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mercoledì 20 ottobre 2021

CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA (Lezione 06 del Modulo A, registrata il 15 ottobre 2021)

 



Abbiamo iniziato la lezione ricordando i due punti raggiunti finora: la cultura è APPRESA, e la cultura è SIMBOLICA. Dovremo quindi oggi chiederci in modo esplicito se la cultura sia anche CONDIVISA secondo quel che ci sembra ovvio quando pensiamo ai gruppi, alle etnie, alle nazioni (ci sono un Francese, un Tedesco e un Italiano…)

[MINUTO 05:00] Abbiamo però prima ripreso la questione della nascita dell’antropologia (e delle scienze sociali) e il mutamento che l’antropologia ha attraversato negli ultimi settant’anni.

Siamo quindi partiti dalla MODERNITÀ come il superamento progressivo di una concezione del potere come emanato da un centro e irraggiantesi il più lontano possibile da quel centro con intensità sempre minore, fino a sovrapporsi all’influenza di un altro centro di potere. Questa concezione “a mandala” del potere come gioco geometrico di centri che inglobano centri minori in costante mutamento è stata progressivamente sostituita proprio nel passaggio della modernità da una concezione invece del nuovo potere dello STATO NAZIONALE, che si esercita nel modo più uniforme possibile in tutte le porzioni di spazio controllate. Questa geometrizzazione dell’appartenenza (si è sempre più chiaramente o francesi o italiani, a seconda di dove cada il confine, ora; con margini sempre più ridotti per appartenenze ibride) produce modifiche anche sulla concezione di SOGGETTO e INDIVIDUO: come gli stati perdono la loro permeabilità, anche i soggetti si fanno IN-DIVIDUI, vale a dire compatti e separati, (in-dividuo in greco è a-tomo). Questa concezione del soggetto è in gran parte nuova, e abbiamo accennato a MARYLIN STRATHERN, antropologa britannica che ha lavorato in Melanesia, e che parla di “dividuo” per intendere proprio un soggetto la cui identità non è ristretta nel suo proprio corpo, ma è sentita come condivisa tra più soggetti, in particolare quelli collegati attraverso forme sentite come naturali di appartenenza, come “la parentela” (tema su cui avremo molto modo di tornare nelle prossime lezioni).

Così attorno all’idea di modernità si coagula una nuova concezione del potere statale, della psicologia dell’individuo, del mercato come spazio autoregolato gestito da attori anonimi: la filosofia politica, la sociologia, la psicologia e l’economia nascono proprio per fare i conti con questo mutamento attivato dal passaggio nella modernità.

Vista alla luce della modernità, nell’Ottocento progressivo e in espansione tecnologica e militare, la diversità culturale umana appare come disporsi lungo un’unica SCALA EVOLUTIVA, con il nord bianco posto nel presente e tutte le altre culture, verso Est e verso Sud sempre più relegate in un altrove spaziale che diventa un PRECEDENTE CRONOLOGICO, come se i nostri contemporanei, nella misura in cui erano percepiti come diversi, fossero anche “antecedenti” cronologicamente, residui di un passato “barbaro” o “primitivo”. Quindi, mentre tutto il mondo si muoveva (nella concezione ideologica della modernità che stiamo analizzando) verso un futuro dominato dalla “civiltà Occidentale” che prima di tutte stava affrontando la crisi della modernizzazione, bisognava capire che farsene di quelli “rimasti indietro”, nelle campagne non urbanizzate, nelle colonie ovviamente “arretrate” e nel mondo “primitivo” ancora sconosciuto.

In questo senso l’antropologia nasce come scienza del RESIDUALE.

Sul piano metodologico, l’antropologia nasce come figlia naturale del Positivismo ottocentesco, convinta che il lavoro primario sia quello di produrre una documentazione adeguata di mondi (rurali o esotici) segnati dal destino dell’estinzione, che vanno quindi recuperati o almeno registrati per quanto possibile, prima che sia troppo tardi.

[MINUTO 19.30] Per descrivere questo mondo arcaico o primitivo, si usa il PRESENTE STORICO perché non sono considerati soggetti storici, ma ancora naturali. JOHANNES FABIAN, Il tempo e gli altri (1983).

La crisi epistemologica di questa visione empirica si condensa nel passaggio progressivo dell’attenzione dell’antropologia dalle CAUSE ai SIGNIFICATI rispetto ai fenomeni studiati.

