Questo è il testo su cui mi sono basato per il mio intervento a Faherenheit ieri. Oggi toccherà all'indice. Il testo lo metto online stasera.
Pollice
Quando sono stato invitato a compilare per questa settimana il “vocabolario” di Fahreneit, ho pensato che una delle voci che ci volevo mettere avrebbe dovuto essere “mano”. Cercavo parole “vere”, vicine all’esperienza della vita quotidiana, e “mano” certamente lo è. Soprattutto è una parola che non ha paura della sua ambigua connotazione morale, di incarnare cioè il bene o il male a seconda di come viene usata. Si sa che la stessa mano con cui carezziamo può subito dopo schiaffeggiare o tirare un pugno: questo è quello che mi attrae delle parole, e questo vorrei raccontare con il mio “vocabolario”, che non ce la fanno mai a stare buone da una parte sola, e dipende da noi dare loro una prospettiva etica.
Poi mi sono detto che, in tre minuti, della parola “mano” sarei riuscito a dire poco o nulla, e che forse valeva la pena si dividerla in parti: dita, palmo, dorso, nocche, falangi, unghie. Ma così una settimana a Fahreneit non sarebbe bastata.
Ecco allora la scelta delle dita: sono cinque, costituiscono la parte più rimarchevole della mano, eppure ognuna di loro ha il suo stile, le sue qualità.
Il pollice, dunque. Nel suo lato più cupo il pollice è l’aut aut dell’imperatore romano, la vita o la morte, senza soluzioni intermedie. Il pollice è tenuto alto da chi vince, e rivolto in basso segna la condanna. In questa funzione, non consente mediazioni, non tollera il compromesso, è decisamente austero. Me lo vedo, il pollice giudice che non guarda in faccia a nessuno, che non ascolta pareri alternativi. Forse oggi questo pollice incarna una certa furia nel prendere posizione, nello schierarsi pregiudizialmente, nel sapere sempre con sospettosa fiducia da che parte stare. Come ogni sicurezza conclamata, è probabilmente figlio della paura. È il nodo gordiano che viene tagliato di netto per paura di perdersi nei suoi meandri, o anche solo per impazienza, uno dei sentimenti più fragili e purtroppo più determinanti del nostro animo.
Ma il pollice, mi insegna l’antropologia fisica, è il primo strumento di lavoro dell’essere umano, uno dei cardini stessi dell’umanità, assieme alla postura eretta. Siamo diventati uomini perché abbiamo iniziato a manipolare gli oggetti intorno a noi, e l’abbiamo potuto fare perché abbiamo il pollice “opponibile”. Mi piace questa parola, “opponibile”, perché dà l’idea di una disposizione senza essere una petizione di principio. Il pollice funziona quindi perché sa opporsi, e questo ci dice due cose, credo. La prima è che per afferrare la realtà non basta un’unica prospettiva, ci vuole qualcosa che a quella prospettiva faccia opposizione. La seconda è che quell’opposizione deve essere disponibile, per così dire, ad opporsi a se stessa, a sapere quando agire con più vigore e quando invece poggiarsi morbidamente.
Trovo bella e interessante, allora, questa duplicità del pollice, fiero enunciatore di giudizi definitivi ma anche oppositore intelligente, capace di afferrare il mondo facendo gioco di squadra con l’altra parte.
Mi piace pensare che con il pollice posso girare il mondo in autostop, mentre i bambini si succhiano il pollice per rintanarsi nella sicurezza della loro nanna.
Per continuare a riflettere sull’antitesi tra rigidità e flessibilità, consiglio per oggi la lettura di Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, di Adriano Sofri, pubblicato da Sellerio.