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venerdì 11 gennaio 2019

Cultura delle sicurezza (sicurezza della cultura, mejo)

Allora, la cosa comincia quest'estate, quando mi chiama il prorettore alla didattica del mio Ateneo (persona squisita per cortesia e modo) chiedendomi di partecipare a un workshop sulla "Cultura delle sicurezza" che si sarebbe dovuto tenere in autunno. Faccio notare che il tema non è esattamente nelle mie corde di antropologo, e che semmai potrei partecipare con la solita modalità "decostruttiva", e subito ho pensato a Purezza e pericolo, capolavoro di Mary Douglas come punto di partenza, vale a dire la sicurezza come risposta culturale alla percezione (parimenti culturale, creazione, quindi) del pericolo, incastrata nei concetti opposti di sporco/pulito e nelle loro controparti morali puro/impuro.
Quando mi hanno fatto capire che il workshop si sarebbe svolto nell'aula Moscati (vale a dire nell'aula di rappresentanza, il salotto buono della nostra facoltà) di Lettere a Tor Vergata, ma che l'audience sarebbe stata costituita prima di tutto da personale delle Forze dell'ordine e altro personale pubblico interessato professionalmente alla sicurezza, ho cominciato a capire che non sarebbe stata un'idea grandiosa, quella di partecipare.
Ho provato a defilarmi, dato che il workshop era stato posticipato in un paio di occasioni, accampando un po' di impegni veri e un po' di resistenze diplomatiche, ma il prorettore ha gentilmente insistito per avere la mia presenza.
Ora, mettetevi nei miei panni: parlare di sicurezza, non in quanto ingegnere o informatico o addetto a qualche forma di sicurezza, ma da antropologo, vale a dire da rompicoglioni professionista e patentato. Parlare di sicurezza di fronte alle "guardie", parlare di sicurezza di fronte a persone che da sei mesi sono alle dirette dipendenze di un signore che ha fatto della sicurezza il trono del suo successo, il pettine del suo pelo sullo stomaco, la sciabola della sua versione di Duro e Puro. Come potevo restare indifferente rispetto a questa succulenta occasione? Non ho resistito, in effetti. Per la prima metà del mio intervento, quella teorica, la platea (esausta da una mattina di relazioni, ero l'ultimo, la ciliegina sulla torta) era distratta e avrà capito ben poco. Ma appena l'espressione matteosalvini ha iniziato a comparire nel mio discorso, il silenzio si è fatto più denso, e a un certo punto avevo veramente un centinaio di occhi e d'orecchie che tagliavano lo spazio denso che si era creato tra la mia voce e la platea. Ho detto queste cose, se volete leggerle. Vi dico solo che il prorettore alla fine non è stato proprio entusiasta delle mie parole.