatività. Al massimo può provare un po’ di interesse per i treni che corrono nella sua stessa direzione e dentro cui può sbirciare con più possibilità di scorgere qualcosa di sensato.

Per esemplificare al meglio questa concezione Lévi-Strauss nel libro del 1983 propone forse la metafora più perniciosa che un antropologo abbia mai elaborato per sintetizzare l’oggetto della sua disciplina, e cioè la scellerata metafora dei treni.
Ognuno di noi, dice Lévi-Strauss, è come un passeggero dentro il suo treno/cultura, intento a guardare il mondo dal finestrino dalla prospettiva che gli è concessa dalla direzione specifica del suo treno. Se per caso sul binario parallelo per qualche tratto si affianca un treno che va nella stessa direzione e a una velocità paragonabile, ecco che possiamo affacciarci oltre il margine di quell’altro finestrino, magari sbirciare rapidamente, incuriosirci, e forse, addirittura, scambiare uno sguardo furtivo con la persona che occupa quello scompartimento. Ma il più delle volte, insiste Lévi-Strauss, i treni altri viaggiano in direzione opposta alla nostra, a velocità quindi negativa che non può che suscitare disagio. Questi treni/culture che si muovono in direzione opposta sono la maggior parte dei convogli in circolazione, e noi “ne ricaviamo soltanto un’immagine confusa e fugace [tipo: modi di fare nigeriani, odori bangladesi, vicini di casa addirittura rom], a stento identificabile, per lo più ridotta a un puro oscuramento momentaneo del nostro campo visivo, che non ci fornisce alcuna informazione su quanto avviene ma ci irrita soltanto, perché interrompe la placida contemplazione del paesaggio che fa da sfondo ai nostri sogni a occhi aperti”.
Immagino che GdL si senta perfettamente a suo agio dentro questa concezione della cultura e in effetti la lista delle occorrenze di “cultura” nel suo editoriale riportata più sopra conferma questa sensazione. La “presenza” di una cultura diversa dalla propria è solo un vagone altrui che inopinatamente confligge con il proprio, e il “dato culturale-identitario” che la politica (di destra, dice lui, ma io proverei ad allargare l’orizzonte visivo) è pronta a sfruttare è proprio questa concezione spaziale dell’identità, con le metafore del “casa propria” e “casa altrui” che altro non sono che la versione sedentarizzata dei treni di Lévi-Strauss: luoghi compatti e distinti.

Il problema della metafora dei treni è che implica due qualità che le culture non hanno affatto, vale a dire la distinzione nitida tra i diversi soggetti (due treni sono molto più distinti di quanto non lo siano mai due culture) e la compattezza interna: il treno di L-S sembra molto più omogeneo come composizione di quanto non siano in realtà i treni reali e le culture reali. Le culture non sono fatte solo da intellettuali maschi, colti, borghesi e raffinati come sono L-S e GdL (quella è semmai la vecchia nozione di cultura come sapere delle élites), e sono composte dal sapere di diverse classi, di diverse estrazioni, di diverse tradizioni: sul treno di L-S, insomma, ci sono un sacco di diversità interne. Le culture non sono internamente omogene, come non sono nettamente distinte le une dalle altre.

