13 10 2017. Con questa
lezione, finalmente, abbiamo iniziato a confrontarci con un vero testo di
antropologia culturale, non solo con gli appunti contenuti
nella dispensa e con obliqui riferimenti ad autori e testi. Cominciamo quindi
a leggere antropologia partendo da un testo quasi-sacro, un
articolo del 1973 che ha segnato una presa di consapevolezza importante nella
storia della disciplina. Si tratta di “Verso una teoria interpretativa di
cultura”, scritto da Clifford Geertz come introduzione
alla raccolta di saggi Interpretazione di culture, in cui
ripubblicava in una nuova cornice teorica alcuni importanti saggi che aveva
scritto negli anni Sessanta. Si tratta, insomma, di roba sicuramente datata,
una riflessione dei primi anni Settanta (44 anni fa!) dedicata a commentare e
inquadrare un lavoro di ricerca che ha più di cinquant’anni.
Ci sono state diverse
svolte teoriche dopo le riflessioni elaborate da Clifford Geertz, ma io sono
del parere che ben poco di nuovo si possa aggiungere dal punto di vista
epistemologico al quadro dell’antropologia interpretativa. Geertz ha avuto dei
limiti chiari sul piano dei contenuti (e forse questo ha implicazioni
metodologiche) disinteressandosi ad esempio troppo della QUESTIONE DI GENERE (del modo cioè in cui maschi e femmine si
costruiscano dentro orizzonti culturali specifici e si configurino come la
differenza INTERNA più radicale) ma la sua EPISTEMOLOGIA basata
su una concezione semiotica della realtà culturale e la
sua METODOLOGIA basata sull’ermeneutica non hanno
trovato ancora alternative. Anche chi contesta Geertz, lo critica o oggi pensa
di essere “oltre” Geertz non può prescindere dalla CONCEZIONE INTERPRETATIVA di
cultura, né sfuggire alla necessità di COMPRENDERE i dati
etnografici attraverso un’analisi ermeneutica. Ci sarà modo, spero, di
discutere il TESTUALISMO di Geertz, ma lo faremo più avanti,
quando sarà più chiaro il suo progetto scientifico.
Per ora diciamo che nel
corso della lezione siamo partiti dalla distinzione tra FUNZIONE e SENSO.
I costrutti umani (una forbice, un mito, una centrale
nucleare, un romanzo) possono essere dotati di una funzione, vale a
dire la loro finalità intrinseca può essere X, attivata da una causa Y;
oppure possono essere dotati di un senso, vale a dire un quadro di
significazione per gli umani che ne fanno uso. Non sempre le due cose si
sovrappongono o coesistono, e sono molti i costrutti culturali di cui è
complicato individuare il senso ma praticamente impossibile identificare una
funzione. Possiamo comprendere bene a cosa serve una tenaglia o un pacchetto di
fazzoletti, ma non è chiaro spesso il rapporto tra FORMA e FUNZIONE dato
che molti oggetti possono avere la medesima funzione (tenere
legati i capelli) eppure avere forme molto diverse. Perché oggetti
deputati alla medesima funzione (contenere liquidi per portarli alla bocca)
tendono ad avere forme diversissime tra culture diverse e spesso anche nella
stessa cultura (calice, bicchiere, coppa, tumbler…)? Ciò dipende sempre dal
fatto che “la cultura è appresa” e questo meccanismo produce diversità ipso
facto. Ma c’è una ragione più profonda e dipende dal fatto
che come esseri umani non riusciamo ad articolare un rapporto con il mondo che
non sia anche di tipo segnico, semiotico. Tendiamo cioè a caricare
di significato tutti i costrutti naturali e culturali di cui riusciamo a
parlare, altrimenti non riusciremmo a relazionarci con essi, e come abbiamo
visto il significato di x si incastra in una rete di segni, non è desumibile da
x in quanto tale. Insomma, mentre la funzione potremmo ipotizzare che sia
incardinata nel costrutto culturale (MA chi seguirà anche il secondo modulo, di
Antropologia economica, scoprirà che non è affatto così, e quel che chiameremo
il VALORE D’USO di un oggetto, vale a dire la sua FUNZIONE,
è una variabile dipendente dalla cultura dove quell’oggetto si presenta), il
senso di un oggetto è sempre un prodotto culturale, e lo è di necessità. Possiamo
cioè facilmente pensare a oggetti de-funzionalizzati (si
potrebbe dire che l’arte è quel processo che de-funzionalizza porzioni del
reale esasperandone la dimensione estetica, per cui anche un orinatoio può
essere un pezzo d’arte, una volta de-funzionalizzato e ricondotto in un
contesto adeguatamente significativo in senso artistico come un museo o una
galleria); ma ci è molto più difficile, se non impossibile, pensare a
oggetti de-semantizzati (a cui cioè si sia intenzionalmente
sottratto il senso) ma ancora funzionali. Gli orologi ammosciati di Dalì
potrebbero avvicinarsi a una finzione rappresentazionale di oggetti
de-semantizzati ma funzionali, ché io non riesco a pensare ad altro. Come può
un costrutto culturale o naturale funzionare (avere una funzione) senza più
avere un senso, dato che “funzione” è a sua volta un segno che
pretende un’operazione di significazione? Se non tutti i sensi sono funzionali,
di certo tutte le funzioni sono significative e dunque possiamo dire che la
realtà culturale è fatta di costrutti che necessariamente devono essere
caricati di un senso.
