Lei è JK Rowling, l'autrice di Harry Potter, e questo è il discorso che ha tenuto per le lauree di Harvard, il 5 giugno 2008.
E' un discorso ispirato, dove racconta che il fallimento può portare dei benefici, e dove racconta il ruolo dell'immaginazione nella sua vita (prima di scrivere i romanzi che l'hanno resa famosa).
Ma a me fanno impressione due cose:
1. C'è un'arte anglosassone del discorso che abbiamo completamente perduto (se mai l'abbiamo avuta). Prima di arrivare alla parte intensa e commovente, il pubblico viene catturato e introdotto al tema con una serie fulminante di battute, e il riso segna anche la fine dell'orazione. Insomma, non si improvvisa un discorso del genere, lo si medita a tavolino, lo si scrive, ci si lavora. E' un'arte bellissima ma presuppone la passione per l'artigianato: forse è troppo per le menti italiche.
2. Non posso non comparare la cura per la dimensione rituale dell'accademia americana (e anglosassone in generale) con la sciatteria dei nostri atenei, con cerimonie di inizio anno stantie, presentazioni senza alcuna preparazione, prolusioni il più delle volte di una pesantezza insostenibile. L'Università dovrebbe essere anche un luogo dove si forma e consolida un senso di appartenenza, dove si creano legami non solo per caso, ma perché l'istituzione ci tiene a tessere una sua rete sociale. In Italia ho visto tante università, ma non le ho mai viste lavorare in questa direzione, nel produrre comunità e struttura sociale tra quanti le vivono. Peccato.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.