Ecco, la compattezza interna (maschi anziani e solitari, intenti a sognare ad occhi aperti) e la distinzione (i binari devono essere separati pena il disastro) sono proprio le due caratteristiche che le culture studiate dagli antropologi non hanno e non possono avere. Per quanto ci sia un discorso culturale che istituisce confini semiotici (dopo Ethnic groups andboundaries ci siamo rassegnati alla natura semiotica del confine culturale, vale a dire non oggettiva né oggettivabile) oggi l’antropologia culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che, oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni.
La permeabilità inevitabile dei confini culturali non è concepita nel modello culturale propugnato da GdL e purtroppo ereditato dalla cattiva metafora dei treni. Se GdL può preoccuparsi che “la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria” ciò è possibile solo a patto di pensare “la propria” come un blocco uniforme quantificabile e passibile di “invasione”. Ma, tanto per dire, si può essere italiani e musulmani? A quali condizioni essere musulmani istituisce “la presenza di una cultura diversa”? Se sono nato e cresciuto in Italia, figlio di italiani purosangue da tempo immemore, parlo perfettamente italiano e conosco perfettamente “la cultura italiana” (qualunque cosa significhi) ma, poniamo, mi sono convertito all’Islam, o al Buddhismo o qualche nuovo movimento religioso, questo istituisce “la presenza di una cultura diversa”? Sì, no, perché? Sembra che ci si possa definire “un ateo a diciotto carati, perfino un mangiapreti” eppure includere questo nell’identità italiana (o europea), esattamente come farebbe qualunque cattolico fervente (cioè l’opposto di un mangiapreti). Quindi si può essere profondamente atei o profondamente credenti eppure appartenere alla medesima cultura. Perché allora un musulmano istituirebbe una “presenza culturale diversa”? Questione di “tradizione”? Quando inizia una tradizione? Se si tratta di stabilire chi è arrivato per primo, allora fanno bene i neo-musulmani spagnoli che riscoprono la loro “vera tradizione religiosa” occultata dalle Reconquista cattolica del Quindicesimo secolo? Se invece di vedere “le culture” come pacchetti compatti e addirittura senzienti di pratiche e valori cominciamo a sciogliere quell’intrico nelle sue componenti (le lingue naturali che parlo, i linguaggi specialistici che ho appreso, quel che ritengo bello, quel che mi attrae organoletticamente, le mie idee politiche, le mie idee sull’aldilà, ciò che mi disgusta, ciò che mi eccita, eccetera, eccetera eccetera) ecco che “le culture” magicamente smettono di avere opinioni, di provare sentimenti o di essere attratte o indifferenti, e ci troviamo con gruppi, sottogruppi, classi, frazioni di classe, e soprattutto individui, e trovare confini e binari diventa un’operazione assurda, semplicemente perché non ci sono treni culturali che su quei binari dovrebbero correre. Tra i miei studenti ci sono giovani coi dreadlock e altri coi tatuaggi, alcuni portano piercing altri girano solo in giacca e cravatta, alcune ragazze portano il hijab e altre si vestono come figlie dei fiori nel terzo millennio. Io, veramente, non ho modo di stabilire “la loro cultura” (cioè, secondo Lévi-Strauss e GdL, la loro nazionalità o origine etno-nazionale) guardando a questi tratti, perché i tratti culturali non sono ereditati come il colore gli occhi o la microcitemia, ma hanno la pessima abitudine (per chi pensa alle culture come treni) di essere insieme ondivaghi e appiccicosi, di spostarsi cioè con una rapidità che non ha paragone nel sistema della natura. Se GdL vede le culture come entità separate e si preoccupa perché altre culture non condividono la sua ciò avviene solo perché, come Lévi-Strauss, GdL si illude che la sua privata, personale competenza coincida con la cultura del paese cui appartiene legalmente. In quando intellettuale maschio, borghese, liberale e conservatore (tutti tratti con cui mi identifico pure io, ci mancherebbe) GdL si illude che “la cultura italiana” coincida col suo pensare e vedere, e quindi per lui (mangiapreti ma lettore di Croce, ça va sans dire) un musulmano diventa “uno che non condivide la nostra cultura” equivalente alla “presenza di una cultura diversa”.

L-S (e GdL che a lui si affida) si illude che le culture siano distinte tra loro e omogenee all’interno perché cade vittima del “nazionalismo metodologico”, vale a dire di un antico ma ancora in parte persistente pregiudizio delle scienze sociali, che credono che gli aggregati normali che studiano siano compatti al loro interno e nettamente distinti dall’esterno.

Questo errore prospettico (illudersi che sia possibile trovare un dentro e un fuori oggettivo delle culture, come fossero spazi confinati) dipende da molteplici fattori ma qui mi limiterò a indicarne uno solo, che GdF dovrebbe conoscere bene, vale a dire il “nazionalismometodologico”, con il che si definisce la stranissima (ma spiegabilissima in termini storici) tendenza dell’analisi sociale a considerare pregiudizialmente i propri oggetti collettivi di studio (le nazioni, i gruppi etnici, ma anche le classi) distinti in modo molto più netto di quanto non lo siano nella realtà dei fatti.
Il nazionalismo metodologico occulta poi il secondo, mastodontico, errore che la “metafora dei treni” (cioè la concezione reificata della cultura) porta con sé, è cioè l'illusione della compattezza interna delle culture a partire dalla generalizzazione di un caso singolo, tipicamente quello di chi parla; errore che possiamo vedere sia nelle parole di Lévi-Strauss, sia in quelle dell’editoriale di GdL. Rileggete per un momento le parole con cui il francese descrive il proprio treno: è un treno vuoto, o perlomeno è vuoto lo scompartimento dove lui si trova. Il grande studioso è assorto, un po’ contempla il paesaggio e un po’ quella contemplazione del paesaggio lo fa sognare a occhi aperti, gli tiene attiva la creatività, vera dote delle culture secondo lui, che un’eccessiva commistione induce a spegnere nella banalità della condivisione. E rivedete come GdL ammette che le culture siano una cosa da maneggiare con cura: lo fa con l’immagine di sé stesso, ateo a diciotto carati, tuttavia sgomento di fronte all’incendio di Notre Dame de Paris. Bellissime immagini, non è vero? In entrambi i casi intellettuali maschi avanti con gli anni ponzano solitari sulle sorti della “loro cultura”.

In realtà, “le culture” sono sempre state uno spazio di confronto della diversità e pretendere di farle coincidere con la prospettiva univoca di qualche loro rappresentante specifico è semplicemente sbagliato. Le culture non esistono come corpi compatti, armonici e omogenei e la ricerca empirica ci dice che ogni individuo “contiene” tratti di diverse culture e che ogni cultura è necessariamente composta da diverse tradizioni. Le uniche culture “pure” sono le culture morte.

