Il Post ha pubblicato una infografica (si dice così, scopro; le chiamavo "cartine", le cose del genere, mappe dove ti spiegano una cosa ma in forma visiva) sui dati dei suicidi in carcere. Fa impressione vedere lo Stivale cosparso di cappi, tubi del gas, rasoi, flaconi di medicinali e sacchetti di plastica, a indicare il metodo scelto da chi si è tolto la vita dietro le sbarre.
Ho scorso rapidamente i nomi, tanti stranieri: Ramon Berloso, Gheghi Plasnicj, Giacomo Attolini... Qualcuno senza nome (Detenuto Marocchino, Detenuto Italiano) e mi sono chiesto perché, per "lapràivasi" oppure perché non sono neppure riusciti a identificarlo, e stava in galera senza nome?
Tra i tanti nomi, mi ha colpito l'ultimo in sequenza cronologica, Rambo Djurdjevic, morto suicida a Roma il 29 dicembre, all'età di anni 24, si dovrebbe dire.
Rambo Djurdjevic me lo sono immaginato, nei suoi 24 anni, giovane che potrebbe essere senza scandalo mio figlio. Forse rom, con quel cognome, e ancor più con quel nome. Ho visto il padre che tra una risata e una pacca sulle spalle, pagando da bere a tutti, comunicava agli amici la decisione di chiamarlo Rambo "come il film" (che è dell'82, mentre Rambo il figlio era del 1986; ma Rambo II: la vendetta è del 1985, giusto in tempo), orgoglioso come tutti i padri, appena gli sfornano "il maschio". Ho visto il piccolo Rambo crescere con questo nome sul groppone, una benedizione e una maledizione assieme.
No, non credo assolutamente che il destino del giovane Djurdjevic sia stato segnato dal nome che portava. Penso invece che abbiano pesato molto di più le sue "condizioni materiali di esistenza", i modelli parentali, il gruppo dei pari. Sarebbe finito in galera e si sarebbe ammazzato anche se si fosse chiamato Dragan, o Giorgio.
Ma mi fa tenerezza e mi riempie di tristezza vedere quel nome da gradasso coprire il viso di un giovane suicida. Il Rambo cui pensava sicuramente il padre è un vincitore, è uno che alla fine "ce la fa", che non molla, che combatte fino a ottenere quel che ritiene giusto. Rambo Djurdjevic invece è stato sconfitto, si è impiccato in galera come un vecchio senza speranze, a un'età in cui io bighellonavo all'università decidendo cosa fare "da grande", a un'età in cui oggi ci si può ancora considerare di fatto adolescenti.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.