07 ottobre 2017.
Per questa terza lezione abbiamo ripreso in mano un po’ degli appunti iniziali
elaborando alcuni punti e discutendone altri.
Il punto essenziale è che la natura umana è quella raccontata nel mito di Prometeo ed Epimeteo, vale a dire una flebile struttura naturale
con poche o nulle qualità innate, che per realizzarsi compiutamente deve
agganciarsi a un esoscheletro prodotto, come il fuoco rubato agli dei. IMPARARE è la cosa che sappiamo fare
meglio, e probabilmente l’unica cosa che sappiamo fare bene, quando nasciamo.
Certo, il nostro cuore batte e il nostro intestino si contrae senza che
dobbiamo ragionarci sopra, per dote innata cioè, ma tutto il sapere innato
degli uomini è ben poco SPECIFICO,
vale a dire non serve assolutamente a distinguerci da altre specie animali,
mentre praticamente tutti gli animali hanno una quota di sapere innato
specifico (abbaiare per i cani, rotolare cacche per gli stercorari).
Abbiamo ripreso la natura del sapere appreso, e distinto di
nuovo tra un sapere appreso in modo FORMALE
e uno in modo INFORMALE. Abbiamo poi
incrociato queste due modalità con l’opposizione tra sapere LINGUISTICO (trasmesso e appreso
soprattutto tramite il linguaggio) e il sapere CORPOREO (trasmesso e appreso, invece, attraverso il corpo). Mentre
il primo può essere contenuto in archivi e biblioteche (si pensi a queste note,
che archiviano linguisticamente la componente linguistica del sapere antropologico)
il sapere corporeo sfugge alla catalogazione archivistica e tende ad essere
trasmesso per imitazione o deissi (ecco, fai così, fai colì). Il
sapere corporeo tende ad essere più effimero
nella propria trasmissione proprio per questo sua riottosità a farsi ingabbiare
dentro il linguaggio. Prendete il sapere
artigiano, ad esempio l’arte di lavorare il vetro soffiato che praticano nell’isola
veneziana di Murano. Quando un maestro vetraio si ritira e smette di lavorare e
insegnare, il suo sapere è finito per sempre. Forse oggi le tecniche di
archiviazione video consento di produrre un archivio video esaustivo delle tecniche
di lavorazione del vetro, ma è molto difficile che questo sapere si possa
trasmettere lungo le generazioni facendo affidamento esclusivamente sull’archivio.
C’è bisogno del maestro che prenda a bottega l’allievo, lo guidi, gli indichi
cosa fare come farlo, lo corregga. Senza questa interazione sincrona tra chi
impara e chi insegna il sapere corporeo può difficilmente essere trasmesso.
Tanto più se è un sapere informale in cui non ci sono posizioni chiare di
docente e allievo.
Q1 Esempi di sapere
linguistico/formale, linguistico/informale, corporeo/formale,
corporeo/informale.
Con l’esempio del fidanzato alternativamente esperto di playstation, grande intrecciatore di canestri
in vimini o provetto suonatore di pianoforte (quale dei tre pensate che
farà più contenti i vostri genitori?) abbiamo riflettuto su un’altra variabile
interna del sapere appreso, vale a dire il suo essere collocato in una SCALA GERARCHICA da chi lo pratica. Ci
sono in ogni cultura saperi più e meno apprezzati, e mentre l’antropologia
culturale di suo non crea questo tipo di gerarchie
(anche se è vero che l’antropologia culturale da sempre presta attenzione alle
forme di sapere “in via di sparizione”,
proprio con l’intento di archiviarle), fa molta attenzione alle gerarchie
culturali, alle scale di sapere apprezzato e sapere meno apprezzato che le
singole culture sempre elaborano.
Possiamo dire anzi che l’ETNOCENTRISMO sia una forma di gerarchia del sapere culturale per
cui un individuo è più etnocentrico se crede che il suo sapere, quello della
sua cultura, sia intrinsecamente superiore a quello di altre culture e
soprattutto se usa il suo sapere appreso come fosse una forma naturale di conoscenza e “gli altri” che non la praticano
sono sostanzialmente o ignoranti (scarsità informativa)
o stupidi (scarsità cognitiva) o
malvagi (scarsità morale). (A questo
proposito una domanda in aula ha suscitato una riflessione sul matrimonio poligamico e cosa succede se
popolazioni che lo praticano arrivano qui e pretendono di praticarlo “a casa
nostra”).
