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giovedì 31 luglio 2008

Piramidi albanesi


Propongo qui una mia sintesi di un rapporto di ricerca pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale. Chris Jarvis, 2000. "The Rise and Fall of the Pyramid Schemes in Albania", IMF Staff Papers , 47, 1, pp. 1-29.
Si tratta di un articolo di un economista, per cui l’attenzione è necessariamente concentrata sulle ragioni tecniche dell’esplosione delle piramidi finanziarie in Albania negli anni Novanta. Particolarmente utile per la ricostruzione degli eventi economici e politici che hanno portato alla “guerra civile” dell’inizio 1997.

Una delle domande cui spesso è facile rispondere cedendo ai pregiudizi è come mai l’Albania si sia fatta coinvolgere dal sistema delle piramidi finanziarie così a fondo da trascinare nel baratro di un debito inestinguibile l’equivalente, allora, di un miliardo e 200 milioni di dollari. Ci vuole poco a rispondere facendo riferimento alla dabbenaggine degli albanesi, alla loro incapacità di comprendere i meccanismi della moderna finanza, ma questo articolo ci offre anche altre indicazioni, per elaborare una risposta più complessa.
Con la transizione all’economia di mercato, dopo mezzo secolo di programmazione centralizzata, il sistema finanziario albanese era ancora in grave ritardo. Il sistema dei depositi e prestiti era dominato dalle tre banche statali, che controllavano oltre il 90 per cento dei depositi (p. 3) ma mantenevano un sistema estremamente farraginoso di credito:
A causa di questi problemi, e di una generale sfiducia nelle banche, la gente tendeva a mantenere una quota sproporzionatamente alta delle disponibilità finanziarie in contanti (a fine 1995 il rapporto tra moneta corrente e depositi era del 64 per cento) e era alla ricerca di nuove opportunità di investimento (p. 3).

Se questa era la situazione per i depositi, l’impresa si trovava in una situazione altrettanto negativa quanto a sistema di finanziamenti, dato che le banche concedevano credito sotto condizioni molto rigide, che non favorivano la circolazione di denaro per lo sviluppo di iniziative private.
In sostanza, sia i lavoratori intenti a investire i loro risparmi (incluse le rimesse degli immigrati) sia le imprese intenzionate a contribuire alla crescita del paese avevano bisogno di interlocutori diversi dalle banche pubbliche, ed è questa una delle ragioni strutturali per cui gli albanesi iniziarono a rivolgersi al mercato informale del credito, che aveva iniziato a svilupparsi dai primi anni Novanta.
Questo mercato informale era basato soprattutto sulle rimesse degli immigrati depositate presso privati che potevano, con quei soldi, concedere prestiti a interessi piuttosto elevati a chiunque avesse bisogno di un prestito in Albania. È in questo sistema di prestiti informale che si inseriscono, fin al 1991-92, le prime piramidi.
Tecnicamente, una piramide “lavora sul principio che i soldi pagati dagli investitori più recenti sono usati per pagare interessi artificialmente alti agli investitori più vecchi…” (p. 7). In sostanza, una piramide finanziaria non si sostiene sul margine che riesce a trattenere tra interessi che deve ai creditori e interessi che incassa dai debitori, ma è sistematicamente insolvente in quanto i soldi dei nuovi creditori sono usati non per essere prestati ai nuovi debitori, ma per pagare gli interessi ai vecchi creditori.
Non è chiaro in Albania quali gruppi di credito informale fossero fin da subito piramidi in questo senso e quali lo diventarono, ma quel che è certo è che una volta divenuta “piramidale” la struttura di credito di un qualunque soggetto era destinata a collassare per semplici ragioni matematiche, dato che sostenere il pagamento degli interessi degli investitori in questo sistema è possibile solo se si introduce un numero sempre maggiore di nuovi investitori, i cui investimenti servono a pagare gli interessi degli investitori precedenti.
Il problema, in Albania, fu che la natura piramidale delle società che fecero crollare il mercato finanziario non fu pienamente compresa (o fu occultata) fin alla metà del 1996, cioè molto tardi e quando non era rimasto molto da fare.
Sebbene, come abbiamo visto, le piramidi finanziarie fossero sorte da anni, è solo con l’inizio del 1996 che scoppiò una vera mania di acquisto e un boom degli interessi che portò al collasso. Secondo Jarvis, le ragioni di questo sono due.
In primo luogo, nel dicembre 1995 le Nazioni Unite sospesero le sanzioni economiche contro la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, consentendo così nuovamente l’approvvigionamento legale di beni all’estero, soprattutto di combustibili. Fino ad allora, e per tutta la durata dell’embargo, la benzina arrivava in Jugoslavia contrabbandata attraverso l’Albania, e ci sono diversi indizi che alcune delle principali società piramidali investivano i depositi in questo tipo di commercio. Venuta meno questa fonte di reddito, i responsabili delle piramidi non poterono far altro che alzare i tassi di interesse sui depositi, portandoli al 6 per cento mensile e stimolando quindi l’acquisto da parte di nuovi investitori.
In secondo luogo, le elezioni che si tennero nel maggio del 1996 videro la conferma del Partito Democratico, ma le numerose accuse di brogli, confermate dalla comunità della osservatori internazionali, rese il nuovo esecutivo particolarmente fragile e poco disposto a inimicarsi la fragile base sociale del suo risicato successo elettorale. Di conseguenza, “…il governo non voleva fare sgradite sorprese alla gente, e così si rafforzò la tendenza a ignorare la crescita delle piramidi finanziarie e a sperare che il nodo non venisse mai al pettine” (p. 9).
In questo clima di fragilità delle istituzioni e gioco al rialzo delle finanziarie, le vecchie società come VEFA e Gjallica vennero affiancate nel 1996 dalle nuove ed estremamente aggressive Populli, Xhafferi e Sude, che in poche settimane raccolsero i risparmi di oltre un milione di investitori, vale a dire di quasi un albanese su tre, bambini e nullatenenti inclusi. I tassi di interesse di queste nuove finanziarie assunsero livelli astronomici, fino al 44 per cento al mese, garantendo agli investitori di raddoppiare il capitale investito in due mesi o di triplicarlo in tre.
Mentre la Banca Centrale sollecitava vanamente il governo e il parlamento a prendere misure adeguate verso un sistema di credito ormai prossimo allo schianto, la popolazione era preda di una vera mania collettiva da investimento:
La gente vendeva case e appartamenti per investire i ricavi nelle piramidi, e i contadini vendevano il loro bestiame. Il clima di quel periodo è stato colto con lucidità da un abitante di Tirana che disse che nell’autunno del 1996 la città somigliava, per odori e rumori, a un macello, mentre i contadini portavano gli animali al mercato per investire i guadagni nelle piramidi finanziarie (p. 13).

