05 ottobre 2017.
Siamo ripartiti un po’ più indietro rispetto a dove avevamo concluso la lezione
precedente, e ci siamo di nuovo concentrati sulla differenza tra sapere innato e sapere appreso. A parte il modo di ACQUISIZIONE (per via biologica o genetica il sapere innnato, per comunicazione il sapere appreso) è
fondamentale comprendere che il sapere acquisito è proprio di un tipo
differente, dato che le modalità della sua TRASMISSIONE
lo rendono assolutamente peculiare. Abbiamo finto per qualche minuto che la
nostra classe fosse un alveare, e ci
siamo chiesti come avremmo potuto sopravvivere di fronte a una crisi ecologica
che avesse fatto sparire i fiori, fonte primaria del nostro sostentamento.
Abbiamo dovuto ammettere che sarebbero necessarie almeno DUE CONDIZIONI per ipotizzare una sopravvivenza del nostro alveare
di fronte a una tale crisi ecologica.
Q1. QUALI CONDIZIONI sono
necessarie perché l’alveare (un gruppo naturale) possa sopravvivere?
Abbiamo poi proposto lo stesso esperimento fittizio con un
caso diverso, fingendo cioè che la nostra classe fosse una banda di cacciatori e raccoglitori primitivi. Data una crisi
ecologica, a quali condizioni il nostro gruppo potrebbe sopravvivere di fronte alla
sparizione improvvisa della principale fonte di sostentamento (i conigli,
abbiamo detto)?
Q2. QUALI CONDIZIONI sono
necessarie perché un gruppo culturale sopravviva?
Insomma, il sapere innato
è accolto in forma passiva dai
riceventi, e passa sempre per il corpo dei donatari, mentre il sapere appreso pretende una attivazione
dinamica del ricevente (che IMPARA,
non si limita a ricevere una quota di informazione, come l’ape che acquisisce
il suo dna) e non ha bisogno di
alcun canale biologico. Questo rende il sapere appreso estremamente più FLESSIBILE (rispetto al contesto in cui
si espleta) del sapere biologico/innato: se c’è una crisi ecologica il sapere
innato deve sperare in una mutazione
biologica di più individui, in grado di elaborare nuovi strumenti di
sfruttamento dell’ambiente (mutato) e in grado di trasmettere quegli strumenti
alle nuove generazioni. Invece il sapere appreso può reagire a una crisi ambientale con una AZIONE INTENZIONALE di cambiamento di pratiche, e non ha assolutamente
bisogno di attendere una mutazione biologica dei soggetti per trasmettere
questo mutamento alle nuove generazioni. In pratica, il sapere appreso SI LIBERA DELLA SELEZIONE NATURALE e
attiva meccanismi di selezione culturale, che superano del tutto l’idea di ADATTAMENTO AMBIENTALE dato che sono i
soggetti portatori del mutamento culturale a CREARE il proprio AMBIENTE
NATURALE (una volta che iniziano a considerare il pesce nel fiume una fonte
di energia; oppure il petrolio sotto terra…).
Ma questa flessibilità si associa per forza a una intrinseca FRAGILITÀ del sapere
trasmesso per via culturale. Una volta stabilizzato, una volta cioè superata la
fase critica di adattamento
ambientale, il sapere innato può proseguire per inerzia, per iterazione
e in forma standardizzata. Una volta
che la “nuova” ape regina ha acquisito il saper fare nuovi insetti adatti a
quel nuovo ambiente, tutto rientra nei ranghi, non c’è bisogno di sistemi di
allarme costanti, e fino alla prossima crisi il sistema tende a riprodursi senza sforzo se non quello biologico di
acquisire energia sufficiente. Un sistema culturale invece ha l’enorme problema
che ogni generazione riparte da zero,
che non basta aver elaborato un sistema culturalmente perfetto per aver risolto
i problemi di sopravvivenza del gruppo, dato che ogni generazione deve IMPARE il sistema se vuole sperare di
sopravvivere (esempio delle bici in Olanda presentato nella lezione 1, di cui
qui trovate un video esplicativo, che è importante anche perché ci spiega che
se vogliamo comprendere un fenomeno culturale dobbiamo includerne LA STORIA, visto che il sapere appreso
implica il flusso del mutamento storico).
Chiarito, speriamo, questo punto essenziale, ci siamo
soffermati a questo punto sulle conseguenze generali del fatto che la nostra
specie animale (homo sapiens sapiens) attribuisce al sapere appreso un ruolo PREPONDERANTE nella sua interazione con
l’ambiente.
