Uno pensa (cioè, io penso, voi potreste pensare) che l’attività di editing sia una noia clamorosa. Certo, in buona parte lo è. Ma non esclusivamente per i motivi che uno pensa (cioè che pensate voi, che non fate editing). Magari pensate che uno che fa editing se ne stia sempre a lavorare al buio, e anche se fuori c’è luce il vero editor sbarra le finestre e accende la lampada da tavolo. Il vero editor, credete, l’editor professionista, pensate, l’editor dedito al suo lavoro, siete certi, punta a scorporare se stesso per lavorare meglio. Mira a divenire null’altro che una penna e un paio d’occhi (anzi, uno solo basterebbe). Che l’editing come attività presa sul serio sia fondamentalmente un processo di assunzione di distanza dal corpo, per meglio concentrarsi sullo spirito di quel che si legge, per meglio dargli credito, per meglio migliorarlo. Se lo scritto, giustamente pensate, è una delle espressioni meno fisiche dell’umanità terrena (tanto che sopravvive di gran lunga, se lo merita, alla degradazione fisica dell’autore) allora l’attività di editing, la pulizia imbarazzante delle caccole dell’anima dell’autore editato, deve avvenire dentro uno spazio il più possibile etereo. Una chiesa, una nicchia, una cripta.
Tutto vero. È proprio così. Eppure non basta. La nostra (di editor) voglia di sparire fisicamente viene (per fortuna) sistematicamente frustrata dalla forza dei corpi. Dei corpaccioni mortali di autori mortali e corputi, che non ce la fanno proprio (non gli autori, ma i loro corpi) a starsene buoni, e traboccano proprio quando uno (cioè io, che faccio l’editor) meno se l’aspetta.
Giro la pagina, un’altra pagina ripulita, verginata direi (non posso dire riverginata perché non lo è mai stata: in realtà io prendo testi-zoccole ab ovo e li trucco da testi-vergini), ed ecco un pelo a cavallo tra “iter” e “decisionale” della pagina successiva. È un pelo lungo e un po’ ricurvo, ma non riccio. Lo riconosco (somiglia a quelli che mi strappo io di fronte allo specchio): è un pelo del naso. Di chi sarà? Dell’autore del capitolo? Del curatore del volume che si scaccolava mentre leggeva il contributo del collaboratore? Del grafico che ha composto le immagini? Non lo so. Ma posso vedere ognuno di loro al lavoro. Vedo le unghie che passano a grattare la cima del cranio, leggendo o scrivendo. E vedo le cellule morte che si staccano dal cranio e finiscono sotto le unghie. E quelle medesime unghie a girare la pagina sparpagliando sul foglio microforfora. Vedo i colpetti di tosse e gli sternuti che quando lavoriamo non ci preoccupiamo di coprire con la mano e al rallentatore vedo la piccola esplosione di goccioline di saliva e muco che si deposita sulla pagina. Vedo il normale grasso della pelle che si stende dall’avambraccio al foglio.
Vedo i nostri corpi di scrittori o professionisti della scrittura che si impossessano della pagina che stiamo cercando di tenere sintatticamente pulita. Vedo che tutti i nostri sforzi di ritagliarci uno spazio “puro” vanno – per fortuna – a puttane. Perché quella puttana del corpo non ce la fa a starsene ai margini, e neppure nelle note. No, quella puttana del corpo come al solito si mette a fare il gradasso, a pisciare fuori dal vaso, a spararle grosse, a impicciarsi di affari che non dovrebbero per nulla essere suoi.
E allora, quando mi capitano momenti del genere, quando un pelo, una macchia, una caccola spiaccicata sul foglio mi ricordano che non ce la faremo mai a pulire il testo dai nostri corpi, da noi stessi, mi rilasso, e so che il mio lavoro può proseguire meno nevrotico, meno cattivo.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.