In tutto questo, l’allora presidente (e attualmente primo ministro in carica), Sali Berisha, reagiva a questo modo:
Quando venne ipotizzato che alcune delle compagnie stavano ancora a galla grazie al riciclaggio del denaro sporco della mafia italiana, il presidente stesso accorse in loro difesa, sostenendo che si trattava di compagnie albanesi del tutto legittime e di successo (p. 13).

Nel gennaio del 1997 Sude e Gjallica dichiarano fallimento. Soprattutto il crollo di quest’ultima, con sede a Valona, scatena rivolte nel Sud del paese: “I proprietari scapparono in Turchia, avendo intascato, secondo i revisori, almeno 17 milioni di dollari durante l’operazione della piramide” (p. 11).
Il resto è abbastanza noto dalle cronache dei giornali, e viene così sintetizzato dall’autore del rapporto:
L’autorità del governo, fragile sin dalle elezioni del maggio 1996, si era dissolta, e l’8 marzo 1997 l’esecutivo presentò le dimissioni. Per quella data, l’Albania era nel caos. Il governo aveva perso il controllo del Sud del paese, la parte più ricca, dove gli investimenti per le finanziarie piramidali erano stati più alti. L’esercito e la polizia erano stati quasi abbandonati. Per la metà di marzo i depositi di armi erano stati saccheggiati nel Sud dai contestatori e a Nord dai sostenitori del presidente; iniziarono la fuga degli stranieri e l’emigrazione di massa degli albanesi verso l’Italia. Quando anche Tirana cadde preda dei disordini, il presidente acconsentì a indire nuove elezioni parlamentari per la fine di giugno, e venne nel frattempo nominato ad interim un governo di coalizione guidato da membri del partito fino ad allora all’opposizione, vale a dire il partito socialista [che poi vinse le elezioni] (p. 16).

All’epoca in Italia avevamo il primo governo Prodi. Prima c’era stato Berlusconi, che sarebbe tornato per essere sconfitto di nuovo da Prodi, prima del ritorno attuale di Berlusconi. Come gli albanesi, noi italiani abbiamo la curiosa tendenza a riportare al potere gli sconfitti e i dimissionari, di destra e di sinistra.
Se questo articolo nulla può dirci sul perché questi due popoli, sulle due sponde dell’Adriatico, abbiano così bisogno di identificarsi politicamente con personaggi sconfitti dalla storia e dallo loro politica, ma ci dice invece molto sul perché gli albanesi abbiano investito così massicciamente nelle piramidi. È stata prima di tutto la carenza di alternative agli investimenti a permettere alle piramidi finanziarie di trovare un mercato, e sono state poi le fragilità del sistema politico albanese a consentire la loro metastasi. Diversamente da come l’hanno raccontata i giornali italiani dell’epoca, “l’irrazionalità” o la “sprovvedutezza” degli albanesi c’entravano ben poco.