[Tutta la tiritera che segue
è orientata a introdurre la lettura di “Verso una teoria interpretativa
della cultura” di Clifford Geertz]
La teoria REFERENZIALE del significato è inadatta a spiegare la sostanza più
specificamente specifica del linguaggio umano.
La teoria DELL’USO invece sembra funzionare molto meglio. Il “secondo”
Wittgenstein è uno dei pensatori che più ci ha aiutato a capire che il
significato di un segno è nel suo uso, cioè nei modi “sensati” (appunto) in cui
possiamo usare quel segno, sia esso una parola, o un anello di matrimonio.
Abbiamo fatto l’esempio delle “cotolette di cane”
che solitamente qualcuno NON capisce non perché nel nostro contesto culturale è
“insensato” dire di aver mangiato cotolette di cane.
Nella Teoria Referenziale = il Significato somiglia
alla voce di DIZIONARIO;
Nella Teoria dell’uso = il Significato somiglia alla voce
di ENCICLOPEDIA.
La RETE di SEGNI è più di una metafora
Se ogni segno è composto di un significante e di un
significato, e ogni significato è di fatto una “connessione” con
altri segni, ecco che dal segno Cane devo agganciarmi (in Italia) alla
Amicizia, alla Fedeltà, alla Compagnia, che sono tutti Segni, ognuno dotato di
un Significante e di un Significato, e ogni segno a sua volta è agganciato ad
altri segni nella teoria dell’uso.
In Italia e in Corea le rispettive reti che
definiscono il segno “cane” sono molto poco sovrapposte, dato che in Corea il
segno ‘cane’ può essere associato ai segni del Cucinare e quindi la rete che
rende possibile l’uso sensato del segno ‘cane’ in Corea rende “sensata” anche l’espressione
“ieri ho mangiato cotolette di cane”.
Insomma, la RETE DEI SEGNI È
LA CULTURA, CULTURA È LA RETE DEI SEGNI e
per quanto qualcuno potrebbe (anche a buona ragione) contestare che la rete dei
segni NON CONCLUDE tutta la cultura, di certo ogni specifica società è dotata
di una rete condivisa di segni tra i suoi membri che ne costituisce l’ossatura
simbolica, e senza la quale non solo non esisterebbe comunicazione all’interno
di quella società ma anche per ogni individuo non ci sarebbe modo di sentirsi
tale, perché gli eventuali significati idiosincratici che fosse mai riuscito a
elaborare nella solitudine del suo cervello non avrebbero mai modo di uscire
fuori.
È questa consapevolezza che porta Clifford Geertz
a elaborare la sua concezione semiotica della cultura con l’immagine
dell’animale impigliato nelle reti di senso che egli stesso ha intessuto,
secondo la metafora di Max Weber.
Quindi, mentre le scienze sperimentali cercano CAUSE tramite la SPIEGAZIONE,
le scienze umane cercano
SIGNIFICATO tramite
l’INTERPRETAZIONE.
La PAREIDOLIA
è il modo più evidente di questa disposizione del nostro cervello animale trovare
significati anche dove non ce ne sono di intenzionali. Diciamo che l’antropologia
insegue questa disposizione degli umani non solo nella percezione visiva, ma nel
quadro generale dell’IMMAGINAZIONE: immaginiamo (oggetti, valori e
relazioni) sulla base di MODELLI che abbiamo già acquisito per altri
campi.
L’esempio dell’AMICIZIA che per noi non è
formalizzata ma per altre
culture lo è: studiare l’altrove ci consente non solo di riflettere sulle
regole culturali altre (to’, guarda che strani, quelli fanno un rituale
per stabilire formalmente che quello è un amico speciale e cominciano a chiamarlo
“fratello”) ma anche di riflettere sulle nostre regole culturali (siamo
sicuri che l’amicizia sia solo una relazione spontanea lasciata alla nostra
libera scelta? Guardate quanti diventano amici perché hanno figli nella stessa
scuola, e poi ripensateci).
