Lezione numero 09 registrata il 21 ottobre 2024
20241021 Antropologia culturale 2024-25 Mod A Lez 09 “Gli usi della diversità” di Clifford Geertz. Ovvero: fare i conti con l'etnocentrismo
Introduzione alla lezione
Il docente apre la lezione
facendo un rapido riferimento alla chiusura dell'argomento sul nazionalismo
e a un breve accenno al saggio metodologico di Olivier de Sardan, prima
di concentrarsi sul testo principale della giornata: “Gli usi della
diversità” di Clifford Geertz.
Il saggio, pubblicato nel 1983,
affronta il problema dell’etnocentrismo, interrogandosi su eventuali
vantaggi che esso potrebbe offrire. La risposta di Geertz è categorica: l’etnocentrismo
non è utile e va rifiutato. L’argomentazione si sviluppa attraverso un
confronto critico con le posizioni di Claude Lévi-Strauss e del filosofo
Richard Rorty, entrambi accusati di favorire, in modi diversi, una
visione chiusa della cultura.
L’etnocentrismo e la crisi
della diversità
Il punto di partenza del saggio
è il mutamento della percezione della diversità. Geertz nota che la globalizzazione,
l’informatizzazione e la decolonizzazione hanno reso la diversità più
visibile e ineludibile rispetto al passato. Non si può più pensare alla
diversità come a qualcosa di distante e separato dalla nostra realtà.
Il problema principale è che
questo mutato scenario ha portato a una nuova legittimazione dell’etnocentrismo:
invece di comprendere la diversità, molte società tendono a chiudersi in se
stesse, giustificando il rifiuto dell’altro come una forma di difesa culturale.
Geertz esamina due posizioni
che, secondo lui, favoriscono questa chiusura:
1.
Lévi-Strauss propone l’idea che le culture debbano mantenere una loro
impermeabilità per non perdere la propria originalità e creatività.
2.
Rorty sostiene che l’etnocentrismo sia inevitabile e
necessario, perché ogni cultura può giudicare se stessa solo in relazione
agli altri, vedendoli come sfondo per la propria superiorità morale.
Geertz respinge entrambe le
posizioni, ritenendole pericolose e dannose per il progresso della conoscenza.
La posizione di Lévi-Strauss:
l’etnocentrismo come protezione
Nel 1973, Lévi-Strauss
intervenne alle Nazioni Unite, esprimendo preoccupazione per il crescente relativismo
culturale e la tendenza a livellare le differenze tra le culture. Egli
sostiene che mantenere un certo grado di etnocentrismo sia fondamentale
per proteggere la propria identità culturale e impedire una fusione
indiscriminata delle tradizioni.
La sua metafora del treno
è centrale nella discussione:
- Ogni cultura è come un vagone su un treno che
viaggia in una direzione specifica.
- La presenza di un altro treno, che va in direzione
opposta, è fonte di distrazione e potrebbe compromettere la
riflessione autonoma della propria cultura.
- L’etnocentrismo è quindi una sorta di preservativo
culturale (usando la sua espressione), che protegge dalla perdita
della propria identità.
Geertz critica questa posizione
per due motivi:
1.
Le culture non
sono blocchi separati, ma realtà ibride
e interconnesse. L’idea che ogni cultura esista in un vagone separato è illusoria
e fuorviante.
2.
La cultura non
è mai unitaria e compatta, come invece
presuppone Lévi-Strauss. Ogni cultura è attraversata da differenze interne e
conflitti, e non può essere ridotta a un monolite.
La posizione di Richard Rorty:
l’etnocentrismo come conforto morale
Rorty, nel suo pragmatismo
filosofico, propone una visione relativista e consolatoria della
filosofia. Egli afferma che la filosofia non può fornire principi oggettivi
universali, ma può solo rafforzare il senso di appartenenza a una comunità.
Secondo Rorty, l’etnocentrismo
non solo è inevitabile, ma è anche utile:
- Ogni gruppo umano tende a rafforzare la propria
identità contrastandosi con gli altri.
- Le culture altrui diventano solo sfondi su cui
stagliare la propria superiorità.
- Il confronto con gli altri non serve a comprenderli,
ma solo a rafforzare il senso di dignità della propria comunità.
Geertz rifiuta categoricamente
questa prospettiva, accusandola di ridurre la filosofia a una forma di
razzismo culturale, in cui gli altri esistono solo come metro di paragone
per la nostra autocompiacenza.
Il caso dell’indiano ubriacone:
un esperimento mentale
Per dimostrare l’inutilità
dell’etnocentrismo, Geertz racconta una storia reale che gli è stata riferita
da un collega.
In un centro dialisi nel
sud-ovest degli Stati Uniti, alcuni medici filantropi avevano il compito
di selezionare i pazienti che avrebbero potuto ricevere la terapia, a causa
della scarsità di macchine per la dialisi. Tra i selezionati c’era un anziano
nativo americano alcolizzato, il quale utilizzava la dialisi non per
curarsi, ma per potersi ubriacare di più senza rischiare la morte
immediata.
Questa scoperta lasciò i medici
sbigottiti e frustrati. Dal loro punto di vista, la loro scelta era stata sprecata:
avevano dato la macchina a una persona che non voleva salvarsi, mentre altri
pazienti più “meritevoli” erano rimasti esclusi.
Geertz usa questa storia per
dimostrare che l’etnocentrismo non aiuta a risolvere problemi concreti.
Né un atteggiamento di chiusura come quello di Lévi-Strauss, né un
atteggiamento di superiorità come quello di Rorty avrebbero cambiato la
situazione.
Ciò che è mancato, invece, è
stato uno sforzo immaginativo per comprendere la prospettiva del nativo
americano:
- Perché la sua vita lo ha portato a questa
condizione?
- Quali esperienze hanno plasmato il suo modo di
vedere il mondo?
- In che modo la società ha contribuito alla sua
disperazione?
Queste sono le domande che un
vero antropologo deve porsi.
L’alternativa di Geertz:
immaginare senza assorbire
Geertz propone una soluzione radicale
e impegnativa:
Dobbiamo imparare a comprendere
quello che non possiamo accettare.
Non si tratta di celebrare la
diversità in modo superficiale o ingenuo, ma di:
- Rifiutare la segregazione culturale (noi contro loro).
- Non minimizzare la diversità con frasi vuote come “Siamo tutti umani”.
- Non esotizzare l’altro come se fosse solo un elemento decorativo della
nostra esperienza.
Il vero obiettivo della scienza
sociale è comprendere l’alterità senza annullarla e senza pretendere di
ridurla ai propri schemi mentali.
Conclusioni: il valore della
diversità
La lezione si chiude con una
riflessione su quanto l’etnocentrismo sia un ostacolo alla conoscenza.
- Esso riduce la nostra capacità di immaginare
le vite degli altri.
- Soffoca la curiosità e l’apertura mentale.
- Ci impedisce di vedere le differenze che esistono
anche all’interno della nostra stessa società.
In un mondo sempre più
connesso, imparare a comprendere senza omologare è una sfida essenziale.
L’antropologia non serve a giudicare il mondo, ma a capirlo,
anche quando ciò che scopriamo ci risulta scomodo o incomprensibile.