Ai miei studenti di Urban & Global Rome al Trinity College Rome Campus cerco di far vedere una Roma che altrimenti non vedrebbero. Non vedrebbero se rimanessero in centro a studiare la Roma classica e papalina, o a svagarsi tra Trastevere e Campo de’ Fiori.
Per questo visitiamo Pietralata e la sua borgata storica circondata dal quartiere abusivo (dove abito anch’io). Per questo li porto a Torpignattara a conoscere gli esponenti della comunità bengalese che hanno rivitalizzato un quartiere che si andava spopolando. Per questo andiamo in visita alla Moschea e alla Sinagoga, o parliamo con i figli dei negozianti cinesi dell’Esquilino e con gli occupanti di CasaPound. In questi walking tours (qui avete le mappe del giro a Pietralata e all’Esquilino) vediamo e sentiamo tante cose, quando possiamo mangiamo anche, per provare a incorporare un po’ meglio la diversità che ci circonda.
Il “giro” più impegnativo, questo semestre, è stato però in centro. Siamo stati al Joel Nafuma Refugee Center, un centro diurno gestito dalla chiesa episcopale di San Paolo entro le mura. Se guardate la facciata della chiesa, su via Nazionale, fate caso al cancello alla sinistra. Dalle 8 alle 14 è aperto e vedrete molti stranieri entrare e uscire. Lungo il corridoio che segue il muro esterno della Chiesa, si arriva sul retro, e da lì si può scendere in quella che era la cripta della Chiesa, ora trasformata in un centro diurno di accoglienza per persone che hanno fatto domanda di asilo politico nel nostro paese.
Abbiamo conosciuto D., curdo irakeno, arrivato da quasi due mesi. Ha tutte le carte in regola dal punto di vista legale, ma dorme per strada in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo è stata accolta. Dice che non se l’aspettava, non si aspettava che non avrebbe avuto alcun sostegno dallo stato italiano, mentre un gruppo di volontari americani gli insegna un po’ di italiano, o gli passa un po’ di schiuma da barba o un tè in un bicchiere di carta e cinque biscotti. Twana, il responsabile del centro, ci racconta che hanno un budget di circa mille euro al mese per tutte le spese del centro, che viene tutto da donazioni, e quindi da quest’anno chiudono alle 14, invece che alle 16.30 com’era fino all’anno scorso.
Conosciamo I.O., dalla Nigeria, in Italia da sei anni. Dorme a Termini sperando di trovare il modo di tornare al suo paese, a coltivare cassava se qualche ONG finanzierà il suo progetto. Ci parla del razzismo degli italiani, del razzismo della polizia italiana, di come a volte non si senta neppure considerato un essere umano.
Le storie che raccolgo e che sento sono spesso dolorose, o sono storie di rabbia.
C’è però un posto dove non ho ancora avuto il coraggio di portare i miei studenti, e questo posto non esiste più da quattro giorni. È il campo irregolare di Centocelle, un accampamento rom/romeno che il Comune ha raso al suolo la mattina dell'11 novembre scorso.
Che posso dire di quel posto? Forse l’unica cosa che mi sento di dire è che i bambini del campo andavano nella stessa scuola di mia figlia Rebecca, che due bambine erano in classe con mia figlia. Le famiglie si sono trovate smembrate, qualcuno spedito a Ponte Galeria, qualcuno spinto al rimpatrio in tutta fretta. Chi è rimasto ha dormito una notte a Villa de Sanctis, lì vicino, oltre un cordone di polizia che ha impedito ai cittadini che lo volessero (ed erano in molti) di portare qualche coperta, un po’ di cibo caldo o anche solo un po’ di solidarietà. Il tentativo di occupare un dismesso stabilimento industriale in via dei Gordiani (sede di un campo regolare poco più avanti) è stato bloccato di nuovo dalle forze dell’ordine.
Io proprio non ce la faccio a pensare ai miei doveri didattici, penso solo alla bimba romena da settembre compagna di classe di Rebecca che ho visto giovedì. All’uscita è venuto a prenderla un uomo in evidente stato di stress. Aveva i vestiti luridi e sembrava preda di una profonda angoscia. Non so che fine abbia fatto la mamma di quella bambina, né se lei tornerà nella classe di Rebecca, lunedì.
Non posso portare i miei studenti americani a confrontarsi con situazioni come questa, ma credo sia arrivato il momento di ripensare seriamente cosa siamo diventati, noi italiani, e cosa vogliamo diventare. Vedevo il pulmino che portava ogni giorno a scuola i bambini da quel campo e lì li riportava, mi sembrava un passo importante di inserimento sociale. Ora non so cosa vedrò la settimana prossima, ma posso immaginare che andare a scuola, per quei bambini, non sia più una priorità, e non mi pare un passo in avanti.
O, come cittadini, apriamo gli occhi sulla miseria che attraversa questa città e cominciamo a farcene carico, oppure ogni volta che la espelliamo con la forza o la neghiamo con l’indifferenza ne verremo invasi fino in fondo al nostro animo, inaridendoci ancora di più fino a seccare completamente, come società civile (nel senso letterale dell’espressione: raggruppamento di esseri umani che non vive allo stato ferino, società civile).
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.