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sabato 16 ottobre 2021

UOMINI COTTI E DONNE CRUDE: LA RETE DI SEGNI CHE CHIAMIAMO CULTURA (Lezione 05 del 13/10/2021 del modulo A di Antropologia culturale)



Visto che questa lezione avrebbe dovuto essere sul motivo per cui durante queste prime lezioni non ho presentato quasi mai esempi “esotici” e ho invece fatto soprattutto riferimenti alla “nostra” cultura, ho rapidamente introdotto la questione storica che ha fatto sì che l’antropologia culturale OGGI è prima di tutto la scienza della dimensione simbolica del reale sociale, mentre è nata in realtà con tutt’altro fine, vale a dire come lo spazio di riflessione sul residuale della modernità. Le scienze sociali in effetti sono nate nel corso dell’800 per affrontare il grande tema della MODERNITÀ, con i problemi connessi dell’urbanizzazione, della secolarizzazione, dell’anomia, e in generale della frammentazione della cultura TRADIZIONALE. L’antropologia, come scienza minore, inizia dunque a occuparsi di quel che è RESIDUALE rispetto a questo cammino della modernità, vale a dire la cultura RURALE e le culture PRIMITIVE. Ma riprenderemo questo tema nella prossima lezione.

[MINUTO 05:00] Anche se finora ho raccontato più che altro un’antropologia dedita allo studio della “nostra” cultura, per non dimenticarci da dove viene l’antropologia e perché vale la pena di apprezzarne l’archivio, abbiamo di fatto aperto la lazione traducendo [MINUTO 07:00] qualche battuta di un’intervista che MARSHALL SAHLINS (1930-2021) ha rilasciato a un suo giovane allievo, in cui riprendeva un suo saggio degli anni 80 (Raw Women, Cooked Men and Other “Great Things” From Fiji, «Le Débat», 19, 2, 1982, pp. 121-145) e ricostruiva le strane parole di un vecchio capo delle isole Fiji, raccolte da un antropologo negli anni Venti del Novecento. Il capo voleva offrire un dono ai suoi maestri d’ascia per la superba canoa doppia che gli avevano costruito, e se ne uscì con queste parole: “Nei bei tempi antichi, vi avrei ringraziato donandovi un uomo cotto o una donna cruda, ma ora il Cristianesimo ha rovinato tutto!”. Sahlins spiega che, se si passa abbastanza tempo in quelle isole, si capisce che l’uomo cotto è la vittima sacrificale di un rituale cannibalico, e ha la funzione, in quanto dono agli dei, di favorire la fertilità di chi lo mangiava. Con “donna cruda”, invece, il capo intendeva la figlia vergine di un capo, che parimenti era molto efficace nel consentire al gruppo che l’acquisiva di riprodursi nel tempo con i frutti del suo ventre. Uomo cotto e donna cruda, dunque, significano in entrambi i casi un dono che, in modo diretto (donna) o indiretto (uomo) consente a chi lo riceve di investire sul proprio futuro come gruppo che continuerà a riprodursi.

Sahlins dice che esempi come questo sono la prova che il mondo degli antropologi e quello dei fisici sembrano funzionare in direzioni opposte: un fisico parte dall’ovvietà delle percezioni sensoriali (un tavolo che suona pieno sotto le dita) per arrivare a scoprire che invece c’è un sacco di vuoto tra nucleo e elettroni e addirittura, su scala quantistica, a farsi una rappresentazione del mondo del tutto incomprensibile per il senso comune, mentre l’antropologia fa la strada opposta: parte da una stranezza incomprensibile (uomini cotti e donne crude) per arrivare lentamente a renderla sensata ricostruendone il contesto culturale di occorrenza.

[MINUTO 15:10] L’acqua benedetta e l’acqua di rubinetto sono indistinguibili per un chimico o un fisico, ma per un antropologo, che cerca di ricostruire come vedono le cose “gli altri”, sono ben diverse. Si può dire che il senso dell’antropologia stia tutto qui, nell’imparare a distinguere l’acqua benedetta che ogni cultura produce,

[MINUTO 17:08], visto che a Tor Vergata non c’è più nessuno che insegni SEMIOTICA, dobbiamo toccare un poco la questione del SEGNO, e come si incrocia in profondità con quella di CULTURA.

