Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
domenica 19 ottobre 2008
Università e tagli
Siccome la confusione è sempre maggiore, preferisco dire chiaramente come la penso sulla 133, anche se dai post che pubblico da anni dovrebbe essere chiaro che non sono un fautore dello status quo all’università. Se voleva risparmiare soldi, il governo poteva applicare il sistema di valutazione elaborato dal CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca) già voluto da Letizia Moratti, ignorato dal susseguente ministro della Ricerca e Università del governo Prodi, Fabio Mussi. Il sistema permetteva, per la prima volta, di finanziare quelle istituzioni universitarie più meritevoli per la qualità della ricerca, invece del solito e pazzesco sistema di finanziamenti a pioggia dove chi lavora e fa ricerca prende esattamente gli stessi soldi di chi non fa assolutamente nulla (il sistema è ulteriormente aggravato dal fatto che molti dipartimenti, una volta ottenuto il finanziamento “per teste”, cioè in base al numero di persone che lo compongono, poi ripartisce i soldi secondo criteri di nonnismo spudorato, per cui fatto 1 quel che prende un ricercatore, un associato prende 2 e un ordinario 3, sempre indipendentemente dal tipo di spese sostenute e dalla qualità della ricerca prodotta). Mussi ha avuto paura di toccare il farraginoso corporativismo del mondo universitario italiano, ma la ministra Gelmini? Perché non ha detto: “Ok, si riparte dalla valutazione del CIVR e i soldi da quest’anno vanno a chi a prodotto”?. Poi mettiamo a punto un sistema per valutare meglio anche la didattica, e dal prossimo anno attiviamo un piano di rientro che ci permetta da un lato di finanziare meglio (vale a dire con soldi veri, non con 300 euro all’anno per un ricercatore) chi produce ricerca di qualità, su temi rilevanti e in grado di attrarre l’attenzione della comunità scientifica internazionale, contemporaneamente lasciando a becco asciutto chi non ha prodotto. E poi, sempre dal prossimo anno, la Gelmini poteva proporre di ancorare gli stipendi alla produttività (valutabile a livello di ateneo, facoltà, dipartimento e singolo docente/ricercatore), semplicemente tagliando gli stipendi a chi non produce adeguatamente alla posizione occupata. Ovviamente si sarebbe tirata addosso il biasimo di quanti avrebbero da temere da un sistema del genere, ma non si sarebbe alienata TUTTA l’università italiana, come sta accadendo dato che i suoi previsti tagli saranno del tutto orizzontali, legati sostanzialmente al blocco del ricambio del personale (per cui l’università invecchierà ulteriormente, diventando un luogo ancora più lugubre e staccato dalla realtà della vita del paese). Se avesse proposto una vera riforma universitaria attuabile in cinque anni, certo molti le avrebbero dato filo da torcere, ma alcuni (tra cui io) avrebbero applaudito e non avrebbero avuto timore di schierarsi dalla sua parte. E non venitemi a dire che il sistema dell’Università italiana è troppo radicato in queste consuetudini di poco impegno di ricerca per poter essere modificato in tempi brevi. In Gran Bretagna avevano un sistema universitario forse ancora più elefantiaco e antiquato del nostro (avete letto i libri di David Lodge?), ma in meno di dieci anni ne hanno fatto uno dei sistemi più avanzati e produttivi del mondo. Il che significa, tra l’altro, che i docenti insegnano normalmente 150-180 ore all’anno, che i loro stipendi hanno un ampio margine di negoziazione (per cui gli Atenei pagano di più i docenti migliori, potendo fare campagna acquisti) e che gli studenti pagano salato quando possono permetterselo e pagano poco o non pagano quando sono meritevoli. Basterebbero dieci anni per mandare a regime un sistema del genere, basterebbe voler applicare seriamente il principio della qualità e del merito, invece di imporre tagli che si abbattono su tutti indistintamente, che andranno certo a esaurire dipartimenti esausti che nulla più hanno da dire e ricercare, ma che insieme soffocheranno alcune tra le realtà più della nostra ricerca, che non potranno rinnovarsi, crescere, nutrirsi di finanziamenti appropriati e di personale giovane.
Vero è che la 133 non dice nulla di cosa andrà fatto nell’Università italiana di qui al 2012 dovranno essere risparmiati da tutto il sistema dell’istruzione oltre tre miliardi di euro (articolo 64, comma 6) mentre si istituisce il 5 per mille a favore della ricerca. Spero insomma che i decreti applicativi della legge (o meglio, ulteriori norme da dibattere in parlamento) offrano spazio per orientare i tagli in favore della qualità e del merito, ma è comunque preoccupante che si parli di istruzione (dalle elementari all’università) solo per dire che verranno risparmiati soldi.
Certo, il sistema dell’istruzione pubblica ha bisogno di una riforma radicale, ma fare dei tagli senza nessuna progettualità non è una riforma, è un massacro sparando nel mucchio. Certo, si farà fuori qualche stronzo, ma non avevo mai pensato che il massacro di Columbine potesse costituire un buon modello per razionalizzare la spesa pubblica.