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martedì 11 marzo 2025

“Gli usi della diversità” di Clifford Geertz. Ovvero: fare i conti con l'etnocentrismo. Lezione #09 di Antropologia culturale PIETRO VERENI per Tor Vergata

 

                        Lezione numero 09 registrata il 21 ottobre 2024

20241021 Antropologia culturale 2024-25 Mod A Lez 09 “Gli usi della diversità” di Clifford Geertz. Ovvero: fare i conti con l'etnocentrismo

Introduzione alla lezione

Il docente apre la lezione facendo un rapido riferimento alla chiusura dell'argomento sul nazionalismo e a un breve accenno al saggio metodologico di Olivier de Sardan, prima di concentrarsi sul testo principale della giornata: “Gli usi della diversità” di Clifford Geertz.

Il saggio, pubblicato nel 1983, affronta il problema dell’etnocentrismo, interrogandosi su eventuali vantaggi che esso potrebbe offrire. La risposta di Geertz è categorica: l’etnocentrismo non è utile e va rifiutato. L’argomentazione si sviluppa attraverso un confronto critico con le posizioni di Claude Lévi-Strauss e del filosofo Richard Rorty, entrambi accusati di favorire, in modi diversi, una visione chiusa della cultura.


L’etnocentrismo e la crisi della diversità

Il punto di partenza del saggio è il mutamento della percezione della diversità. Geertz nota che la globalizzazione, l’informatizzazione e la decolonizzazione hanno reso la diversità più visibile e ineludibile rispetto al passato. Non si può più pensare alla diversità come a qualcosa di distante e separato dalla nostra realtà.

Il problema principale è che questo mutato scenario ha portato a una nuova legittimazione dell’etnocentrismo: invece di comprendere la diversità, molte società tendono a chiudersi in se stesse, giustificando il rifiuto dell’altro come una forma di difesa culturale.

Geertz esamina due posizioni che, secondo lui, favoriscono questa chiusura:

1. Lévi-Strauss propone l’idea che le culture debbano mantenere una loro impermeabilità per non perdere la propria originalità e creatività.

2. Rorty sostiene che l’etnocentrismo sia inevitabile e necessario, perché ogni cultura può giudicare se stessa solo in relazione agli altri, vedendoli come sfondo per la propria superiorità morale.

Geertz respinge entrambe le posizioni, ritenendole pericolose e dannose per il progresso della conoscenza.


La posizione di Lévi-Strauss: l’etnocentrismo come protezione

Nel 1973, Lévi-Strauss intervenne alle Nazioni Unite, esprimendo preoccupazione per il crescente relativismo culturale e la tendenza a livellare le differenze tra le culture. Egli sostiene che mantenere un certo grado di etnocentrismo sia fondamentale per proteggere la propria identità culturale e impedire una fusione indiscriminata delle tradizioni.

La sua metafora del treno è centrale nella discussione:

  • Ogni cultura è come un vagone su un treno che viaggia in una direzione specifica.
  • La presenza di un altro treno, che va in direzione opposta, è fonte di distrazione e potrebbe compromettere la riflessione autonoma della propria cultura.
  • L’etnocentrismo è quindi una sorta di preservativo culturale (usando la sua espressione), che protegge dalla perdita della propria identità.

Geertz critica questa posizione per due motivi:

1. Le culture non sono blocchi separati, ma realtà ibride e interconnesse. L’idea che ogni cultura esista in un vagone separato è illusoria e fuorviante.

2. La cultura non è mai unitaria e compatta, come invece presuppone Lévi-Strauss. Ogni cultura è attraversata da differenze interne e conflitti, e non può essere ridotta a un monolite.


La posizione di Richard Rorty: l’etnocentrismo come conforto morale

Rorty, nel suo pragmatismo filosofico, propone una visione relativista e consolatoria della filosofia. Egli afferma che la filosofia non può fornire principi oggettivi universali, ma può solo rafforzare il senso di appartenenza a una comunità.

Secondo Rorty, l’etnocentrismo non solo è inevitabile, ma è anche utile:

  • Ogni gruppo umano tende a rafforzare la propria identità contrastandosi con gli altri.
  • Le culture altrui diventano solo sfondi su cui stagliare la propria superiorità.
  • Il confronto con gli altri non serve a comprenderli, ma solo a rafforzare il senso di dignità della propria comunità.

Geertz rifiuta categoricamente questa prospettiva, accusandola di ridurre la filosofia a una forma di razzismo culturale, in cui gli altri esistono solo come metro di paragone per la nostra autocompiacenza.


Il caso dell’indiano ubriacone: un esperimento mentale

Per dimostrare l’inutilità dell’etnocentrismo, Geertz racconta una storia reale che gli è stata riferita da un collega.

In un centro dialisi nel sud-ovest degli Stati Uniti, alcuni medici filantropi avevano il compito di selezionare i pazienti che avrebbero potuto ricevere la terapia, a causa della scarsità di macchine per la dialisi. Tra i selezionati c’era un anziano nativo americano alcolizzato, il quale utilizzava la dialisi non per curarsi, ma per potersi ubriacare di più senza rischiare la morte immediata.

Questa scoperta lasciò i medici sbigottiti e frustrati. Dal loro punto di vista, la loro scelta era stata sprecata: avevano dato la macchina a una persona che non voleva salvarsi, mentre altri pazienti più “meritevoli” erano rimasti esclusi.

Geertz usa questa storia per dimostrare che l’etnocentrismo non aiuta a risolvere problemi concreti. Né un atteggiamento di chiusura come quello di Lévi-Strauss, né un atteggiamento di superiorità come quello di Rorty avrebbero cambiato la situazione.

Ciò che è mancato, invece, è stato uno sforzo immaginativo per comprendere la prospettiva del nativo americano:

  • Perché la sua vita lo ha portato a questa condizione?
  • Quali esperienze hanno plasmato il suo modo di vedere il mondo?
  • In che modo la società ha contribuito alla sua disperazione?

Queste sono le domande che un vero antropologo deve porsi.


L’alternativa di Geertz: immaginare senza assorbire

Geertz propone una soluzione radicale e impegnativa:

Dobbiamo imparare a comprendere quello che non possiamo accettare.

Non si tratta di celebrare la diversità in modo superficiale o ingenuo, ma di:

  • Rifiutare la segregazione culturale (noi contro loro).
  • Non minimizzare la diversità con frasi vuote come “Siamo tutti umani”.
  • Non esotizzare l’altro come se fosse solo un elemento decorativo della nostra esperienza.

Il vero obiettivo della scienza sociale è comprendere l’alterità senza annullarla e senza pretendere di ridurla ai propri schemi mentali.


Conclusioni: il valore della diversità

La lezione si chiude con una riflessione su quanto l’etnocentrismo sia un ostacolo alla conoscenza.

  • Esso riduce la nostra capacità di immaginare le vite degli altri.
  • Soffoca la curiosità e l’apertura mentale.
  • Ci impedisce di vedere le differenze che esistono anche all’interno della nostra stessa società.

In un mondo sempre più connesso, imparare a comprendere senza omologare è una sfida essenziale. L’antropologia non serve a giudicare il mondo, ma a capirlo, anche quando ciò che scopriamo ci risulta scomodo o incomprensibile.