Peccato che questa concezione di cultura altro non sia che la versione aggiornata all’individualismo tardo-capitalista della Cultura delle élite contro cui si era sviluppato il concetto antropologico di cultura, che è invece un bene non solo condiviso, ma frammentato, misto, e al suo interno sempre variopinto e contraddittorio. Se mai esistesse un treno della cultura francese, il povero pensatore assorto dovrebbe essere pronto a condividere i sedili con sportivi come Zinedine Zidane, artisti machisti come Johnny Hallyday, rapper omosessuali come Eddy de Pretto, con i tanti italiani naturalizzati, con i gilet gialli e con mille altre sfaccettature rumorose e spesso in tensione dell’identità e dell’appartenenza francese. Non ci sono treni che se ne vanno placidamente, compattamente e armoniosamente verso il loro destino e quel che abbiamo piuttosto sono trains de vie cacofonici e pacchiani, pieni di gente che parla a voce alta, ascolta musica a volume fastidioso e mangia sbrodolandosi, ma certo non si preoccupa del fastidio che può arrecare al grande pensatore assorto nel loro compartimento. E se il pensatore è assorto di fronte a una cattedrale in fiamme di cui non condivide più il senso (ma che pretende ancora gli appartenga come eredità culturale) sappia che dovrà condividere quelle sue profonde riflessioni con neo-tradizionalisti di ogni sorta, teocons e fondamentalisti cattolici e islamici che sbraitano perché non c’è più la buona religione di una volta e signora mia dove siamo andati a finire.

La posizione di GfL legittima quindi un comportamento insano come il pregiudizio sulla falsa premessa che sarebbe “naturale”. Mi domando se i medici applicassero alle malattie lo stesso principio, che andrebbero cioè accettate perché “sono naturali”…

Ecco dunque che l’etnocentrismo, difeso da GdL brandendo un consunto Lévi-Strauss, si può legittimare solo a patto di trattenere una concezione della cultura come oggetto fisicamente delimitato e fondato su un sistema operativo rigidamente proprietario condiviso interamente e solo dai “membri di quella cultura”. Peccato che né l’una né l’altra di queste premesse necessarie (le culture sono nettamente separate tra loro e prevalentemente omogenee al loro interno) superi il vaglio della ricerca empirica.
Il professor Galli della Loggia ha compiuto quindi una battaglia politicamente e culturalmente di retroguardia, fornendo apparenti pezze di appoggio “scientifiche” (il “grande nome”: vorrete mica liquidare come “conservatore” il maggior antropologo del Novecento?) a una visione del mondo assai piccina. Provare fastidio per “il modo di fare” i nigeriani (ma veramente, che modo di fare è?), per come puzza la cucina bangladese o per avere la sfortuna di un vicino di casa rom sono tutti atteggiamenti comuni e diffusi, nel nostro paese sempre più comuni e sempre più diffusi, così come sono diffusi e comuni il meteorismo e l’alitosi tra coloro che non possono permettersi una dieta sana. Ma un conto è accorgersi di un problema, prenderne atto insomma, un altro è trasformare quel problema in un vanto perché “cosa c’è di più naturale?”.

Ma il motivo vero per cui scrivo questa lettera è che noi antropologi e antropologhe italiani dobbiamo ammettere che se perfino intellettuali raffinati usano così male il concetto di cultura ciò è prima di tutto una nostra responsabilità: non siamo ancora in grado di comunicare all’opinione pubblica la rilevanza della prospettiva antropologica per una vera costruzione della cittadinanza nel mondo complesso in cui siamo immersi.

Ma l’atteggiamento di GdL è anche il sintomo del fallimento comunicativo della nostra disciplina. GdL è un intellettuale coi fiocchi, con una lunga carriera universitaria e di commentatore pubblico. Se si è sentito legittimato a citare un testo del tutto superato della nostra riflessione scientifica, e su quella base rendere accettabile e condivisibile in quanto “naturale” il disprezzo per la diversità, è perché non ha altre competenze in proposito, e questo è solo colpa nostra, non certo sua, visto che è uno studioso della politica e non un antropologo culturale. Dobbiamo quanto prima recuperare (o forse inventare) un ruolo per le scienze sociali nella costruzione della cittadinanza attiva e consapevole; l’antropologia culturale deve trovare spazio nella sfera pubblica e abbiamo il dovere di popolarizzare una concezione di cultura assai più complessa di quella che sembra oggi disponibile anche all’attuale classe dirigente.
Nell’uso pubblico della nostra disciplina dobbiamo far sentire la nostra voce, ricordare a tutti pubblicamente che una nozione reificata di cultura è scientificamente errata e moralmente insostenibile, dato che legittima non certo il razzismo, ma una pratica molto più banale e pervasiva, vale a dire il sospetto sistematico e il pregiudizio. E dentro una società il sospetto reciproco dilava e slabbra il tessuto sociale come nient’altro. Se vogliamo che la nostra società sopravviva è importante che tutti, non solo GdL, capiscano che è la capacità di produrre relazioni, non la specificità di questo o quel contenuto culturale, che genera umanità e che consente ai gruppi umani di riprodursi nel tempo. Cambiando, come è giusto. Cambiando, come è bello.