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martedì 22 gennaio 2019

Fare politica, fare scuola di politica


Ormai da diversi anni mi occupo di antropologia urbana, un trucco un po’ da imbonitori per dire che mi occupo di quel che mi pare a Roma, che è la città dove vivo da (ormai troppi) anni. In questo quadro, mi sono occupato di rappresentazioni mediatiche degli immigrati albanesi, di uomini del Bangladesh, di occupazioni a scopo abitativo e di uomini in carcere, ma non ho smesso di seguire le vicende dell’area balcanica (dove mi sono formato come antropologo professionista) o di provare ad aprire qualche pista ulteriore di riflessione nel campo dell’antropologia economica. Di fatto, vengo da una formazione di antropologia politica (identità etniche e nazionali in Macedonia, tensioni politiche e sociali sul confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda) che mi ha portato fuori dall’Italia, mentre l’antropologia urbana è stata vissuta come un ripiego una volta che gli impegni professionali (e ancor più quelli familiari) mi hanno tenuto ancorato alla Città Eterna: visto che sto qui, e non si schioda, meglio fare di necessità virtù e riciclare le mie competenze in nuove direzioni.
In realtà, questo strabismo tra antropologia politica e antropologia urbana dipende da un malinteso di cui sono stato vittima fino a quando la Scuola di politica “Confini al Centro” del polo ex Fienile non mi ha riportato alla radice etimologica del politico e dell’urbano, che è semanticamente la stessa, vale a dire lo spazio della città, le cose della città, i luoghi della città. Città intesa come correlativo oggettivo dell’esigenza di socialità dell’umano. Fare antropologia urbana e fare antropologia politica sono, dunque, esattamente la stessa cosa, una declinata in latino, l’altra in greco. Resta la comune sostanza: cercare di comprendere quali sono i concetti e i riferimenti valoriali che le persone usano e articolano per vivere il loro stare assieme, confliggere, cercarsi, respingersi, cooperare e competere.
Fare una “scuola di politica”, dunque, è un progetto necessariamente ancorato all’urbano, dato che fare politica (diversamente dalla guerra che è un puro agire) è l’articolazione di un discorso sulle forme possibili, perseguibili o deprecabili della vita associata (insieme = nella città come spazio comune). Fare politica è, dunque, prima di tutto, un parlare (con buona pace dei sostenitori della prassi) e parlare in un contesto educativo (scuola vuol dire quello) è ipso facto un’azione politica.
Chi può parlare, in una scuola di politica? Quelli della mia parte? I miei avversari? Persone non schierate? Scrupolosi osservatori oggettivi? Fanatici oltranzisti invasati? Per quel che mi riguarda, a una scuola partecipo perché ho bisogno di imparare, ed è più facile che io possa imparare se a insegnarmi sono – oltre che consolidati maestri che avranno ancora mille cose da insegnarmi che non so – anche persone da me ideologicamente lontane o addirittura avversari politici dichiarati. Da un sodale, da un vicino, posso imparare sempre tantissime cose se ha le risorse per farlo, ma da un avversario imparerò sempre e comunque, perché dovrò apprendere un modo per me inconsueto di individuare connessioni, di dare per scontate alcune cose e non altre, e di valorizzare cose e idee che per me, dentro il mio guscio, possono essere triviali finche non le vedo dalla prospettiva straniante impostami a uno sguardo molto diverso dal mio.
La Scuola di politica Confini al Centro ha questo intento, quindi: è una scuola di politica nel senso che non finge di essere super partes o di non avere una presa sul reale sociale, limitandosi a scrutarlo con lo sguardo asettico e disinfettato di un entomologo; ma è una scuola di politica anche perché accetta voci di ogni sorta, non pretende di orientare con la voce e il pensiero dei suoi relatori il pensiero di chi vi partecipa. Non sarà mai la singola lezione a caratterizzare la scuola di politica, ma solo l’articolato fluire delle lezioni costituisce una grammatica, una cassetta degli attrezzi dell’argomentazione politica. Chi cerca partiti presi, quadri impostati e posture ortodosse nella Scuola di politica Confini al Centro lasci perdere e segua piuttosto le scuole dei partiti politici (se ancora se ne fanno). Parimenti, stia alla larga dalla Scuola di politica chi vuole invece analisi “scientifiche” e “spassionate”, una scuola di scienza della politica che proprio non ci interessa e non ci riguarda.
Siamo una scuola di politica, e come in ogni scuola passiamo al setaccio le parole del vocabolario, tutte, quelle che ci piacciono, quelle che ci fanno innamorare, quelle che fanno schifo e, quando serve, perfino le parolacce.