Conclusa questa prima parte dell’introduzione (la cultura è appresa)
siamo passati alla seconda parte, vale a dire che LA CULTURA È CONDIVISA.
È evidente che ci sono in giro (e sempre più vicino a noi)
uomini che appartengono a culture diverse dalla nostra, e a questo punto
dobbiamo chiederci come si raggruppano
questi portatori di diversità. Il nostro modo spontaneo (vuol dire meccanico, irriflesso, che ubbidisce a regole
culturali di cui non siamo consapevoli) di catalogare vorrebbe che là fuori,
nel mondo, ci siano gli Italiani, i Francesi, i Romeni, i Boscimani, i Pigmei,
i Colombiani e i Vattelapesca, gruppi ben distinti, spesso da confini politici,
ma comunque riconoscibili perché praticano lingue
diverse, hanno anche caratteristiche
fisiche diverse, credono in diverse divinità,
si vestono diversamente, mangiano cose diverse, e considerano Bene e Male cose spesso molto diverse. Usiamo insomma una serie di
variabili (razza, lingua, costumi, religione, territorio, origini) e ci illudiamo che tutti i gruppi siano diversi ognuno da
tutti gli altri per tutte le
variabili, mentre in realtà, all’atto pratico, sappiamo che le cose non stanno
affatto così, e che due gruppi possono distinguersi per la lingua ma non per la religione (russi e
bulgari), o per le pratiche alimentari ma
non per la lingua (francesi e valloni); per le origini diverse ma non per l’attuale territorio condiviso
(statunitensi) e così via.
A questa costante sovrapposizione dei gruppi rispetto a
qualsiasi variabile (diciamo che le variabili culturali molto raramente sono specifiche,
distinguono cioè una sola cultura da
tutte le altre) si aggiunge il fatto che le culture, appena si scava un po’ più
sotto della superficie dello stereotipo,
brulicano di DIFFERENZE INTERNE: ci
sono uomini e ci sono donne (per non dire di tutto quel che
ci sta in mezzo), ci sono giovani, adulti e anziani, ci sono ricchissimi, ricchi,
benestanti, modesti, poveri e
poverissimi. Ci sono quelli fanatici del pallone e quelli che invece
preferiscono il basket, i vegetariani, i carnivori impenitenti, i cacciatori
con licenza e i pescatori di frodo, i costruttori abusivi e quelli di
necessità, le ballerine classiche e gli studenti universitari, gli analfabeti e
quelli con un dottorato di ricerca. La diversità
non manca dentro una cultura, tant’è
vero che spesso parliamo di sotto-culture
o subculture per riferirci a
porzioni specifiche di sapere culturale praticato in zone o porzioni limitate
di quel che, comunque, delimitiamo come “una cultura”.
Abbiamo finito qui, ponendoci la domanda da cui ripartiremo:
se le culture
1. NON SONO COSÌ
NETTAMENTE DISTINTE LE UNE DALLE ALTRE MA HANNO AMPLISSIMI MARGINI DI SOVRAPPOSIZIONE
E
2. SONO AL LORO
INTERNO SEMPRE ARTICOLATE SECONDO PROFONDE DIFFERENZE
Come mai continuiamo a raccontarci (ridendo) le barzellette
del tipo “Ci sono un italiano, un francese e un tedesco”? Detto altrimenti, cos’è
che ci ha fatto convincere che veramente “le culture” sono pacchetti distinti gli uni dagli altri che contengono tutti e soli individui più o meno uguali gli uni agli altri? Perché
abbiamo spontaneamente questa idea
di cultura così erronea rispetto all’effettiva esperienza che ne facciamo?
Vedremo che, ma guarda un po’, la colpa è della POLITICA, vale a dire del modo in cui il sistema del POTERE gestisce l’organizzazione della
vita sociale.
Q2. Prendete l’esempio della signora
trasteverina, del nipote ultrà e della badante ucraina che abbiamo raccontato a
lezione ed elaboratene uno dello stesso tenore ma di vostra invenzione.