Una NOTA TRA
PARENTESI. Il sapere appreso NON è
una CARATTERISTICA ESCLUSIVA degli
esseri umani. Molta parte del vivente è in grado di apprendere, e anzi possiamo dire che costruiamo mentalmente scale evolutive proprio in base alla
quota disponibile o potenziale di sapere appreso, e consideriamo più “evoluti”
o intelligenti gli animali che hanno più spazio per il sapere appreso. Se la
cultura è dunque sapere appreso, possiamo tranquillamente dire che esistono CULTURE ANIMALI, forme apprese di
sapere. Si sa, ad esempio, che i canarini
imparano le loro melodie anche secondo “dialetti” locali, e un canarino
sottratto alla nascita dalla sua regione e immesso in un nido in una regione
diversa imparerà a cantare secondo lo stile locale, non quello della sua
regione di nascita, segno evidente che c’è una quota interessante di sapere
appreso anche in quel che inevitabilmente appare come un sapere innato come l’arte
del gorgheggio tra i canarini. Quindi, non è in discussione il fatto se la
cultura (sapere appreso) sia una prerogativa umana oppure se esistano forme di
cultura animale. Esistono, eccome se esistono, ma quel che conta sul serio è
altro. Se prendete un bel cagnolino addestrato (che sappia fare la capriola a
comando, che vi porti il giornale a letto la mattina, che faccia “il morto”
eccetera…) avrete di fronte a voi un animale che sa fare un sacco di cose, e
potete sommare tutte le cose che sa fare distinguendo quelle che sa per natura
(abbaiare, scodinzolare, alzare la gamba quando fa pipì se è maschio) e quelle
che invece ha imparato dopo un programma di addestramento (come, appunto,
mettersi a cuccia quando richiesto). Ora, se togliete il sapere appreso dal sapere complessivo di quel cagnetto,
vi resterà di sicuro un cane, magari
meno carino da sfoggiare con gli amici, ma pur sempre un cane fatto e finito,
che abbaierà, ringhierà di fronte al pericolo, e cercherà di scavare una buca
se gli date un osso.
Se invece fate la
stessa cosa con qualunque essere umano, se cioè gli togliete via il sapere
appreso, quel che vi resterà non sarà un “uomo
naturale” o poco addestrato. Vi resterà invece una specie di mostro, che non saprà parlare alcuna lingua e dunque non saprà articolare
sequenze di pensiero complesso o inferenziale. Che non saprà neppure camminare su due zampe visto che non
avrà avuto il contesto sociale di attivazione di questa disposizione naturale.
Che non sarà in grado di distinguere
quando è addolorato e quando è arrabbiato, quando ha la febbre e quando invece
è malinconico, che non avrà idea di come ci si nutre (visto che siamo onnivori
ma non nel senso che mangiamo ogni cosa, ma piuttosto nel senso che impariamo a
considerare commestibili cose che in altri posti sono considerate del tutto
immangiabili). La cultura, per chiudere questa digressione, è quel di più di cui l’uomo non può fare a meno se vuole veramente
essere umano. Mentre praticamente a qualunque altro animale potete togliere via
tutto il sapere appreso e vi resterà comunque l’animale al suo stato “naturale”,
per l’uomo questa operazione di “naturalizzazione” non è possibile, come
togliere il guscio a una tartaruga e sperare che resti viva…
L’uomo è dunque quello strano animale che ha come caratteristica peculiare quella di non
avere doti naturali, modelli di azione, sistemi di preferenza comportamentale,
ma è piuttosto caratterizzato dalla sua DISPONIBILITÀ
ALL’APPRENDIMENTO. L’essere umano può imparare praticamente a fare tutto quel
che gli consente la sua forma biologica, può decidere di vivere in cima a un
palo come uno stilita, oppure sugli alberi come il Barone rampante di Calvino,
può farsi crescere i capelli tutta la vita o tagliarli sistematicamente a zero,
può parlare lingue tonali o decidere di celebrare riti di iniziazione nella
foresta. Non c’è nulla di naturale o
di innaturale in tutto questo,
perché tutto è, piuttosto culturale,
cioè sapere appreso, cioè naturale disposizione degli uomini ad apprendere.
