Sto cercando di ragionare sulle motivazioni per cui le reazioni a Facebook sembrano fortemente emotive non solo da parte della stampa sensanzionalistica ma anche da parte degli utenti. Se infatti per cosiddetti fenomeni come Second Life i media tradizionali avevano riempito pagine vergognose di nuovi luoghi comuni (Luca Sofri è da sempre uno storico cacciatore di bufale spacciate sulla stampa italiota sui vari pedofili e mostri che abitano la Rete), la reazione degli utenti al cosiddetto web 2.0 o social networking è stata molto più pragmatica e smaliziata: si va, ci si fa un giro, si vede a cosa serve, se serve, e si decide se usare il servizio.
A me è capitato così con MySpace e Twitter (il blog non lo conto, per me non è social networking, è lavoro in solitaria, come sarà chiaro tra poco). Sul primo ho aperto un account (mi dice la mail di conferma) il 5 marzo 2007 ma dato che non faccio musica e le mie foto le metto su Picasa, non ci ho fatto granché. Oggi ci vado a cercarmi i pezzi di qualche gruppo o cantante poco noto, che mi hanno segnalato o che ho incrociato per altre vie.
Twitter invece mi ha visto entrare il 27 luglio del 2007, e ai primi di settembre avevo finito l'esperimento, trovandolo una pratica di esibizionismo masturbatorio che non mi interessava, e sul quale ho già avuto modo di dire la mia.
Con Facebook (account aperto 27/07/07 ore 17.58), pare che le cose vadano in maniera diversa. Forse dipende dalle dimensioni che ha assunto il fenomeno stesso (MySpace e Twitter sono comunque rimasti fenomeni limitati a fasce "alte" di utenza, mentre su Facebook, da quest'estate, pare proprio ci siano "tutti", e già questo è un aspetto interessante della questione) ma fatto sta che le entrate e le uscite dal Fb non sono eventi pacifici o anche solo incruenti, e si configurano spesso come prospettive simboliche, prefigurazioni di scelte di vita o di campo.
Se qualcuno ancora non lo sa, su Fb si possono mandare brevi messaggi agli "amici" sul proprio stato (come Twitter), si possono inviare mail, come un client di posta, si possono caricare video (come YouTube), taggare le foto (come Flckr), e anche importare nelle note il proprio blog: in pratica, la sua natura open lo sta rendendo di fatto un ambiente operativo più che un software online, una macchina per aggregare gadget e strumenti software, da "manda un regalo a un amico" a "iscriviti alla causa".
Bene, detto così sembrerebbe il massimo della pacchia, un servizio a ventaglio al quale gli utenti possono accedere con diversi livelli di complessità o di partecipazione: c'è quello a cui basta aggiornare lo status una volta ogni tre giorni, e quello che invece posta video, foto taggate, commenti, note, regali, cause, inviti ad eventi e mille altre cose ancora.
Un servizio apparentemente democratico nel senso che il termine sta aquisendo in Rete, vale a dire partecipativo ma anche poco intruppato.
Eppure, se guardo nella sezione della posta del mio account di Fb, le ultime due mail che ho ricevuto sono di questo tenore (per ovvie ragioni cancello i riferimenti reali alle persone che hanno scritto i messaggi):
1. subject: un saluto
Ciao a tutti gli amici, i conoscenti e gli sconosciuti che in questi tre mesi su facebook sono comparsi nella mia lista.Per molte ragioni ho deciso di disiscrivermi da facebook, e me lo faccio come regalo di Natale, a conclusione del bilancio annuale e di promesse per il nuovo anno. Ritengo però che, per quanto questo non luogo mi abbia "sconvolto", dietro ogni scheda ci sia una persona e, in rispetto a questo, mi fa piacere andarmene salutando. [...]
2. subject: Importante: me ne vado
Ciao. Per tutta una serie di motivi (i principali li puoi andare a leggere, se ti interessa, nei link che ho postato sul mio profilo, nell’”evento” di pari oggetto, per i motivi che trovi in calce al mio messaggio) ho deciso di disiscrivermi da Facebook: il mio bilancio nei confronti di questo (anti)social network è decisamente negativo.
Perciò se ti cancello dagli “amici” non è per un rifiuto della tua “amicizia”, ma per un rifiuto di Facebook. [...]
I due "amici" di Fb ci hanno poi tenuto a lasciarmi il loro "vero" indirizzo di email (li ho infatti entrambi conosciuti su Fb e non avevo altri loro recapiti se non i loro accunt su Fb) se volessi tenermi in contatto con loro.
Qualche giorno prima, si era accesa (non ricordo più in qualche applicazione di Fb) una lunghissima discussione se si dovesse o meno uscire da Fb, discussione che ha coinvolto animatamente decine di utenti.
Il 9 novembre scorso, sull'inserto domenicale del Sole 24 Ore è uscito un pezzo di Andrea Bajani titolato "Prigioniero di Facebook" che inizia con queste parole:
Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera.