BRONISLAW MALINOWSKI aveva descritto questo punto insistendo sul fatto che l’antropologia studia le cose “dal punto di vista dei nativi”, non indaga cioè quali siano i criteri universali di bellezza femminile, ma cerca di capire cosa significhi il concetto di Ochobo per i giapponesi.

[MINUTO 27:27] La crisi epistemologica che induce a ripensare l’oggettiva datità del mondo, ora visto sempre più nitidamente come una rete di significati da districare con pazienza e umiltà, si accompagna nel secondo dopoguerra anche a una crisi politica fortissima: la tragedia degli stermini di massa, le sacrosante lotte per l’indipendenza di molte colonie e il ripensamento delle gerarchie sociali e di genere dentro le culture Occidentali impongono un cambiamento radicale (nel doppio senso di fondamentale, ma anche profondamente antagonistico) dei modi canonici di condurre la ricerca sociale.

Si contesta il canone del sapere ricevuto, si ipotizzano MODERNITÀ MULTIPLE, vale a dire percorsi peculiari verso la modernità, che non seguono necessariamente il modello della secolarizzazione+libero mercato+democrazia parlamentare, ma che trovano, ad esempio anche sbocchi nel FONDAMENTALISMO come esito paradossale di un percorso alternativo verso la modernità.

[MINUTO 30:55] A questa crisi che è epistemologica (cosa crediamo di sapere), metodologica (come possiamo arrivarci) e politica (che cosa ci facciamo con quel sapere) l’antropologia risponde in vari modi, ma soprattutto comprende che il suo ruolo non è necessariamente relegato ai margini della modernità. L’antropologia diventa così lo studio della costruzione simbolica dei sistemi di valore, e diventa ad esempio antropologia URBANA e DELLA CONTEMPORANEITÀ.

Nei saggi di FABIO DEI e UGO FABIETTI che abbiamo aggiunto nelle letture (file 007 e 008) si parla di questo mutamento del metodo e del senso profondo della nostra disciplina.

[MINUTO 37:55] Un rapido accenno alla DIFFERENZA tra FILOSOFIA e ANTROPOLOGIA, partendo dalla sintesi che ne ha dato TIM INGOLD: L’antropologia è filosofia con la gente dentro.

[MINUTO 44:20] iniziamo davvero ad affrontare la questione centrale di questa lezione, cioè quanto e in che senso la cultura sia condivisa. L’abbiamo fatto partendo da uno spezzone di un documentario che ho realizzato anni fa (con la regia dell’allora mio studente Federico Gnemmi, che ha fatto la sua tesi realizzando questo video). Si vede una anziana signora trasteverina che racconta quando il suo quartiere sia cambiato.

Questo video iniziale (spero prima o poi di poterlo montare online in qualche modo) ci consente di introdurre proprio la questione dell’appartenenza e della compresenza della diversità, confrontando la vita della signora Giuliana con quella di suo nipote ventenne e con quella di una ipotetica signora ucraina che fa la badante in una casa dello stesso quartiere: quale vita somiglia più a quale altra? La comune appartenenza nazionale e addirittura un legame diretto di parentela sono garanzie di somiglianza tra le persone? Viceversa, la diversità di nazionalità è una condizione sufficiente per ipotizzare senza verifiche una differenza abissale tra due persone?

Il modo in cui ci aggreghiamo, in cui ci sentiamo parte di un gruppo, sono le più varie e non è facile stabilire a priori quali siano le variabili che ci fanno sentire parte di quel gruppo. In questo video, l’identità collettiva, cioè il senso di condivisione, è ben raffigurata nella sua complessità, e comprendiamo che non dovrebbe essere ridotta a una o due variabili, ma dovrebbe essere compresa nella sua costante mutevolezza.

Noi tendiamo a pensare “spontaneamente” (in realtà dipende da due fattori determinanti) che tutte le culture si possano suddividere in modo che tutti i membri di una specifica cultura siano nettamente distinti da tutti i membri di qualunque altra cultura, e che tra loro non vi siano sovrapposizioni.

In realtà, questa fantasia del CONFINE NETTO tra noi e loro dipende proprio dalla necessità di dare solidità cognitiva al mondo che ci circonda, e uno dei mezzi più efficaci che la cultura ha trovato per fare questo (non ti preoccupare, il mondo è proprio così, come lo vedi “naturalmente”, e soprattutto è sempre stato così, per noi) è insistere sul concetto di TRADIZIONE, sull’idea cioè che quel modo di essere o fare è radicato nella profondità storica e la sua origine si perde nella notte dei tempi.

