Riporto qui di seguito una lettera che ho pensato per i miei
colleghi e le mie colleghe antropologhe. Visto che è molto lunga, i paragrafi
sono titolati in
brevi riassunti con questo
font e colore
che si possono leggere al posto dello sviluppo integrale.
Care colleghe, cari colleghi,
Perché scrivo questa
lettera: per rispondere a quanto detto da Ernesto Galli della Loggia sul Cds
del 10 gennaio 2020.
vi scrivo a seguito del breve editoriale del professor
Ernesto Galli della Loggia apparso sul CdS in data 10 gennaio 2020. Non entrerò,
almeno all’inizio di questo mio intervento, nel merito se l’etnocentrismo che
ci fa schifare i nigeriani “a causa del loro modo di fare”, i bengalesi per il
fastidio “dall’odore del cibo cucinato” o i rom per essere “sgradevolmente” nostri
vicini di casa si debba o non si debba considerare razzismo (ho però l’impressione
che Occam avrebbe gioco facile, se davvero entia non sunt multiplicanda
praeter necessitatem).
GdL nel suo editoriale
legittima l’etnocentrismo distinguendolo dal razzismo, ma il modo in cui lo fa
è tramite l’assunzione di un concetto del tutto erroneo di “cultura”
Da antropologo professionista, sono però particolarmente
preoccupato del modo in cui un peraltro fine intellettuale come il professor
Galli della Loggia si trovi a impiegare il concetto di cultura, proprio visto
che è lui stesso ad ammettere che “Le culture sono una cosa complicata e da
maneggiare con cura”. Se le parole ci impongono certe conseguenze di pensiero e
di azione, a me pare che GdL sia completamente fuori strada, dato che da un
lato ammette la complicatezza del concetto in linea di principio, ma poi nel
suo rapido argomentare riduce “la cultura” a una macchietta senza alcun valore
euristico.
La cosa grave in questa
legittimazione è che il concetto di cultura che usa viene preso da un testo del
1988 di Claude Lévi-Strauss, famosissimo antropologo allora ultra-ottantenne.
Il dramma, per noi antropologi, è che questo lavoro di banalizzazione
del concetto da parte di GdL è possibile facendo appello alla voce (per quanto
senile) dell’antropologo (ahimè) tuttora più famoso nella sfera pubblica
italiana, vale a dire quel Claude Lévi-Strauss che negli anni Sessanta del secolo
scorso (vale a dire sessanta anni fa, dico: sessanta) era in grado con le sue
riflessioni straordinarie e senza precedenti sul modo di pensare dei “selvaggi”
di imporre la nostra disciplina all’attenzione della filosofia, della semiotica,
degli studi letterari, dell’ermeneutica e financo della filosofia politica.
Temo che risalga a quell’epoca la frequentazione degli studi antropologici da
parte dell’allora studente universitario GdL, e in effetti è un tratto comune
di quella generazione far coincidere l’antropologia con lo strutturalismo e lo
strutturalismo con Lévi-Strauss (Lacan arriverà dopo, per quelli a cui arriverà).
Lévi-Strauss era stato
molto creativo tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma poi si era
progressivamente arroccato su posizioni politiche reazionarie pur mantenendo
presso il pubblico non specialista il prestigio che gli veniva dalla prima fase
della sua carriera.
Lèvi-Strauss è stato un autore così prolifico e così longevo
(morto ultracentenario nel 2009) che ha fatto in tempo a incarnare in sé e
nella sua scrittura le vette del pensiero occidentale prebellico e la crisi
morale e cognitiva del pensiero occidentale postbellico e postcoloniale. Il
vecchio Lévi-Strauss, quello ormai santificato nell’icona del professore dell’École pratique des hautes études che andava ogni mattina a prendere solitari appunti in biblioteca con il suo
quaderno fitto di note sotto il braccio, non ha mai accettato la forza dirompente
del giovane Lévi-Strauss (quello di Tristi tropici, della Forme elementari
della parentela e della trilogia mito-logica, vere vette del pensiero occidentale
e, direi, umano tout court) e si è poco alla volta rincantucciato in un conservatorismo
imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità
di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta. Un po’ come è successo
con altri personaggi pubblici, a Lévi-Strauss si dava parola (senza prestargli veramente ascolto) lasciandolo alla deriva del suo pensare sempre meno
originale e sempre più imbarazzante. So che molti non condivideranno questa
dicotomizzazione del grande francese (insistendo che il suo conservatorismo già
era evidente già da Tristi tropici; o che la sua vena innovativa e insofferente
del senso comune persiste fin negli ultimi scritti, divenendo solo più
evidente) ma vi prego di accettare questa mia semplificazione (il Lévi-Strauss che
piange sulle macerie dell’occidentalizzazione negli anni Cinquanta fa un
effetto ben diverso dall’elitista che molti anni dopo disprezza senza troppi
infingimenti gli immigrati in Francia, comunque la si pensi) per il mio argomentare,
che posso così sintetizzare: l’aura ultra-autorevole che Lévi-Strauss si era
giustamente guadagnata a cavallo dei Sessanta permane (“isteresi dell’habitus”,
sintetizzerebbe Bourdieu) anche quando lo strutturalismo giunge
epistemologicamente alla frutta, e quell’autorevolezza tracima sulle opere e le
parole dagli anni Ottanta in poi, parole e opere che sono invece piene di
corbellerie intellettuali.
