Antropologia culturale Modulo B Lezione 3 registrata il 12 novembre 2025
Ci sono lezioni che sembrano fatte apposta
per ricordarmi perché insegno Antropologia delle religioni, e la B03 è
una di queste. Perché mette in fila Fabietti, Brelich, Geertz
e Whitehouse come se fossero parenti stretti, e invece si conoscono solo
idealmente, legati da quella domanda radicale che l’essere umano rivolge al
mondo da quando ha imparato a parlare: perché le cose stanno così, e non
altrimenti?
La religione, lo dico sempre agli
studenti, non è un errore di calcolo. Non è un bias cognitivo, non è una
superstizione pre-scientifica destinata a sparire come i Nokia con l’antenna. È
un dispositivo di tenuta del mondo, un modo raffinato per evitare il
collasso del senso. Perché se togli il senso, quello che resta non è la
razionalità cartesiana, ma il caos. E il caos, in antropologia, non è
mai una buona notizia.
Fabietti
ci aiuta a vedere questa esigenza come tratto costitutivo della nostra specie. Brelich,
più severo, ci ricorda che tutte le culture costruiscono argini simbolici
contro la paura dell’inconsistenza: miti, riti, antenati. È l’umanità che
tenta, da millenni, di non perdere la bussola mentre attraversa la vita con
strumenti cognitivi sproporzionati alla vastità dell’universo.
Poi arriva Robin Horton, con una
distinzione didatticamente perfetta: sistemi chiusi e sistemi aperti.
I sistemi religiosi tradizionali chiudono, proteggono, normalizzano l’errore
con spiegazioni interne. La scienza apre, rischia, sbaglia, verifica,
cambia rotta. Non è “più evoluta”, è un altro modo di gestire l’incertezza.
Il dibattito sulla great divide è tutto qui.
E appena ti stabilizzi, ecco che Ernesto
De Martino ribalta il tavolo. Non basta spiegare la religione: bisogna
capire come mai gli umani rischiano sempre di perdersi. La sua crisi
della presenza non è una metafora lirica, è un fenomeno antropologico duro:
quando il mondo non ti riconosce più, la persona rischia lo sprofondamento. La magia
nasce come tecnica culturale per impedire questo crollo, come nel tarantismo
o nel lamento funebre, che ricuciono la continuità spezzata.
Quando entriamo nel mito, la
lezione cambia di registro. Malinowski ci dice che il mito serve a legittimare
l’ordine sociale. Lévi-Strauss, invece, che serve a pensare il
mondo tramite strutture di opposizioni. Due letture distantissime e
tuttavia complementari: il mito è insieme funzione sociale e macchina
logica.
Poi il mio preferito: il trickster.
Figura liminale, scombinata, amorale. Prometeo, Hermès, Coyote:
creature che rompono l’ordine per generarne un altro. Senza il caos, non ci
sarebbe alcuna forma di stabilità. È una verità scomodissima, e proprio per
questo didatticamente preziosa.
E infine il caso Bororo e il
celeberrimo “Noi siamo Arara”. Per Lévy-Bruhl era la prova di un
pensiero pre-logico. In realtà è l’espressione cristallina di una cosmologia
relazionale: identità, natura e società non sono entità separate.
La conclusione della lezione è semplice
solo in apparenza: la religione non è un residuo irrazionale. È una variante
umanissima della ragione, un modo di tessere connessioni dove la scienza
tesse spiegazioni. Due processi diversi, ma mossi dallo stesso bisogno: tenere
il mondo insieme prima che si sfaldi.