Certo, un'iperbole, ma dice molto sullo stato emotivo degli utenti di Fb.
Fb poi tende a dare vita a leggende urbane, come quella che una volta iscritti non ci si può più cancellare (falso) o che i propri dati rimangano per molto tempo dopo che ci si è cancellati (altrettanto falso).
Sono circolati in rete testi bellissimi per intensità e profondità di analisi, come quelli di Mariasole Ariot su Nazione Indiana, di Sergio Baratto su Ilprimoamore, e di Andrea Tarabbia, sempre su Ilprimoamore. Si tratta però sempre di testi carichi emotivamente, che sembrano "avercela" con Facebook. Mariasole Ariot dice:
Facebook in effetti, non dice niente.
Più che buco della serratura da cui spiare l’altro, un dito nel buco del mondo che del mondo vuole vedere solo il culo.
Per quanto icastica, questa non è una descrizione accurata di quel che succede in Fb.
Lo sciopero in Egitto del 6 aprile 2008, che ha scosso almeno in superficie il granitico controllo politico di Mubarak, è stato organizzato anche e soprattutto attraverso Facebook, e sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo.
Esraa Abdul Fattah, una delle fondatrici del gruppo "6 aprile, il giorno della sciopero" è stata arrestata e trattenuta in carcere per diciotto giorni proprio con l'accusa di aver sobillato la folla, dato che il gruppo al momento dello sciopero aveva più di 70.000 iscritti. La storia del ruolo di Facebook in Egitto (e del timore che il regime ha manifestato per questo sito) è stata raccontata con dovizia di dettagli. Qui c'è un video che racconta in dettaglio l'uso politico di Facebook in Egitto. E' forse il caso più famoso, ma certo non è l'unico e ricordo che in Birmania nell'agosto 2007 la "rivoluzione zafferano" si è appoggiata su un gruppo di Facebook che ha aggregato 440.000 utenti, L'uso politico di Facebook è diventato comune, e se da noi si fanno campagne casarecce sulla Gelmini con o senza palle, appena si esce un poco dal guscio domestico (internet dovrebbe essere lì anche per quello, no?) si vede le l'attivismo è cosa seria, e Facebook sta diventando un suo strumento, soprattutto in paesi dove il controllo dei media da parte del potere istituzionale è forte.
Quindi non si può dire che Fb non dice niente, semplicemente perché non è vero, e quel che dice Fb dipende da cosa gli facciamo dire noi, come per qualunque altra applicazione.
Facebook ha la capacità di aggregare rapidamente un numero altissimo di persone, e questa, secondo me, è la ragione principale del risentimento che solleva. Facebook è cafone.
Sergio Baratto, nel suo post su Ilprimoamore, ha detto tutto nel primo paragrafo:
All'improvviso ho capito perché c'è molto meno movimento intorno ai blog: si stanno buttando tutti su Facebook. Sono quasi tutti emigrati lì, verso forme meno raffinate e impegnative di cazzeggio. Vorrai mica paragonare lo sforzo di inventarsi un post di X righe a quello di scrivere una frasetta di quattro o cinque parole alla terza persona singolare?
Baratto pone un'opposizione tra blogger e utente di Facebook: mentre il primo deve articolare la sua posizione in un "post di X righe" (vedete: non può neppure specificare quante, dato che, tanto per citare uno dei blog Italiani più seguiti, Wittgenstein di Luca Sofri spesso carica dei post di una riga), l'utente di Fb scrive "una frasetta di quattro o cinque parole", dimenticando così che su Fb si possono postare "note" della lunghezza che si vuole (e anche importare interi blog, come già detto).
La tesi di Baratto è assunta in pieno da Andrea Tarabbia:
Facebook è il network che vince perché è il vuoto fatto grafica. Non tutti possono avere un blog, perché non tutti hanno una sintassi di cui non si vergognano e, soprattutto, non tutti hanno qualcosa da dire con una vaga regolarità. Non tutti posso avere una libreria on line perché esiste anche il diritto di non leggere. Non tutti hanno MySpace perché non tutti hanno voglia di passare le giornate a caricare foto e video. È però evidente che tutti – chi più chi meno – hanno niente da dire con cadenza più o meno regolare o negli intervalli delle cose che si dicono, per cui Facebook è in grado di soddisfare le esigenze di chiunque.
Ho l'impressione che questo insistere sulla dimensione simil-Twitter di Facebook, che non è necessariamente la sua principale, serva all'argomentazione distintiva: noi che abbiamo qualcosa da dire (e sappiamo anche come dirla) ci troviamo in imbarazzo in un ambiente a cui possono accedere anche quanti non solo non hanno nulla da dire, ma per di più non maneggiano neppure con scioltezza le strutture per dirlo.
Andarsene da Facebook, allora, diventa un modo per dichiarare la propria distanza dalla folla, che invece non ha nulla da dire e prova a dirlo comunque, per di più male.
La folla cafona è arrivata su Internet: questo il grido di dolore che fa da bordone ai lamenti su Facebook (per evitare malintesi: sto parlando anche e prima di tutto dei MIEI lamenti, del mio terrore di essere confuso con la folla).