Il testo di L-S citato da
GdL in effetti è solo una ripresa di concetti che l’antropologo francese aveva
già ampiamente presentato in un suo libro del 1983, Lo sguardo da lontano.
La conversazione con l’allora trentacinquenne Didier Eribon
che GdL usa come fonte è un sintomo del provincialismo con cui l’editoria e il
mondo intellettuale italiano già trattava l’antropologia, dato che venne urgentemente
tradotta nello stesso anno di pubblicazione dell’originale francese (1988), per
Rizzoli, senza che se ne comprenda il motivo intellettuale, dato che l’allora
già ottantenne Lévi-Strauss aveva sul tema poco da aggiungere a quanto aveva
detto compiutamente in un libro del 1983, Lo sguardo da lontano,
tradotto da Primo Levi nel 1984 per Einaudi.
GdL attribuisce quindi a un
testo minore di un autore decadente un prestigio eccessivo rispetto allo sviluppo
dell’antropologia culturale contemporanea.
Insomma, GdL prende come fonte della sua giustificazione
dell’etnocentrismo un piccolo esercizio di furbizia editoriale (che immagino
Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica), introdotto nel
frusto panorama del dibattito antropologico italiano solo per assecondare la
miopia del nostro mondo antropologico e di quello editoriale assieme. Essendo “il
nome” (cioè l’unico nome che gli editori sapevano di poter imporre all’attenzione
degli uffici stampa dei giornali, allora fulcro della popolarizzazione
culturale), Lévi-Strauss andava bene per tutte le stagioni, qualunque cosa
avesse detto, e comunque l’avesse detta.
Il testo originario da cui
deriva questa concezione nefasta della cultura (che finisce per legittimare l’etnocentrismo),
vale a dire Lo sguardo da lontano, era stato già ampiamente criticato in un
saggio dell’antropologo americano Clifford Geertz pubblicato nel 1986 e
intitolato Gli usi della diversità.
Il provincialismo, come si sa, è una brutta bestia in ogni
caso, ma diventa un mostro patetico se impugnato come strumento conoscitivo
dalla disciplina che si occupa professionalmente della diversità, e anche in
questo caso la lezione è confermata: mentre in Italia, nel 1988 si perdevano
tempo e denari a tradurre la minestra riscaldata di un vecchio maître à
penser ormai privo di qualunque scintilla intellettuale, dall’altra parte
dell’Atlantico, due anni prima, nel 1986, un certo Clifford Geertz (ancora
pochissimo noto in Italia, dato che la sua clamorosa raccolta di saggi del 1973
era stata tradotta dal Mulino solo nel 1987) si era preso la briga di fare i
conti con il testo di Lévi-Strauss del 1983, quello Sguardo da lontano
che già dal titolo marcava la postura conservatrice del pensatore francese.
Nel saggio “Gli usi della diversità” (tradotto in italiano
in due riviste prima di confluire nel bellissimo Antropologia e filosofia,
una raccolta che nella pur meritevole traduzione del Mulino ha perso la forza drammatica
del titolo originale, Available light), Geertz si confronta proprio con
il Lévi-Strauss dello Sguardo da lontano per scardinare la concezione di
“cultura” che il francese aveva impiegato, concezione che è esattamente la
stessa impiegata implicitamente, inavvertitamente quasi, da Ernesto Galli della
Loggia e che è la ragione fondamentale della fallacia del suo argomentare
para-politico. Ecco i passaggi in cui GdL impiega il termine “cultura”:
GdL nel suo editoriale usa
sempre una concezione del tutto “reificata” e antropomorfa di cultura, seguendo
la cattiva lezione di L-S. Ciò significa che “cultura” è pensata come se
corrispondesse a una cosa reale, dotata addirittura di stati d’animo e di
sentimenti.
1. Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una
cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla»
sulla base di…
2. Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle
culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une
per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita.
3. …se in metropolitana gli capita d’incontrare dei
giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale…
4. …un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di
una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la
nostra minoritaria.
5. …quando con atti o con parole ci si comporta verso chi
non condivide la nostra cultura in un modo che…
6. Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con
cura.
7. …la politica è sempre tentata di sfruttare,
esasperandolo, il dato culturale-identitario…
Si tratta, in tutti i casi, di concezioni reificate
della cultura e, tranne la 6, implicano un utilizzo completamente fuorviante
del glorioso concetto che sta alla base della nostra disciplina. In pratica, ogni
cultura è vista come un oggetto specifico, dotato di una sua natura interna e
di suoi confini esterni, come un bicchiere, una scarpa, una porta, un portafogli.
Questi oggetti si dispongono nello spazio estensivamente e ciascuno di essi non
solo è “posseduto” da alcuni e “non posseduto” da altri ma ha
contemporaneamente la curiosa caratteristica di avere stati d’animo e sentimenti
autonomi, al punto che “una cultura” può “provare ostilità” per un’altra oppure
alcune culture possono “rispettarsi” o sentire diversi “livelli di affinità”.
Questa idea di cultura
dotata di realtà quasi fisica e quasi soggettiva è raffigurata da L-S nell’immagine
delle “culture come treni” che corrono su binari diversi. Ognuno di noi, dice
L-S, sta dentro la sua cultura come fosse un vagone di un treno, e guarda dal
finestrino con poco interesse a treni che corrono in senso inverso al suo, e
che lo distraggono dalle sue meditazioni e dalla sua creatività. Al massimo può
provare un po’ di interesse per i treni che corrono nella sua stessa direzione
e dentro cui può sbirciare con più possibilità di scorgere qualcosa di sensato.
Per esemplificare al meglio questa concezione Lévi-Strauss nel
libro del 1983 propone forse la metafora più perniciosa che un antropologo
abbia mai elaborato per sintetizzare l’oggetto della sua disciplina, e cioè la scellerata
metafora dei treni.
Ognuno di noi, dice Lévi-Strauss, è come un passeggero
dentro il suo treno/cultura, intento a guardare il mondo dal finestrino dalla prospettiva
che gli è concessa dalla direzione specifica del suo treno. Se per caso sul binario
parallelo per qualche tratto si affianca un treno che va nella stessa direzione
e a una velocità paragonabile, ecco che possiamo affacciarci oltre il margine
di quell’altro finestrino, magari sbirciare rapidamente, incuriosirci, e forse,
addirittura, scambiare uno sguardo furtivo con la persona che occupa quello
scompartimento. Ma il più delle volte, insiste Lévi-Strauss, i treni altri
viaggiano in direzione opposta alla nostra, a velocità quindi negativa che non
può che suscitare disagio. Questi treni/culture che si muovono in direzione opposta
sono la maggior parte dei convogli in circolazione, e noi “ne ricaviamo
soltanto un’immagine confusa e fugace [tipo: modi di fare nigeriani, odori bangladesi,
vicini di casa addirittura rom], a stento identificabile, per lo più ridotta a
un puro oscuramento momentaneo del nostro campo visivo, che non ci fornisce
alcuna informazione su quanto avviene ma ci irrita soltanto, perché interrompe
la placida contemplazione del paesaggio che fa da sfondo ai nostri sogni a
occhi aperti”.
Immagino che GdL si senta perfettamente a suo agio dentro
questa concezione della cultura e in effetti la lista delle occorrenze di “cultura”
nel suo editoriale riportata più sopra conferma questa sensazione. La “presenza”
di una cultura diversa dalla propria è solo un vagone altrui che inopinatamente
confligge con il proprio, e il “dato culturale-identitario” che la politica (di
destra, dice lui, ma io proverei ad allargare l’orizzonte visivo) è pronta a
sfruttare è proprio questa concezione spaziale dell’identità, con le metafore
del “casa propria” e “casa altrui” che altro non sono che la versione sedentarizzata
dei treni di Lévi-Strauss: luoghi compatti e distinti.
