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venerdì 20 settembre 2019

I padri e la patria


Note per la lettura di Consigli per essere un bravo immigrato, di Elvira Mujčic, Lit Edizioni srl (Elliot), Roma, 2019, pp. 91.

Ho letto i primi lavori di Elvira Mujčic in quanto “esperto dei Balcani” e ora mi ritrovo a leggere l’ultimo lavoro in quanto “esperto di immigrazione” o qualcosa del genere.
Verrebbe voglia di tornare ai comodi modelli dello strutturalismo per comprendere il filo del libro: Elvira, bionda, bianca, italiana accolta bambina come rifugiata bosniaca in un mondo in cui ancora esisteva la compassione, si trova ad aiutare (ci torno dopo, su questo verbo) Ismail, africano gambiano, nero, dinoccolato, che non riesce a farsi riconoscere la protezione internazionale per il suo caso di perseguitato politico.
Li uniscono due tratti, uno più superficiale (ma molto connotativo dello straniero, in Italia), vale a dire la tradizione familiare musulmana (che per Ismail permane nella recitazione delle sure del Corano ascoltate con le cuffiette, mentre per Elvira è solo il ricordo dei riti di fine Ramadan celebrati dal nonno a riportarla in quella sfera); e una invece più profonda, personale, vale a dire la tendenza al controllo eccessivo.
Che cosa mai dovrà fare, Elvira, con il suo status rassicurante di scrittrice italiana ex straniera, per poter aiutare questo straniero incapace di scrivere, di compilare cioè in modo credibile il modulo C3, la domanda per la richiesta di protezione che include il racconto biografico dettagliato degli eventi che legittimano la richiesta di essere accolto nel nostro paese? Una non-abbastanza-straniera con un eccesso di scrittura che deve aiutare un troppo-straniero con una carenza di credibilità come narratore. È Maurizio (un operatore del terzo settore che amava la Bosnia da prima della guerra e che lavora con gli immigrati) a fare il mezzano di questa coppia sbilenca, in cui una ex straniera dovrebbe spiegare a un futuro immigrato come si scrive una storia credibile. Ecco, il punto centrale di tutto il libro è la disamina di questo aggettivo associato al racconto. Che cosa fa di una storia una storia credibile?
Si scoprirà (e dopo Nietzsche non abbiamo scampo) che la verità narrativa è una struttura retorica, una serie di tropi letterati, di stilemi e di aspettative del lettore portate a compimento. Quel che è successo non ha alcuna importanza. Oppure, per provare a dirlo in modo meno pessimistico, quel che conta della narrazione non è quel che è successo, ma quel che significa che sia successo. Una narrazione condotta dentro un senso, per quanto artefatta, sarà sempre più credibile di quella che gli antropologi chiamano thin description, vale a dire un racconto senza un ordito significativo a sostenere la trama.
Se non si entra in questa logica del senso del racconto, non succede praticamente nulla nelle pagine del libro: una richiesta di protezione internazionale viene rigettata, e una scrittrice dovrebbe aiutare un immigrato a compilare un ricorso facendo leva sulle strategie retoriche del racconto credibile. Si badi che Elvira è interpellata da Maurizio in questo ruolo di assistente dell’eroe per la sua duplice natura di scrittrice e di ex straniera, vale a dire di una che dovrebbe saperla lunga su come si articola una storia per essere accolti in Italia. Solo che Elvira non ha mai dovuto esercitare le sue competenze di narratrice come richiedente asilo perché veniva da Srebrenica, e nel massacro del luglio 1995 ha perso il padre e lo zio ma non ha avuto bisogno di raccontare questa storia per essere ammessa in Italia, quella era un’altra epoca, in cui ancora la compassione era un sentimento spendibile in pubblico e dalle pubbliche istituzioni. Ismail invece cerca di entrare in un mondo che parla di responsabilità e opzioni individuali, di codici e regolamenti, e ha bisogno di uniformare il suo racconto ai modelli accettabili.
In realtà Elvira non ha consigli da dare a Ismail per essere un bravo immigrato, e condivide con lui racconti, cercando di comprendere cosa c’è che non va nella storia del giovane gambiano.
In questi incontri tutti vissuti nel quartiere romano di San Lorenzo, appaiono all’orizzonte le due altre figure narrative del libro, che sono insieme la radice dello spaesamento e del dolore, e il perno del ricordo e del possibile riorientamento morale dei due. Non aspettatevi lunghe pagine, né ritratti dettagliati, sono però cunei narrativi che tengono in piedi tutto il romanzo: sono il padre di Elvira e il padre di Ismail.
Il primo compare già nel sogno all’inizio del libro (Elvira bambina entra in un cinema “vieni, vieni a vedere cose finte che sembrano vere”, ma poi un’ascia squarcia lo schermo e una mano trascina Elvira oltre la parete della finzione: “vieni, qui le cose sono vere, ma sembrano finte”), ma è alla fine del decimo capitolo che prende la forma inaspettata di un fenicottero:

…la prima volta che li avevo visti volare nel cielo di Cagliari erano una ventina, si erano levati in volo dalla salina e i loro corpi rosa si erano stagliati nella luce del tramonto […] Con mio padre guardavamo i documentari sui fenicotteri che, per i nostri climi e latitudini, ci apparivano come animali fantasmagorici, e fare un viaggio per accertarne l’esistenza era stato uno dei progetti più grandiosi della mia infanzia.
Quel giorno a Cagliari, l’incontro con questi uccelli formidabili mi aveva fatto pensare a mio padre […] Lui non aveva fatto in tempo a vedere i fenicotteri nei trentaquattro anni della sua vita e questa brevità del tempo, quest’atto mancato, l’innaturalezza dell’essere una figlia più vecchia del padre, la definitività con la quale tutte le sue esperienze si erano arrestate, mentre le mie andavano avanti, l’impossibilità di stabilire un dove e un quando di quella morte aveva fatto sì che lui non fosse mai diventato passato. Era presente come una sottile mancanza tenuta viva da un dialogo immaginario… (pp.70-71).

Di nuovo, non c’è alcun evento, non c’è bisogno che succeda nulla per suscitare questo ricordo e questo legame, basta l’immagine di una bambina in divano con il padre, a fantasticare su viaggi esotici alla caccia di uccelli visti in tv. Troppo poco, verrebbe da dire, per essere credibile come storia…
Anche il padre di Ismail appare la prima volta in un episodio parimenti privo di eventi. È il primo giorno di scuola per Ismail, ma il padre non si vede, la sua barca forse non è rientrata dalla pesca e il figlio lo cerca con un crescente presentimento:

Inciampava nelle reti da pesca e quando stava quasi per arrendersi alla disperazione, la mano grande dalle dita callose di suo padre si era posata sulla sua testa; lui aveva sentito qualcosa sciogliersi nel petto e si era messo a piangere come fosse un bambino piccolo, mentre il padre rideva e gli accarezzava la testa e domandava: «Come hai potuto pensare che tuo padre ti avrebbe abbandonato?»
In seguito era successo molte volte di essere lì lì per arrendersi alla disperazione, ma quando arrivava a quell’esatto punto si ricordava di quel giorno in spiaggia e allora, come per una questione di superstizione, si riprendeva e diceva che no, non si sarebbe lasciato andare così, le cose sarebbero andate bene, come se il solo fatto che una volta aveva ritrovato il padre perduto garantisse tutti i ritrovamenti futuri. (p. 73).

“La mano grande dalle dita callose” non è vista da Ismail, ma percepita con il tatto, mentre suo padre lo carezza. Il padre è prima di tutto un contatto, uno spazio che solitamente lasciamo alle madri, ma questo padre materico e nodoso (“io sento che sono due persone: sono me e sono mio padre” dirà a pagina 78) sembra il converso del padre di Elvira, ricordato tramite la visione della sua eterea alterità animale.
Sono entrambi padri perduti, nomi, ricordi da nulla, un documentario alla televisione, una paura da bambini. Eppure, è dentro quei ricordi che il lettore sente la commozione del tempo ritrovato come senso. Non c’è bisogno, verrebbe da dire con ritrosia, che ci raccontiate le azioni bestiali degli assedianti di Srebrenica e della polizia del dittatore del Gambia, perché il vostro dolore e la vostra sofferenza sono tutte raccolte in quella mancanza del padre che non può che essere anche mancanza della patria, di un posto e di un tempo in cui il futuro non aveva ancora preso la forma che poi vi avrebbe portati fino a questo bisogno o necessità di raccontarlo. Un futuro segnato da una perdita insanabile, dalla perdita per eccellenza, si dice.
Cosa possiamo ancora raccontare di fronte alla perdita del padre? Quale altra storia ha senso, dopo quella? Elvira e Ismail si pongono, di nuovo, in posizione speculare con le loro risposte. Elvira diventa addirittura scrittrice, fa di quella apparente ineffabilità il motore della sua vita, mentre Ismail deve convertire quel racconto che non sa dire in un agire compensatorio (devo restare nel vago per evitare accuse gravi di spoileraggio…): se non può dire quella mancanza, deve fare qualcosa per equilibrarla: “riparare, recuperare, salvare quello che si può per rimediare a quello che non si è potuto fare” (p.85).
C’è, infine, un ultimo tratto che mi ha colpito di questo libro esile e denso, ed è la presenza dei sogni. Per Elvira sono un modo per aprirsi al racconto, ma per Ismail sono un legame con i defunti: quando smette di sognare, teme di aver perso contatto con i suoi antenati, che loro si siano scordati di lui. Per entrambi i protagonisti, così, il sogno è il tramite necessario all’apertura di un senso, orientato al futuro della scrittura per Elvira o radicato, per Ismail, nel passato della propria storia, per quanto indicibile. Il sogno quindi lega il tempo e il racconto, consente di affacciarsi sui volti sconosciuti dei prossimi lettori e nei tratti consueti dei familiari perduti, e lascia in chi legge una sottile malinconia di storie altrui, che così poco somigliano alle nostre, eppure riusciamo, nel mistero della scrittura, a sentirle parte di noi.