Carla Benedetti, che stimo moltissimo, solleva una questione per me personale in duplice senso. Sul blog collettivo ilprimoamore.com si chiede chi sia l’editor, e quale il suo ruolo. Essendo io un editor da molti anni (ma solo di saggistica, mai di narrativa, per mia fortuna), già che se ne parli mi pare una conquista. Significa che il mondo dell’editoria italiana si avvia a normalizzare una figura spesso non solo invisibile, ma inesistente.
Carla chiede, un po’ retoricamente, se l’editor sia colui che pulisce il testo dalle sciocchezze e offre con cautela e parsimonia consigli che l’autore decide o meno se accettare, oppure se sia un intruso che interviene nel testo in modo pesante, anche a livello strutturale. Be’, potremmo dire che basta mettersi d’accordo prima, ma per quel che mi riguarda io vedo l’editing come una funzione di servizio. Quando mi è capitato di “addestrare” qualche giovane a questo lavoro, ho sempre detto loro che l’editor è il maggiordomo, l’autore un nobile spesso un po’ decaduto e il libro su cui lavoriamo un vestito non sempre all’altezza. L’editor, facendosi notare il meno possibile e cercando di non urtare la giusta suscettibilità dell’autore, deve ripulire il vestito, lucidare fibbie e bottoni. E se proprio vede strappi o macchie, metterci riparo rassicurando l’autore che non ha alcun intento punitivo nei suoi confronti (il famoso complesso della maestrina, che colpisce spesso gli editor alle prime armi ma anche direttori editoriali navigati) ma si mira solo a rendere il testo migliore (con tutta l’ambiguità che l’aggettivo si trascina).
Ma mi ha colpito la conclusione cui arriva Carla Benedetti: se prevale l’editor interventista (che addirittura può farsi vanto in pubblico di aver editato questo o quest’altro titolo di successo) allora significa che la letteratura è ridotta a “mero artigianato. Basta con la pretesa ridicola di inventare o di creare!”.
Capisco il problema, ma provo a calibrarlo per il settore del mio intervento, e cioè l’editoria saggistica. In questo campo gli editor molto spesso hanno purtroppo il problema urgente di far capire agli autori che quel che producono non è solo frutto di inventiva e di genio creativo, ma pretende anche lavoro, sudore, pazienza. Questo, moltissimi autori di saggi italiani (soprattutto e quanto più gravitano stabilmente attorno al mondo accademico) non lo capiscono e non vogliono capirlo.
Non so se sia un retaggio dell’idealismo crociano o un residuo ancora più antico del culto della sacralità della scrittura tipico del mondo cattolico (che letteralmente “adora” la scrittura e la lettura, più che praticarle), ma so che quando ho proposto quel paio di saggi che ho pubblicato all’estero (in inglese e in tedesco) ho avuto un bel daffare per soddisfare editor severissimi, che (molto giustamente) mi hanno posto domande difficili, hanno richiesto chiarimenti necessari, hanno preteso che io mettessi il massimo dentro il testo, e che non mi limitassi a farmi forte del mio potere autoriale e creativo. Da editor, invece, in Italia mi trovo spesso a fare i conti con una suscettibilità che diventa facilmente risentimento impermalosito.
Ci sono autori italiani di saggistica che si sentono oltraggiati da quel pezzente dell’editor se, puta caso, gli fa notare che “una conversione a 360 gradi” è esagerata (ne bastano 180, no? Altrimenti si torna al punto di partenza…) e che forse non ha molto senso parlare di “minimo comun denominatore” come un Bonolis qualsiasi, dato che in matematica esiste il minimo comune multiplo e il massimo comun denominatore, ma il minimo comun denominatore è un nonsenso (dato che per qualunque serie di numeri è sempre 1, ovviamente). Anche per cambiare palesi sciocchezze come queste spesso devo fare appello a tutto il mio senso diplomatico e alla mia lunga frequentazione con i suscettibili avventori dei bar veneziani quando facevo il barista per pagarmi gli studi…
Ripeto, queste righe non sono in polemica a quelle di Carla, ma una specie di contraltare che sento necessario. Nel campo della saggistica italiana sono troppi gli autori convinti che i titoli accademici siano sufficienti a concedere loro qualunque licenza, qualunque superficialità, qualunque sciatteria. Dei buoni editor, in casi del genere, stanno a fare la guardia per conto dei lettori, ché non capitino loro in mano (molto spesso per ragioni di studio, quindi senza neppure poter scegliere) testi con poco sugo e ancor meno sostanza.
Se esiste un problema nella scrittura “scientifica” italiana, a me non pare sia una carenza di creatività e un eccesso di artigianato, ma esattamente l’opposto: vedo (e leggo) troppa gente che sfodera la penna come un pennello da astrattista, e scaracchia a casaccio sotto il fuoco sacro dell’autorialità. Un po’ di umile artigianato, insomma qualche buon editor che tolga almeno le caccole più grosse dalle livree consunte dei baroni decaduti o emergenti, a me pare non faccia un soldo di danno, anzi, potrebbe ricondurre la saggistica italiana nell’alveo purtroppo naturale dei suoi molto spesso modesti confini attuali.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.