Il problema della metafora
dei treni è che implica due qualità che le culture non hanno affatto, vale a
dire la distinzione nitida tra i diversi soggetti (due treni sono molto più
distinti di quanto non lo siano mai due culture) e la compattezza interna: il
treno di L-S sembra molto più omogeneo come composizione di quanto non siano in
realtà i treni reali e le culture reali. Le culture non sono fatte solo da
intellettuali maschi, colti, borghesi e raffinati come sono L-S e GdL (quella è
semmai la vecchia nozione di cultura come sapere delle élites), e sono composte
dal sapere di diverse classi, di diverse estrazioni, di diverse tradizioni: sul
treno di L-S, insomma, ci sono un sacco di diversità interne. Le culture non
sono internamente omogene, come non sono nettamente distinte le une dalle
altre.
Ecco, la compattezza interna (maschi anziani e solitari, intenti
a sognare ad occhi aperti) e la distinzione (i binari devono essere separati pena
il disastro) sono proprio le due caratteristiche che le culture studiate
dagli antropologi non hanno e non possono avere. Per quanto ci sia un
discorso culturale che istituisce confini semiotici (dopo Ethnic groups andboundaries ci siamo rassegnati alla natura semiotica del confine culturale,
vale a dire non oggettiva né oggettivabile) oggi l’antropologia culturale non
vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale”
in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che,
oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni
individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente
dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni.
La permeabilità inevitabile dei confini culturali non è
concepita nel modello culturale propugnato da GdL e purtroppo ereditato dalla
cattiva metafora dei treni. Se GdL può preoccuparsi che “la presenza di una
cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra
minoritaria” ciò è possibile solo a patto di pensare “la propria” come un blocco
uniforme quantificabile e passibile di “invasione”. Ma, tanto per dire, si può
essere italiani e musulmani? A quali condizioni essere musulmani istituisce “la
presenza di una cultura diversa”? Se sono nato e cresciuto in Italia, figlio di
italiani purosangue da tempo immemore, parlo perfettamente italiano e conosco
perfettamente “la cultura italiana” (qualunque cosa significhi) ma, poniamo, mi
sono convertito all’Islam, o al Buddhismo o qualche nuovo movimento religioso,
questo istituisce “la presenza di una cultura diversa”? Sì, no, perché? Sembra
che ci si possa definire “un ateo a diciotto carati, perfino un mangiapreti” eppure
includere questo nell’identità italiana (o europea), esattamente come farebbe
qualunque cattolico fervente (cioè l’opposto di un mangiapreti). Quindi si può
essere profondamente atei o profondamente credenti eppure appartenere alla
medesima cultura. Perché allora un musulmano istituirebbe una “presenza
culturale diversa”? Questione di “tradizione”? Quando inizia una tradizione? Se si tratta di stabilire chi è arrivato per primo, allora fanno bene i neo-musulmani
spagnoli che riscoprono la loro “vera tradizione religiosa” occultata dalle Reconquista
cattolica del Quindicesimo secolo? Se invece di vedere “le culture” come
pacchetti compatti e addirittura senzienti di pratiche e valori cominciamo a
sciogliere quell’intrico nelle sue componenti (le lingue naturali che parlo, i
linguaggi specialistici che ho appreso, quel che ritengo bello, quel che mi
attrae organoletticamente, le mie idee politiche, le mie idee sull’aldilà, ciò
che mi disgusta, ciò che mi eccita, eccetera, eccetera eccetera) ecco che “le
culture” magicamente smettono di avere opinioni, di provare sentimenti o di
essere attratte o indifferenti, e ci troviamo con gruppi, sottogruppi, classi,
frazioni di classe, e soprattutto individui, e trovare confini e binari diventa
un’operazione assurda, semplicemente perché non ci sono treni culturali che su quei
binari dovrebbero correre. Tra i miei studenti ci sono giovani coi dreadlock e
altri coi tatuaggi, alcuni portano piercing altri girano solo in giacca e cravatta,
alcune ragazze portano il hijab e altre si vestono come figlie dei fiori nel
terzo millennio. Io, veramente, non ho modo di stabilire “la loro cultura”
(cioè, secondo Lévi-Strauss e GdL, la loro nazionalità o origine etno-nazionale)
guardando a questi tratti, perché i tratti culturali non sono ereditati come il
colore gli occhi o la microcitemia, ma hanno la pessima abitudine (per chi
pensa alle culture come treni) di essere insieme ondivaghi e appiccicosi, di spostarsi
cioè con una rapidità che non ha paragone nel sistema della natura. Se GdL vede
le culture come entità separate e si preoccupa perché altre culture non condividono
la sua ciò avviene solo perché, come Lévi-Strauss, GdL si illude che la sua privata,
personale competenza coincida con la cultura del paese cui appartiene
legalmente. In quando intellettuale maschio, borghese, liberale e conservatore
(tutti tratti con cui mi identifico pure io, ci mancherebbe) GdL si illude che “la
cultura italiana” coincida col suo pensare e vedere, e quindi per lui (mangiapreti
ma lettore di Croce, ça va sans dire) un musulmano diventa “uno che non
condivide la nostra cultura” equivalente alla “presenza di una cultura diversa”.
