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martedì 15 febbraio 2011

Multiculturalismo, relativismo e altre amenità

Domenica scorsa, 13 febbraio, il direttore Gianni Riotta ha pubblicato sull'inserto domenicale del Sole24ore un articolo dedicato a discutere la questione del multiculturalismo dopo le uscite della cancelliera tedesca Merkel e del premier britannico Cameron. Gli ho mandato una mail in cui contesto la sua posizione su tre punti. Eccola.


Egregio direttore,
sono un antropologo culturale (ricercatore a Roma Tor Vergata e professore al Trinity College – Rome Campus) e ho letto con interesse e attenzione il suo articolo sull’ultimo domenicale. In quanto professionista dell’argomento, mi permetto di evidenziare alcuni punti del suo testo che non mi trovano d’accordo, proponendoli come “tesi” cui vorrei controbattere con la forza argomentativa di cui sono capace.

Tesi n.1: Il multiculturalismo “non funziona”, neppure nelle sue versioni più sofisticate (o forse funziona peggio tanto quanto più lo si prova a raffinare).
Bene, possiamo concordare su questo punto, ma mi chiedo cosa ci sia di così specifico nel multiculturalismo da rendere impellente il suo superamento. Se pensiamo ad altre gloriose istituzioni o aggregati politico-ideologici come “democrazia” o “stato” (a fianco di stato può aggiungere l’aggettivo che preferisce: “liberale”, “democratico”, “pluralista”), mi pare altrettanto evidente il loro fallimento storico nel raggiungere gli obiettivi principali che si erano ripromessi. Dal punto di vista strettamente politico, non basta che un’idea o un’istituzione “non ce l’abbia fatta” per decretare la necessità del suo superamento. In politica vale sempre la sfiducia costruttiva: se non si hanno alternative ragionevoli, mi sa che dobbiamo tenerci ancora la democrazia e lo stato. Idem per il multiculturalismo, se l’alternativa resta l’omogeneizzazione forzata, la repressione della diversità culturale e la sovrapposizione di qualità morali e qualità economiche, per cui la cultura “migliore” è la cultura delle classi dominanti. Grazie, abbiamo già dato.

2. Il multiculturalismo è degenerato quando ha incontrato il post modernismo nichilista, vale a dire il “relativismo degli ultimi post moderni” á la Richard Rorty.
Certo, forse esiste nei meandri di qualche centro sociale qualche fricchettone che pensa che quanta più diversità si immette in un sistema culturale, tanto più automaticamente quel sistema brillerà per tolleranza e reciproca ammirazione, ma le assicuro (trattando con persone diverse da me praticamente tutti i giorni) che il legame tra pratiche a salvaguardia della specificità culturale e relativismo assoluto è molto meno forte di quel che lei (o Sua Santità) pensano. Gli AK47 che crepitano nei ghetti (e le bombe e i proiettili di qualunque provenienza e diretti contro qualunque obiettivo) non sono il frutto di troppo relativismo, ma l’opposto: lo stolido convincimento di essere assolutamente nel giusto, la convinzione etnocentrica che “io so’ io, e voi nun siete un cazzo”. La brutale fedeltà alle proprie radici, comunque siano intese (culturali, razziali, territoriali, religiose) non ha nulla a che fare con il relativismo, che è invece foriero di dubbi, prima di tutto su se stessi e la propria rete sociale di riferimento. Il multiculturalismo, insomma, è degenerato non perché ha incontrato il debosciato relativismo, ma perché è rimasto preda, su piccola scala, dello stesso male che ha attanagliato lo stato moderno nella prima metà del Novecento, vale a dire l’urgenza della purezza e il terrore della contaminazione. Se i rappresentanti delle specifiche, fluttuanti, cangianti e sempre in movimento identità fossero veramente un po’ più relativisti, accetterebbero di buon grado sia il necessario cambiamento della loro prospettiva (che lei giustamente auspica) sia la fragilità relativa della propria costituzione identitaria. Si guardi intorno e pensi a chi pratica il sopruso o la violenza, verbale o fisica: lo fa sempre perché è molto sicuro di essere nel giusto (quindi è anti-relativista per definizione) non perché predica il volemosse bbène del multiculturalismo da macchietta.

3. Non si crea un paese senza una lingua comune.
Questa era una convinzione di Arthur Schlesinger jr che lei riporta, ma la vedo anche nel sommario dell’articolo e quindi immagino che possa considerarsi la sua posizione. Storicamente, non ha ragion d’essere, dato che sono innumerevoli i controesempi, dagli imperi storici (tutti ampiamente plurilingui, da Roma all’Impero Sovietico) agli stati plurilingue come la storica Jugoslavia, il Belgio e la Svizzera. E l’ironia facile sull’assenza di governo in Belgio e sul collasso della Jugoslavia dovrebbe piuttosto convertirsi in riflessione seria: come mai da qualche decennio in Occidente (e solo in Occidente: basti pensare all’Indonesia, o all’India, che è un paese, dal punto di vista politico, ma è un vero continente in senso culturale e linguistico) sta tornando di moda l’idea che ci debba essere una sorta di omogeneità culturale per rendere credibile un’istituzione politica come lo stato? Cosa sta succedendo che ci sta facendo dimenticare la lezione delle due guerre mondiali, che con le loro devastazioni ci avrebbero almeno dovuto dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che qualunque progetto di uniformazione, di omogeneizzazione culturale non è la risposta ai drammi della modernità, ma una sua disastrosa conseguenza?

Egregio direttore, maneggiamo tutti concetti e problemi più grandi di noi, e quindi ognuno di noi ha il dovere di guardare con acume dentro le acque torbide del presente per trovare risposte ai dilemmi cui siamo di fronte. Pensare però che la colpa del disagio sociale nelle periferie sia da attribuire a un filosofo dandy e provocatore mi pare guardare nella pozza d’acqua sbagliata.
Il male di oggi è dovuto al fatto che le differenze si sfregano l’una contro l’altra sempre più da vicino. È facile essere tolleranti coi tagliatori di teste, fin quando se ne restano in Amazzonia e noi restiamo nei nostri tinelli del bergamasco. Molto più difficile, lo vediamo ogni giorno, sopportare il vicino macedone che cucina usando spezie sconosciute, che appestano la tromba delle scale. Ecco, invece di denunciare la morte di un progetto politico tollerante, di incolpare il sordido relativismo e di prospettare un ritorno alle prediche sui “nostri antenati Galli” da ammannire nelle scuole a bimbi di pelle scura e dai tratti sempre meno celtici, forse faremmo bene ad affacciarci alla porta del nostro vicino, con un nostro piatto (una ricetta tradizionale, mi raccomando) e fargliene dono cercando di capire che sapore potrà mai avere la pentola che bolle in casa sua.

Un caro saluto e un sincero complimento per l’inserto della domenica,
piero vereni