Abbiamo distinto un SEGNO GENERICO o Segno1 (qualcosa che sta al posto di qualcos’altro da qualche punto di vista) da un SEGNO IN SENSO STRETTO o Segno2 (che invece è la correlazione univoca tra un SIGNIFICANTE e un SOLO SIGNIFICATO). Il Segno2 si oppone al SIMBOLO (che è invece costituito da un significante che può assumere molteplici significati). La distinzione tra Segno2 e Simbolo si dispone lungo un continuo, con il che si intende che i segni ordinari non sono né Segno2 perfetto, né Simbolo perfetto, ma qualcosa a metà. Mentre i linguaggi formali (come quello della matematica) utilizzano solo Segni2 (il segno significa una cosa sola “diverso da”) il linguaggio religioso o politico utilizza simboli molto ampli (la croce per il cristianesimo, per esempio, o il segno “democrazia” per la politica).

Fatta questa premessa, per i nostri scopi introduttivi parleremo solo di Segni in senso generico, e

[MINUTO 23:58] Distinguiamo in modo tecnico tra SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO. Il primo è semplice: si tratta della componente materiale del segno, del suo supporto fisico. Non siamo angeli, e siamo dunque costretti a comunicare facendo trasportare i significati da mezzi fisici: le onde sonore, il gesso, l’inchiostro, ma anche il metallo di un anello, o i petali di un fiore, se il fiore è un dono. Oppure il movimento del corpo in un passo di danza.

Il SIGNIFICATO invece è più complicato da spiegare. Diciamo che per molti secoli è prevalsa una TEORIA REFERENZIALE del significato, che dice che il significato è costituito dal referente materiale o dall’immagine mentale del segno, ma questo modello teorico può funzionare molto bene per la comunicazione animale (che in effetti, come abbiamo visto, è sostanzialmente referenziale: guarda, lì ci sono banane, andiamo! Oppure: guarda, lì c’è un leone, scappiamo!) mentre è una teoria incompleta se riferita al linguaggio umano, che molto spesso non è affatto referenziale, ma tratta di concetti come “Ochobo”, che non hanno alcun referente materiale immediato, oppure di connettivi come “quindi”, “oppure”, che non producono alcuna immagine mentale, o di concetti/simboli troppo complessi per poter essere indicati (guarda, la “democrazia”, andiamo a prenderla! Oh, ecco la “violenza”, scappiamo!)

Così, la riflessione filosofica e linguistica dell’ultimo secolo ha elaborato (abbiamo ancora nominato LUDWIG WITTGENSTEIN [1889-1951]) una TEORIA DELL’USO, per cui il significato di un segno dipende interamente dall’uso che se ne fa entro quella comunità linguistico-culturale. Il significato è quindi costituito dall’insieme degli script, delle potenziali sceneggiature entro cui potrei usare quel segno.

[MINUTO 40:50] questa teoria dell’uso possiede una qualità interessante: ogni segno, dunque, è collegato ad altri segni che lo “definiscono”, che costituiscono il quadro dei suoi script, delle cose che si possono dire con quel segno. Così si comincia a vedere la “rete di significati” di cui parlava MAX WEBER: ogni cultura tesse attorno a noi una rete complicata di segni interrelati in QUEL MODO SPECIFICO, e il lavoro dell’antropologia è proprio la ricostruzione di “altre” reti di segni prodotte fuori dalla rete ordinaria cui l’antropologa sente di appartenere.

In realtà, non ci sono due reti individuali di segni che si sovrappongano perfettamente, ma chiamiamo “culture” quei raggruppamenti che prevedono almeno alcune sovrapposizioni parziali, nel continuo semiotico del sociale. Come dice RALPH DANTO, “la diversità inizia lì dove finisce la mia pelle” e questa tensione costante tra la rete di significato in cui noi siamo individualmente immersi e qualunque altra rete di significato, una volta assunta a oggetto specifico di analisi, costituisce il fondamento della ricerca antropologica. In un certo senso, quando comunichiamo stiamo sempre, misteriosamente, condividendo le nostre reti di significato, ma il lavoro dell’antropologia è la presa in carico ESPLICITA e CONSAPEVOLE di questo lavoro, che altrimenti e comunemente facciamo subconsciamente, vivendo la nostra vita ordinaria.

L’antropologa al lavoro sa invece che la sua rete di segni è molto, molto distante dalla rete di segni delle persone con cui interloquisce, e il suo lavoro consiste proprio nel ricostruirne almeno qualche porzione ragionevole.