Rapidamente, abbiamo detto che questa disposizione naturale
all’apprendimento dipende da una curiosa interazione tra la nostra condizione
biologica pre-umana e la disposizione pre-esistente all’apprendimento,
al fatto insomma che la cultura esisteva
già prima che esistessero gli umani come noi. Gli ominidi (come l’homo abilis)
sapevano già costruire strumenti e
meta-strumenti (strumenti per fare strumenti) e questa organizzazione sociale
in cui la cultura aveva già un ruolo
importante ha prodotto degli effetti straordinari e ha di fatto “fabbricato” l’homo
sapiens. Per ragioni evolutive abbiamo iniziato al alzarci in piedi in mezzo alla savana (chi lo sapeva fare vedeva prima i
predatori e scappava, portando in salvo il proprio patrimonio genetico).
Liberando le zampe anteriori poteva
iniziare a utilizzarle per manipolare
l’ambiente (tipo scheggiare pietre per farci strumenti come raschiatoi o lame).
La postura eretta ha complicato la vita alle femmine, costrette ora a partorire
con grande sforzo (se ti vuoi alzare in piedi devi stringere le ossa del bacino
rispetto a qualunque quadrupede) e un trucco evolutivo è stato spingerle a partorire
cuccioli prematuri, con tanto di
scatola cranica elastica (fontanella) e sistema nervoso centrale (cervello)
immaturo e in formazione, con buona parte delle sinapsi (collegamenti tra
neuroni, base fisica del nostro pensiero) ancora da costituire e attivate dalla
stimolazione ambientale. Siamo dunque nati al mondo con una struttura neuronale
instabile e in formazione, che richiede molti anni per “concludersi” e che anzi
tende a modificarsi per tutto il corso della vita, come se fossimo sempre dei
cuccioli (una caratteristica detta NEOTENIA).
Risultato: la cultura ha addirittura plasmato
il nostro cervello nella forma generale che ha oggi, vale a dire in due emisferi asimmetrici, utili per
controllare in modo diverso le due
mani (destra più abile, sinistra più
stabile, come il martello e la morsa
per un fabbro: le mani erano lo strumento principale degli ominidi costruttori
di strumenti, e quindi specializzare le due mani voleva dire aumentare notevolmente
la possibilità di costruire tecnologia efficace). Essendo in grado di costruire
strumenti, i nostri antenati pre-umani avevano già la cultura, e questa capacità di costruire strumenti ha selezionato quegli individui che
avevano funzioni specializzate per i due emisferi! Il nostro cervello è un
prodotto della cultura, non viceversa!
Ho raccontato l’esempio dei tassisti londinesi, preso da Demenza
digitale di Manfred Spitzer.
Q3. QUAL È IL SENSO DI QUESTO
ESEMPIO?
Basta, non ho il tempo materiale per ulteriori sintesi.
Chiudo con un ulteriore paio di nomi, già accennati in classe. Il primo è
quello di Stephen Jay
Gould, il paleontologo americano
che ha influenzato molto questa mia visione della cultura come mezzo per
sfuggire ai meccanismi deterministici
dell’evoluzione biologica. Lui ce l’aveva in particolare con la sociobiologia, una disciplina
pseudo-scientifica che cerca di spiegare il comportamento umano fondandolo sulla
base genetica. Se avete letto La scimmia
nuda di Desmond Morris avete
presente di che si tratta. È un linguaggio descrittivo oggi tornato
prepotentemente di moda, sulla scia dell’ossessione genetista che pretende di
individuare “Il gene di X”, qualunque cosa sia X (il crimine, l’alcolismo, il
tradimento).
Ricordo poi Il bel libro di Yuval Noah Harari, Da
animali a dei. Breve storia dell’umanità, dove si spiega con cenni rapidi
ma molto godibili come la “rivoluzione
cognitiva” di circa 70mila anni fa abbia completamente mutato la forma dell’ambiente
naturale in cui viviamo, riempito da allora dei frutti della nostra
immaginazione condivisa (dei, leggi, sistemi politici, economie, prodotti
artistici, tutte cose maledettamente umane, indispensabilmente umane eppure
così “irreali”).
Ci sarà modo nelle lezioni successive di parlare invece di Clifford Geertz, che mi ha insegnato
nel suo saggio L’impatto del concetto di
cultura sul concetto di uomo che la natura umana semplicemente non esiste e
che dovremmo seriamente lavorare sulla differenza culturale, se vogliamo
comprenderla e non considerarla una specie di sovrappiù curioso che ricopre la
nostra “vera” natura.