Quando l’anima esce dal corpo e la scienza prende appunti: un breve viaggio tra magia, religione e realtà

 

Antropologia culturale Modulo B Lezione 2 registrata l'11 dicembre 2025

Nella seconda lezione provo a convincere gli studenti che magia, religione e scienza non sono tre sorelle in fila ordinata che aspettano il loro turno sul palcoscenico della storia umana. Non c’è la magia bambina, la religione adolescente e la scienza adulta. È una fantasia ottocentesca che sta invecchiando male, un po’ come noi professori quando ci ostiniamo a usare i gessetti anche se le aule hanno la lavagna digitale.

La verità è che questi tre modi di affrontare il mondo convivono senza litigare troppo. Anzi, fanno esattamente la stessa cosa: cercano una via d’uscita dal senso comune quando il senso comune non basta più. La magia tenta di mettere mano ai fili nascosti del potere sovraumano, e se non funziona è solo perché siamo goffi apprendisti stregoni che si ostinano a pensare che un’associazione simbolica ben piazzata possa risolvere la siccità. La religione invece dice: lasciamo perdere il telecomando dell’universo, proviamo a parlare direttamente con la regia. La scienza arriva tardi, guarda tutto e dice: carini, ma la causa era un’altra.

Il problema è che noi esseri umani siamo naturalmente semiotici. Abbiamo questo brutto vizio di voler capire perché succedono le cose e di voler piazzare un sommum bonum da qualche parte della mappa interiore. Che sia l’amore, la giustizia o il prossimo governo tecnico, ci serve un livello ulteriore che dia senso al resto. È la nostra condizione strutturale, e il momento in cui ce ne siamo accorti per davvero è quello che Karl Jaspers ha chiamato età assiale, una lunga rivoluzione spirituale in cui abbiamo gentilmente sfrattato gli spiriti dal salotto per rimandarli in un altrove più raffinato. Da qui la nascita del celebre disincantamento del mondo e il senso di solitudine che da allora ci portiamo dietro come una borsa della spesa.

Per capire da dove salta fuori tutto questo, basta guardare due esperienze che nessuna società ha potuto ignorare: la morte e il sogno. La morte convince chiunque che ci sia un prima e un dopo, o almeno un sopra e un sotto. Il sogno invece è l’esperienza più clamorosa di sdoppiamento del sé: tu dormi, ma tu voli. Tu ronfi, ma tu parli con i bisnonni. È un bel problema concettuale, e infatti tutte le culture hanno risolto dicendo: bene, c’è un pezzo di noi che può staccarsi. Chiamiamolo anima e non pensiamoci più.

Poi arriva Durkheim, che prende tutto questo materiale incandescente e lo riporta a casa: il sacro, dice, è solo il modo con cui la società prende coscienza di sé stessa. E noi siamo animali duplici, homo duplex, sospesi tra la vita individuale e quella collettiva. Quando ci trascendiamo nella comunità, spuntano i brividi, i canti, i cori da stadio e tutto quello che Weber chiamerebbe il nascere del sacro. Non è solo emozione, è architettura sociale.

Ma l’antropologia contemporanea non si ferma qui. Ci pensa Jonathan Haidt, insieme ai biologi poco impressionabili, a ricordarci che la religione non è un errore di sistema. È un adattamento. La coesione del gruppo vince sui singoli free riders, e noi siamo diventati bravissimi a costruire comunità che funzionano come un superorganismo. Non per bontà, ma per sopravvivenza.

E infine arriva Robin Horton, l’antropologo che guarda la religione e pensa: perché mai dovremmo trattarla da sciocchezza? È un sistema teorico. Fa quello che fa la scienza, solo con metafore diverse: noi abbiamo elettroni e campi quantici, loro hanno antenati e spiriti della pioggia. E mentre la scienza occidentale è aperta alle variabili esterne, i sistemi religiosi tradizionali lavorano su un terreno più chiuso, più coerente per certi versi, meno aggiornabile per altri.

Alla fine, la differenza non è tra chi ha ragione e chi ha torto, ma tra modi diversi di cercare ordine. E quando uno studente alla fine della lezione mi chiede: professore, ma lei crede più alla magia o alla scienza, io rispondo che dipende. Se devo capire perché piove, mi affido ai meteorologi. Se devo affrontare un concorso universitario, un gesto apotropaico non lo nego mai.