L-S (e GdL che a lui si affida)
si illude che le culture siano distinte tra loro e omogenee all’interno perché cade
vittima del “nazionalismo metodologico”, vale a dire di un antico ma ancora in
parte persistente pregiudizio delle scienze sociali, che credono che gli
aggregati normali che studiano siano compatti al loro interno e nettamente
distinti dall’esterno.
Questo errore prospettico (illudersi che sia possibile
trovare un dentro e un fuori oggettivo delle culture, come fossero spazi
confinati) dipende da molteplici fattori ma qui mi limiterò a indicarne uno
solo, che GdF dovrebbe conoscere bene, vale a dire il “nazionalismometodologico”, con il che si definisce la stranissima (ma spiegabilissima in
termini storici) tendenza dell’analisi sociale a considerare pregiudizialmente i
propri oggetti collettivi di studio (le nazioni, i gruppi etnici, ma anche le
classi) distinti in modo molto più netto di quanto non lo siano nella realtà dei
fatti.
Il nazionalismo metodologico occulta poi il secondo, mastodontico,
errore che la “metafora dei treni” (cioè la concezione reificata della cultura)
porta con sé, è cioè l'illusione della compattezza interna delle culture a partire dalla generalizzazione di un caso singolo, tipicamente quello di chi parla; errore che possiamo vedere sia nelle parole di Lévi-Strauss, sia
in quelle dell’editoriale di GdL. Rileggete per un momento le parole con cui il
francese descrive il proprio treno: è un treno vuoto, o perlomeno è vuoto lo
scompartimento dove lui si trova. Il grande studioso è assorto, un po’ contempla
il paesaggio e un po’ quella contemplazione del paesaggio lo fa sognare a occhi
aperti, gli tiene attiva la creatività, vera dote delle culture secondo
lui, che un’eccessiva commistione induce a spegnere nella banalità della
condivisione. E rivedete come GdL ammette che le culture siano una cosa da
maneggiare con cura: lo fa con l’immagine di sé stesso, ateo a diciotto carati,
tuttavia sgomento di fronte all’incendio di Notre Dame de Paris. Bellissime
immagini, non è vero? In entrambi i casi intellettuali maschi avanti con gli
anni ponzano solitari sulle sorti della “loro cultura”.
In realtà, “le culture”
sono sempre state uno spazio di confronto della diversità e pretendere di farle
coincidere con la prospettiva univoca di qualche loro rappresentante specifico è
semplicemente sbagliato. Le culture non esistono come corpi compatti, armonici
e omogenei e la ricerca empirica ci dice che ogni individuo “contiene” tratti di
diverse culture e che ogni cultura è necessariamente composta da diverse
tradizioni. Le uniche culture “pure” sono le culture morte.
Peccato che questa concezione di cultura altro non sia che
la versione aggiornata all’individualismo tardo-capitalista della Cultura delle
élite contro cui si era sviluppato il concetto antropologico di cultura, che è
invece un bene non solo condiviso, ma frammentato, misto, e al suo interno
sempre variopinto e contraddittorio. Se mai esistesse un treno della cultura
francese, il povero pensatore assorto dovrebbe essere pronto a condividere i sedili
con sportivi come Zinedine Zidane, artisti machisti come Johnny Hallyday, rapper
omosessuali come Eddy de Pretto, con i tanti italiani naturalizzati, con i gilet
gialli e con mille altre sfaccettature rumorose e spesso in tensione dell’identità
e dell’appartenenza francese. Non ci sono treni che se ne vanno placidamente,
compattamente e armoniosamente verso il loro destino e quel che abbiamo piuttosto
sono trains de vie cacofonici e pacchiani, pieni di gente che parla a
voce alta, ascolta musica a volume fastidioso e mangia sbrodolandosi, ma certo
non si preoccupa del fastidio che può arrecare al grande pensatore assorto nel
loro compartimento. E se il pensatore è assorto di fronte a una cattedrale in
fiamme di cui non condivide più il senso (ma che pretende ancora gli appartenga
come eredità culturale) sappia che dovrà condividere quelle sue profonde
riflessioni con neo-tradizionalisti di ogni sorta, teocons e fondamentalisti
cattolici e islamici che sbraitano perché non c’è più la buona religione di una
volta e signora mia dove siamo andati a finire.