[MINUTO 52:57] Come si organizza, dunque, questa rete dentro le specifiche culture? Il passaggio importante è la costruzione di CATEGORIE CULTURALI. Come qualunque altro animale, siamo in grado di accorpare una parte rilevante degli stimoli sensoriali in categorie naturali, (SCATOLE, le chiama ROBERT SAPOLSKY) o TIPI, che ci consentono un ragionevole posizionamento di noi stessi nel mondo. Ma come umani, proprio perché abbiamo iniziato molto tempo fa (prima di diventare umani, in realtà) ad affidarci all’apprendimento e quindi a contare sempre meno sulla trasmissione biologica anche di categorie innate, abbiamo un bisogno disperato di CATEGORIE APPRESE, che ovviamente verranno apprese secondo lo STILE COGNITIVO di ciascuna cultura. Il video del bambino che “non riesce” a categorizzare alcune figurine è piuttosto interessante (oltre che buffo).

Di seguito [MINUTO 1:02:00], abbiamo visto un rapidissimo video in cui si spiega proprio la distinzione tra TIPO e OCCORRENZA (TYPE e TOKEN, in inglese)

[MINUTO 1:06:30] un rapido accenno al lavoro di DOUGLAS HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, un libro del 1979 in cui molti di questi temi su come avvenga la categorizzazione e come gli umani facciano uso del loro dispositivo simbolico e in generale cosa sia il SIGNIFICATO e cosa intendiamo per COMUNICAZIONE. Di seguito, abbiamo accennato anche al libro di GEORGE LAKOFF, e MARK JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, in cui il rapporto tra concezione referenziale e simbolica del linguaggio è indagato con spirito antropologico, partendo dall’importantissima nozione di METAFORA.

Se non avessimo queste categorie, saremmo ridotti come Funes, il personaggio di JORGE LUIS BORGES che non dimenticava nulla e che era costretto a sottrarsi alla vita, per non affastellare nel suo animo ulteriori ricordi di singoli Tokens privi di qualunque Type dove collocarli. Il grande neuroscienziato russo ALEKASDR LURIJA (1902-1977) nel 1968 aveva pubblicato uno studio su un uomo che davvero “non dimenticava nulla”.

[MINUTO 1:13:15] Questi casi patologici, di memorie che non hanno Tipi e che collezionano Occorrenze singole, ci spingono a riflettere sui meccanismi che negli umani, oltre la scarna disposizione biologica, ci consentono di elaborare CATEGORIE, MODELLI e SCHEMI DI AZIONE. Abbiamo già detto gli animali possono basarsi su schemi di “coordinazione motoria ereditaria” o, in inglese “FIXED ACTION PATTERNS”, vale a dire che in moltissimi contesti gli animali “sanno già” come comportarsi. Di fronte all’odore di un felino un topo attiva istintivamente un movimento del corpo all’indietro, e di fronte a una montagna di sterco alcuni scarabei sanno perfettamente come arrotolarne una pallina. Gli umani sono invece molto carenti su questo piano (proprio perché, abbiamo visto, a un certo punto della loro evoluzione animale hanno iniziato ad affidarsi sempre più a schemi esterni, a modelli appresi, vale a dire alla cultura) e quindi hanno la necessità di trovare da qualche parte questi “pacchetti di azione” (che implica anche il giudizio, dato che anche il pensiero è una forma di azione). Questi modelli di azione APPRESI possono essere sintetizzati nella parola RITO. Gli uomini si creano questi pacchetti predisposti, che trasmettono e incorporano. Abbiamo quindi letto un passo da DANIEL A. BELL che racconta come nel testo cinese XUNZI del Terzo secolo P.E.C. il rituale sia descritto come un sistema che consente di superare la nostra condizione animale: “Il principale scopo del rituale è quello di civilizzare la nostra natura animale”.

Abbiamo accennato quindi al concetto di ANTROPOIESI, elaborato da FRANCESCO REMOTTI per indicare proprio quella pratica tipicamente umana di produzione dell’umanità secondo modelli condivisi socialmente.

Se non avessimo questi modelli appresi di azione, saremmo o totalmente imbelli o in balia del mondo e delle sue attrattive, un po’ come Gurdulù Omobono, lo scudiero del Cavaliere inesistente di ITALO CALVINO, che si identificava totalmente con le cose del mondo con cui interagiva, senza avere più alcun confine indentitario.