In verità, sappiamo che questa dimensione tradizionale ha sempre una componente ideologica, è insomma anche una costruzione, volta proprio a garantire valore morale e psicologico per quelle cose tradizionali. Esempi [MINUTO 58:40] del tè inglese, della pasta col pomodoro italiana e della nduja calabrese. Riferimento a ERIC HOBSBAWM e TERENCE RANGER, L’invenzione della tradizione, un libro del 1983 anche criticabile e criticato, ma comunque un testo che ha costretto tutti a riflettere in modo nuovo sul concetto di TRADIZIONE, non più concepita come una pratica dotata necessariamente di una profondità storica, ma piuttosto una pratica socialmente condivisa che è stata assunta come tale, vale a dire come propria del gruppo che la pratica anche se la sua introduzione può essere relativamente recente.

[MINUTO 1:10:20] Questi processi di patrimonializzazione, di riconoscimento di tradizioni, sono essenziali per individuare le appartenenze, che non sono incluse una nell’altra come scatole cinesi, ma si incrociano a diversi livelli. Dobbiamo insomma sempre avere chiarezza del fatto che l’identità è sempre la risultante di un incrocio tra IDENTIFICAZIONE INTERNA, cioè il modo in cui definiamo noi stessi, e la CATEGORIZZAZIONE ESTERNA (cioè il modo in cui classifichiamo “gli altri”).

[MINUTO 1:16:50] questo ci deve rendere consapevoli che quando diciamo che “la cultura è condivisa” stiamo dicendo una cosa molto complicata dal punto di vista oggettivo, dato che la condivisione è sempre dipendente dall’interrelazione, da quanto cioè le persone che “da fuori” categorizziamo come appartenenti allo stesso gruppo (“gli extracomunitari”) al loro interno possono essere i portatori di una complicatissima varietà che non si riconosce affatto nell’etichetta che noi abbiamo dato loro. I gruppi culturali e anche le culture in generale sono flussi magmatici che si muovono nel tempo e nello spazio, e che in determinati tempi e determinati luoghi noi tendiamo a vedere come statiche, come se facessimo una fotografia di una fiume in movimento e poi chiamassimo quell’onda la cultura X e quell’altra la cultura Y.

[MINUTO 1:23:55] Vi è quindi una tendenza generale a SOVRASTIMARE LA CONDIVISIONE CULTURALE, ci viene facile pensare che gli italiani siano mediamente molto diversi dagli ucraini e che quindi, prendendo un italiano a caso (la signora Giuliana) e un ucraino a caso (la badante di Trastevere) ci troveremo di fronte a differenze comunque maggiori che non tra due italiani o due ucraini qualunque. Questa sovrastima, come anticipavamo all’inizio, dipende da due fattori:

1. Il primo è già stato indicato ed è proprio la nostra necessità di affidarci, in quanto animali culturali, a schemi e filtri che ci consentano di ridurre in formato maneggevole le troppe sollecitazioni cognitive del mondo in cui siamo immersi. Non possiamo tener conto di tutto, tracciare tutto, cercare di capire tutto, e quindi necessariamente tagliamo fuori dal nostro interesse quel che non ci pare consono, adeguato, “normale”, oppure lo etichettiamo come pericoloso, ponendolo in rilievo. L’evitazione produce quindi la tendenza a marcare enfaticamente dal punto di vista cognitivo ciò che è diverso, per produrre specularmente una sorta di ottundimento cognitivo, con cui diamo per assodato che attorno a noi le “solite” percezioni siano sempre più o meno le stesse, e quindi sottovalutiamo percettivamente e cognitivamente differenze che altrimenti dovremmo riconoscere.

2. Il secondo motivo è invece di ordine politico: negli ultimi duecento anni sempre più umani sono cresciuti dentro lo spazio dello stato nazionale dato come scontato, e lo spazio nazionale, per ragioni che non possiamo riassumere in questa lezione ma che abbiamo affrontato nel saggio inedito Dal punto di vista dei nazionalisti, è uno spazio sociale che pretende l’uniformità interna, e quando (come sempre) non la trova, semplicemente inizia a lavorare (in un processo di costruzione della nazione) per produrla, un tema importante su cui spero potremo tornare in una sintesi video che conto di pubblicare a breve, una bonus track per questa lezione.