Prima che ci si intrecci
il cervello, diciamo che l’antropologia culturale cerca di ricostruire i significati dei
costrutti (culturali o naturali) come vengono rappresentati (i
significati, non i costrutti) dalla specifica cultura che stiamo analizzando.
Si tratta insomma di “ricostruire il punto di vista del nativo” (vedremo
in un altro saggio, se ce la facciamo) il quadro di senso di chi agisce
culturalmente.
Per esemplificare questo
passaggio, abbiamo a un certo punto discusso di Pietre, di Fate e di OCHOBO, uno “strano” principio estetico”
giapponese che sembra condizionare la vendita di hamburger da
quelle parti… La lezione da apprendere da questo caso è che non c’è modo di
correlare il concetto o il termine Ochobo a alcunché di referenziale, e dobbiamo rassegnarci al fatto che le culture sono
in grado di creare concetti che debbono essere compresi facendo riferimento ad altri concetti, e non al “mondo
reale”. C’è una sorta di sapere oggettivo
(le cose reali come le pietre), soggettivo
(le cose che vivono solo per le credenze soggettive di alcuni) e intersoggettivo (come ochobo, che è un
sapere culturale).
Per arrivare a comprendere
quel che Geertz vuole dirci a livello profondo (che studiare una cultura vuol
dire INTERPRETARLA, non OSSERVARLA) ci conduce dentro
un esercizio di meta-riflessione teorica. Ci vuole far comprendere che il
nostro lavoro è un lavoro interpretativo, ermeneutico,
e per arrivare a capirlo dovremo seguirlo in un complesso esercizio
interpretativo. Se non capiamo il percorso analitico del saggio non potremo
comprendere il fine teorico del saggio stesso, dato che i due coincidono (come
sempre, nell’antropologia interpretativa metodo e teoria sono difficilmente
separabili).
Per arrivare al testo
del racconto etnografico geertziano abbiamo distinto sommariamente tra
Livello –emico
e
Livello –etico
Dell’analisi sociale.
Indipendentemente dal fatto che dovremmo accettare il fatto che per l’analisi
culturale il livello “etic” altro non è che l’emic di qualcun altro, quel che
conta qui è che l’analisi –etica impiega categorie analitiche dell’osservatore,
mentre l’analisi –emica impiega le categorie analitiche dell’attore sociale
osservato. Quel che mi interessa nell’analisi culturale è riuscire a
ricostruire le categorie analitiche dell’attore sociale, vedere le cose “dal
suo punto di vista” (un cane come lo vediamo a Roma o come lo vedono a Seul,
come ci siamo detti a lezione, un po’ scherzosamente).
Questa contrapposizione
si può anche rispecchiare in un’altra importantissima opposizione, su cui ci
siamo soffermati a lungo, vale a dire quella tra
THIN DESCRIPTION (descrizione
sottile)
e
THICK DESCRIPTION (descrizione
densa)
La prima (abbiamo fatto
il doppio esempio dell’etnografo marziano che deve spiegare cosa sia un
battesimo e poi l’esempio veramente clamoroso dell’Occhiolino, vero pezzo di
battaglia delle mie lezioni di antropologia culturale) è una DESCRIZIONE
PRIVA DEL SIGNIFICATO CHE ALL’AZIONE ATTRIBUISCONO GLI ATTORI SOCIALI, una
vera descrizione “senza senso”; mentre la seconda è una descrizione CHE
INCLUDE IL SENSO DELL’AZIONE ESPRESSO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ATTORE SOCIALE (è
una descrizione “emic”, per così dire).
Q1. Per concludere questa
lezione, selezionate una qualunque azione sociale e datene
una doppia descrizione: una THIN priva di senso culturale,
e una THICK in cui invece il significato culturale sia
incluso.