Noi, che abbiamo sudato sui sistemi operativi del DOS, che ci siamo iscritti alle BBS prima che arrivasse Internet, che abbiamo provato a trafficare con le copie piratate di Dreamweaver perché volevamo farci il sito nostro (o perché, come me, lavoravamo per case editrici che volevano ci occupassimo di aggiornare i contenuti del sito). Oppure noi che quando è arrivato splinder ci si è aperto un mondo e abbiamo capito che finalmente non avevamo bisogno di elemosinare una colonna nel giornale di provincia, che non dovevamo più fare la fila dall'editore, e che potevamo coltivare il sano, estetico, profondo bisogno di comunicare i nostri profondi pensieri al mondo intero con IL NOSTRO BLOG. E questo blog era la migliore garanzia della nostra assoluta unicità, del nostro essere, in fondo, dei figaccioni incredibili, e potevamo anche fare finta di non esserlo e potevamo giocare a fare i modesti, gli impegnati (tanto c'era il blog a garantire la nostra assoluta figaggionitudine). Eccoci qua, noi, distinti, separati, finalmente e chiaramente riconosciuti anche grazie al generoso incrocio tra competenza tecnologica e volontà di esprimerci, nell'arco di sei mesi ci troviamo sommersi, annichiliti in una folla di buzzurri, geometri del Cepu, sciampiste di Scaltenigo, panettieri lucani, svogliati studenti di Scienze della comunicazione, che porca puttana scrivono sul loro loculo su Facebook che sono diventati fan di Gigi D'Alessio (o membri del gruppo "Aboliamo Gigi D'Alessio") e hanno un numero di lettori che è dieci o venti volte superiore al numero di contatti medio del nostro blog!
In questa folla pacchiana che ci stiamo a fare? Ci siamo entrati come si entrava in un circolo comunque ristretto, e ci siamo ritrovati con la massa, ma massa vera. Non si può fare, così non va.
Io credo che dovremmo fare lo sforzo di spostare la prospettiva di analisi, e mettere un poco da parte il nostro orgoglio ferito. Facebook, così com'è, sta alla comunicazione come il punk stava alla musica negli anni Settanta. Il punk non aveva bisogno di essere carino nei contenuti e, soprattutto, non aveva bisogno di alcuna vera competenza musicale. Bastavano quattro accordi e potevi urlare quel che avevi da dire (o anche urlare che non avevi nulla da dire). Non ti servivano sussiegosi percorsi di apprendistato, nessuno a cui rendere conto, al massimo qualche altro strippato come te che ti seguiva a ruota quando partivi con l'assolo. Pensateci, è esattamente quel che sta succedendo con Facebook. E noi, noi che abbiamo studiato nei conservatori della cultura, noi che abbiamo le lauree e facciamo i giornalisti free lance o gli scrittori (o addirittura facciamo laboratori di scrittura creativa) stiamo sformando perché ci stanno sottraendo anche quel microscopico spazio di comunicazione che sentivamo finalmente di avere il diritto di tenere sotto il nostro controllo.
Le masse di liceali fankazzisti, impiegati fannulloni, commesse a progetto che diventano fan di Braccobaldo o di Max Gazzè possono farci anche orrore, ma non è che smettono di esistere se noi usciamo da Facebook: continuano ad esserci, a vivere la loro vita ogni giorno (e probabilmente a votare in modo che a noi dà fastidio). Solo che dentro Facebook si rendono visibili anche al nostro sguardo, e vanno a occupare uno spazio di visibilità per il quale pretendiamo di avere la precedenza, e cioè la visibilità degli happy few che accedono alla Rete.
Pensateci un momento: siamo ormai dentro una società in cui l'esistenza stessa dei soggetti è garantita non dal fare, e neppure più dal sentire, ma dalla possibilità di essere riconosciuti dagli altri. Da questo punto di vista, la partecipazione all'Isola dei Famosi (o a qualunque altro reality televisivo) è l'unico evento REALE (e infatti come tale è vissuto da chi vi partecipa) perché è l'unica forma di evento che esiste come atto costitutivo di messa in vista (è insomma un "evento mediatico" in senso tecnico). Ma se l'Isola dei Famosi è la versione plebea della messa in vista, noi happy few avevamo finora goduto del sex appeal selettivo della Rete: i nostri blog, i nostri MySpace, erano la versione certo più elitaria di una comparsata al Grande Fratello, ma con lo stesso obiettivo: esistere in quanto riconosciuti dagli altri.
Ora, con Facebook, vediamo le folle dei fan di Simona Ventura e Maria De Filippi entrare a occupare spazi che pensavamo nostri, e la cosa semplicemente ci "fa vomitare".
Ecco, ci fa vomitare che Internet sia diventata profondamente, paradossalmente, vergognosamente democratica. Che sia diventata di tutti, anche di quelli che, secondo noi (che siamo colti e raffinati) non se la meritano.