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lunedì 24 settembre 2007

Beata innocenza


Leggendo un articolo di un antropologo inglese che ha lavorato a lungo in Grecia, scopro un dettaglio interessante. Michael Herzfeld (questo il nome dell’antropologo) sta raccontando le vicende cretesi narrate in un romanzo scritto da un autore locale. Per chi non lo sapesse, Creta è famosa per lo spirito bellicoso dei suoi abitanti e, per noi italiani, ricorda un po’ alcuni stereotipi sardi (diffuso “abigeato”, cioè furto di bestiame) e siciliani (rapimento della donna per costringere la famiglia al matrimonio, vendetta istituzionalizzata nella faida). In questa storia analizzata da Herzfeld la protagonista è stata rapita e il paese si è mobilitato alla caccia del rapitore. La storia si concluderà con una rappacificazione collettiva grazie al matrimonio riparatore. Commentando il finale moralista, Herzfeld riporta un brano del romanzo nella sua traduzione in inglese: “The theft had been purified. The sinners had been made innocent [or, acquitted]”. In italiano suona all’incirca: “Il ladro è stato purificato. I peccatori sono resi innocenti [o sono stati assolti]”. Non ho l’originale per verificare, ma è del tutto probabile che il greco fosse “athoòthikan”, che effettivamente significa assolvere, proclamare innocente. Quel che è curioso è che Herzfeld, di cultura inglese, non riesca a trovare un verbo univoco per la sua traduzione e sia costretto a distinguere tra l’essere “reso innocente” e l’essere assolto. A un italiano (e sospetto a uno spagnolo o a un francese, comunque a un cattolico) non sarebbe mai venuto in mente di mantenere questa distinzione (che l’originale greco difatti non ha). Mentre cioè per coloro che hanno la confessione come sacramento il fatto di essere àthoos (innocente) è una condizione reversibile (tanto che si può essere “fatto” innocente anche se si è stati colpevoli) per altre sensibilità culturali la condizione di perdita dell’innocenza non è reversibile, e quindi bisogna distinguere tra l’essere assolti (per essere sempre stati innocenti) e la condizione (evidentemente percepita come fittizia) di riverginazione della propria innocenza attraverso un rituale.
Sono, credo, dettagli come questi che ci segnalano più in profondità le differenze tra le culture.