La posizione di GfL
legittima quindi un comportamento insano come il pregiudizio sulla falsa
premessa che sarebbe “naturale”. Mi domando se i medici applicassero alle
malattie lo stesso principio, che andrebbero cioè accettate perché “sono naturali”…
Ecco dunque che l’etnocentrismo, difeso da GdL brandendo un
consunto Lévi-Strauss, si può legittimare solo a patto di trattenere una
concezione della cultura come oggetto fisicamente delimitato e fondato su un
sistema operativo rigidamente proprietario condiviso interamente e solo dai “membri
di quella cultura”. Peccato che né l’una né l’altra di queste premesse
necessarie (le culture sono nettamente separate tra loro e prevalentemente
omogenee al loro interno) superi il vaglio della ricerca empirica.
Il professor Galli della Loggia ha compiuto quindi una
battaglia politicamente e culturalmente di retroguardia, fornendo apparenti
pezze di appoggio “scientifiche” (il “grande nome”: vorrete mica liquidare come
“conservatore” il maggior antropologo del Novecento?) a una visione del mondo
assai piccina. Provare fastidio per “il modo di fare” i nigeriani (ma veramente,
che modo di fare è?), per come puzza la cucina bangladese o per avere la sfortuna
di un vicino di casa rom sono tutti atteggiamenti comuni e diffusi, nel nostro
paese sempre più comuni e sempre più diffusi, così come sono diffusi e comuni il
meteorismo e l’alitosi tra coloro che non possono permettersi una dieta sana. Ma
un conto è accorgersi di un problema, prenderne atto insomma, un altro è
trasformare quel problema in un vanto perché “cosa c’è di più naturale?”.
Ma il motivo vero per cui
scrivo questa lettera è che noi antropologi e antropologhe italiani dobbiamo ammettere
che se perfino intellettuali raffinati usano così male il concetto di cultura ciò
è prima di tutto una nostra responsabilità: non siamo ancora in grado di
comunicare all’opinione pubblica la rilevanza della prospettiva antropologica per
una vera costruzione della cittadinanza nel mondo complesso in cui siamo
immersi.
Ma l’atteggiamento di GdL è anche il sintomo del fallimento
comunicativo della nostra disciplina. GdL è un intellettuale coi fiocchi, con
una lunga carriera universitaria e di commentatore pubblico. Se si è sentito legittimato
a citare un testo del tutto superato della nostra riflessione scientifica, e su
quella base rendere accettabile e condivisibile in quanto “naturale” il disprezzo
per la diversità, è perché non ha altre competenze in proposito, e questo è
solo colpa nostra, non certo sua, visto che è uno studioso della politica e non
un antropologo culturale. Dobbiamo quanto prima recuperare (o forse inventare) un
ruolo per le scienze sociali nella costruzione della cittadinanza attiva e
consapevole; l’antropologia culturale deve trovare spazio nella sfera pubblica e
abbiamo il dovere di popolarizzare una concezione di cultura assai più
complessa di quella che sembra oggi disponibile anche all’attuale classe
dirigente.
Nell’uso pubblico della nostra disciplina dobbiamo far
sentire la nostra voce, ricordare a tutti pubblicamente che una nozione reificata
di cultura è scientificamente errata e moralmente insostenibile, dato che
legittima non certo il razzismo, ma una pratica molto più banale e pervasiva,
vale a dire il sospetto sistematico e il pregiudizio. E dentro una società il
sospetto reciproco dilava e slabbra il tessuto sociale come nient’altro. Se vogliamo che
la nostra società sopravviva è importante che tutti, non solo GdL, capiscano
che è la capacità di produrre relazioni, non la specificità di questo o quel
contenuto culturale, che genera umanità e che consente ai gruppi umani di riprodursi
nel tempo. Cambiando, come è giusto. Cambiando, come è bello.