19 10 2017. Abbiamo
“completato” la lettura di Verso una
teoria interpretativa della cultura enfatizzando soprattutto come il lavoro
interpretativo non sia mai concluso, potendo proseguire di fatto all’infinito.
Un altro punto su cui abbiamo cercato di riflettere è il
cosiddetto TESTUALISMO di Geertz,
vale a dire la riduzione che il suo approccio effettuerebbe di tutta la cultura
a testo. Abbiamo detto (e me ne assumo la responsabilità, dato che alcuni
colleghi sicuramente non concordano con me) che in realtà l’accusa di
testualismo è fuorviante per Geertz, visto che lui non sta affatto dicendo che
tutta la cultura dovrebbe essere considerata come un testo, ma dice una cosa ben diversa, vale a dire che lo sguardo di chi analizza la cultura
dovrebbe essere quello di un analista culturale, vale a dire non di uno che
cerca cause o funzioni, ma cerca invece senso
e significati. Il primo esempio che
viene in mente (non solo a Geertz) è quello del critico letterario, che certo
quando studia La Divina Commedia non è tanto preoccupato delle cause della scrittura di Dante, ma
piuttosto del senso di quel testo.
Per capire come l’approccio dell’antropologia simbolica non sia affatto
testualista, ma sinceramente interpretativo/ermeneutico,
basta cambiare metafora, e dire che il lavoro dell’antropologo è simile a
quello di un critico d’arte che voglia parlare di una mostra alla radio, vale a
dire in uno spazio che nega il mezzo di espressione originario del pezzo
studiato: non potrà mai dire “qui vedete…”, “ecco che con questo elemento l’artista ci vuole dire
che…” ma dovrà invece TRADURRE lo
specifico contenuto significativo dell’opera d’arte in un altro linguaggio
diverso da quello in cui è stato originariamente espresso. Questo è il lavoro
dell’antropologia, prende segni culturali espressi in qualunque mezzo di
comunicazione (la lingua, il vestiario, il cibo, la prossemica, il rituale, la
performance) e lo traduce in qualcosa che non c’era prima (la nota di campo, l’articolo
scientifico, la monografia, la relazione per il convegno) cercando di mantenere il senso che vi ha colto
studiandolo, quel cavolo di oggetto culturale.
Abbiamo inoltre riflettuto con qualche esempio su come
leggere in traduzione sia un’operazione sempre rischiosa, e abbiamo messo
empiricamente in luce la cosa segnalando un paio di grossolani errori di traduzione nel testo che
stiamo leggendo.
Siamo poi rapidamente passati all’altro saggio di Geertz,
vale a dire Gli usi della diversità
(1986), in cui dialoga polemicamente con Claude
Lévi-Strauss e con Richard Rorty sulla (allora) recente legittimazione dell’etnocentrismo.
Abbiamo spiegato le rispettive posizioni di Lévi-Strauss e di Rorty e compreso
che, se prese sul serio, portano l’antropologia culturale all’asfissia come
progetto di ricerca.
La storia dell’indiano ubriacone è servita a Geertz per
farci capire che quel che ci manca non è un po’ di etnocentrismo per restare
creativi (come vorrebbe Lévi-Strauss) o per sentirci migliori (come vorrebbe
Rorty); e neppure un po’ più di RELATIVISMO (come magari vorrebbero alcuni
sostenitori smodati o cinici del l’equivalenza di tutto con tutto); ma è semmai
uno sforzo di IMMAGINAZIONE, vale a
dire quell’impegno a capire le cose veramente da un altro punto di vista, quello
dell’Altro. Il fallimento della relazione tra indiano e medici testimonia la
difficoltà di uscire dall’acqua, come diciamo noi in queste lezioni, oppure,
come dice Geertz, “l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione
dell’altro, e quindi la propria” (p.
84).
La chiusura del saggio, con le sue importanti implicazioni
teoriche, verrò discusso nella lezione successiva, del 20 ottobre.
Q1 riportate un caso di
vostra conoscenza o di vostra invenzione in cui un fallimento comunicativo avrebbe potuto essere colmato se gli
interlocutori avessero fatto uso dell’immaginazione
nel senso in cui ne parla Geertz.