Quando ti muore un parente inevitabilmente cominci a pensare alla
morte da una prospettiva meno distaccata, ma il resto del mondo
continua ad andare avanti per conto suo. Così la morte di mio
zio Angelo (detto Ninin) a 62 anni si mischia da ieri
con la nuova vita dicono messa in cantiere da Gianna Nannini (54
anni). Lei diventerà mamma all'età in cui
solitamente si diventava nonni, mentre mio zio è
mancato prima di poterlo diventare, dato che i suoi figli non si sono
ancora riprodotti.
Di mio zio ho pochi ricordi recenti, ci vedevamo poco, ma
ho dei bellissimi, anche se non numerosi, ricordi della mia infanzia.
Avendo solo 15 anni più di me, era lo zio più vicino a
un fratello maggiore, e per me che non avevo che tre
femmine a precedermi in famiglia era una buona soluzione
intermedia. Ricordo una mitica lotta a palle di neve, finita
in una vera battaglia campale di tutti noi cugini (tra i 6 e gli 8
anni) contro questo zio sportivo (portiere, aveva giocato anche in
serie C) e un po' lunatico. Lo andavamo a vedere quando giocava
nell'Union Clodia-Sottomarina, e per me era una tortura stare
in quello stadio pieno di nebbia, con il freddo umido della laguna
che mi entrava nel cappotto, ma la possibilità di vedere anche
per poco quello zio-quasi-fratello mi convinceva ad accettare
quella tortura.
Mi chiedo come sarebbe stato mio zio Angelo se avesse fatto in
tempo a diventare nonno, e mi domando che mamma sarà
Gianna Nannini. Sono diventato genitore non in tenera età,
diciamo: con Rebecca avevo 38 anni, e con Amanda
ne avevo 45. Da un lato mi è dispiaciuto non avere
figli quand'ero più giovane, forse sarei stato più
tonico, più pronto anch'io a rotolarmi nella neve fino a
spossarmi con le mie figlie, se le avessi concepite prima dei
trent'anni. Ma d'altro canto, se mi guardo con un po' di ragionevole
distacco e penso al mio “io” ventenne, credo che
sarei stato un pessimo padre, certamente peggiore di come lo
sono stato in realtà. A vent'anni (e fino ai trenta
abbondanti, direi) ero troppo preso da me stesso e troppo
inconsapevole delle mie scelte per poter prendermi seriamente
cura di qualcun altro. E poi, ero molto meno paziente di ora,
molto meno tollerante, molto più spigoloso.
Credo che il cambiamento dipenda anche (oltre al fatto che le
esperienze da qualche parte si accumulano, e i molti errori
commessi ci fanno sopportare meglio quelli degli altri) dal
fatto che più si avanza con l'età e più sentiamo
che le persone giovani con le quali interagiamo sono facilmente
destinate a rimanere, ai nostri occhi presbiti, giovani per
sempre. Questa penso sia la ragione di fondo per cui “i
nonni” (intesi proprio come categoria dello spirito più
che entità sociologica) tendono a sviluppare verso “i
nipoti” (come sopra) un sentimento diverso da quello dei
“genitori”. Un padre o una madre possono crescere i loro
figli nella ragionevole convinzione che li vedranno farsi
grandi, costruirsi una loro vita, mettere in piedi le loro famiglie.
Il genitore, per così dire, è anagraficamente
legittimato a pre-vedere per il figlio un lungo percorso, che lo
porterà ad essere un adulto pieno.
Ma un nonno (tanto più oggi, che si diventa genitori
attorno ai quaranta, e quindi nonni facilmente dopo i
settanta) da qualche parte dentro di sé sente che potrà
vedere i suoi nipoti crescere fino a un certo punto,
dopo di che loro continueranno la loro strada, mentre la sua giunge
al termine. Il nonno quindi sa che ha pochissime probabilità
di vedere i suoi nipoti arrivare all'età adulta,
all'indipendenza economica e lavorativa, o anche solo alla laurea.
Per questo il nonno tende ad estremizzare nella sua interazione coi
nipoti i suoi sentimenti, e può diventare estremamente
indulgente, sapendo che ha di fronte un bimbo che dal suo punto
di vista non potrà mai crescere del tutto; oppure può
sviluppare quasi una forma di invidia infantile, visto che di
fronte ha un bambino immortale, mentre lui ha smesso da moltissimo
tempo quel ruolo, almeno da quando gli è morto l'ultimo
nonno...
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.