Quindi l’antropologia insegue il significato
culturale, vale a dire il senso che “le cose” hanno nel contesto in
cui sono vissute e praticate. Cerchiamo insomma di raggiungere quella che Gilbert
Ryle ha definito una THICK DESCRIPTION,
una DESCRIZIONE DENSA, cioè una descrizione
di una situazione cercando di offrire il senso che vive l’attore sociale
dell’azione che stiamo analizzando. Se invece ci limitiamo a utilizzare la nostra
rete di significato (e non quella dell’attore sociale) otteniamo al
massimo una THIN DESCRIPTION, cioè una
descrizione che si sforza di essere “neutra” o “oggettiva” ma che
in realtà non riesce a cogliere il senso dell’azione per chi la sta compiendo e
impone su quell’azione le categorie dell’analista.
(46:00) Abbiamo ripreso l’esempio
dell’occhiolino contrapposto al tic
nervoso, che Geertz cita da Ryle, e ci abbiamo ricamato un po’ sopra.
Con un po’ di problemi di connessione, abbiamo cercato
di riflettere sul fatto che la thick description NON è una descrizione “più
accurata”, visto che può consistere di una sola parola (“battesimo”) per
chi la sa interpretare, e che la thin description NON è una descrizione superficiale
nel senso che sia “frettolosa”. Se non sapessi cos’è un battesimo in una
chiesa cattolica potrei andare avanti giorni raccontando tutti i dettagli
di questo strano posto con delle decorazioni alle pareti dove un uomo con un camicione
butta dell’acqua sulla fronte di un bimbo piccolo, ma la cura maniacale del
dettaglio della mia descrizione NON la renderebbe meno thin, dato
che la sua superficialità non sarebbe data dalla mancanza di precisione “oggettiva”,
ma dalla incapacità di “coglierne” il senso dal punto di vista dell’attore
sociale.
Uno degli esempi più chiari della differenza tra Thin
e Thick è quello (che rubo a Marshall Sahlins) dell’ACQUA BENEDETTA.
Cosa c’è di oggettivamente diverso tra acqua normale e acqua benedetta? Nulla,
ovviamente, e un chimico mi dirà che si tratta sempre della stessa
sostanza, ma se voglio capire la differenza devo vedere le cose dal punto di
vista del credente, che pensa che l’acqua benedetta abbia una qualità
spirituale, e possa essere taumaturgica.
(1:09:45) THIN E THICK SI SOVRAPPONGONO
A -ETIC e -EMIC, facendo però attenzione al fatto che “il punto di
vista del nativo” (che sarebbe l’-emic) non coincide esattamente con il senso
dell’azione consapevole dell’attore sociale. Il millepiedi non sa
come fa a camminare, ed è inutile, spesso, chiedergli come fa aspettandosi una risposta
coerente. Di fatto, l’antropologo lavora anche a livello del subconscio
culturale, cogliendo sensi che NON sono praticati consapevolmente dagli
attori sociali.
Tutto, questo, dicevamo, per introdurre il racconto
che Geertz ci farà del vecchio mercante ebreo Cohen.
Abbiamo concluso (1:20:00) con un TEST sul “SIGNIFICATO”.
Le ultime considerazioni (1:32:15) sono sulla fragilità
epistemologica dell’opposizione THIN/THICK (come di quella -etic/-emic):
diciamo che sono opposizioni di cui abbiamo bisogno come “limite” o come “obiettivo”
ma l’antropologa sul campo non può che aspirare a ricostruire il punto
di vista -emic o a produrre una thick description, ma questo lavoro di
ricostruzione sarà sempre incompleto (basta parlare con “un’altra persona ancora” e il
quadro può mutare).
Il punto insomma è che questa incompletezza della
nostra ricostruzione culturale è intrinseca e irrinunciabile.
Ho poi finito con un doppio appello di eventi al PEF –
Polo Ex Fienile, che però è andato completamente a vuoto… (anzi no, una ex studentessa
sabato è venuta a darci una mano a fare pacchi al PEF).