Tra
gli antropologi è rimasta famosa la storia di Richard Lee,
che negli anni Sessanta fece una ricerca tra i !Kung,
cacciatori e raccoglitori del Kalahari, e quindi avvezzi a un mondo di risorse
limitate. Per ingraziarseli, l’antropologo Lee aveva regalato al
gruppo !Kung con cui stava lavorando un grosso bue, ma l’accoglienza per
il dono fu piuttosto tiepida: “Ovviamente lo mangeremo – dissero – ma
non ci sazierà, lo mangeremo e torneremo a casa a dormire con lo stomaco che
brontola” (citato nel Manuale di Antropologia culturale di Marvin Harris,
p. 112).
Questa
strategia è veramente comune nel mondo intellettuale italiano e dipende, ne
sono convinto, da una versione immateriale della “cultura
della povertà” che considera perfino il mondo delle idee una risorsa
a disponibilità limitata, versione che si concretizza in gelosie e penose
rivalità, che puntano sempre al gioco al ribasso, fine ultimo
delle economie basate sulla concezione limitata dei beni (Il mondo anglosassone
ragiona invece sulla possibilità di intensificare la portata
ambientale del campo culturale, cosa che invoglia tutti a
lanciarsi in ipotesi anche azzardate, che possono essere confrontate e produrre
ricchezza culturale; ma questa pista di riflessione deve essere interrotta
qui per ragioni di spaziotempo).
Se
scrivo ALESSANDRO BARICCO in
lettere maiuscole è proprio per spingere chi legge a riflettere sulla sua prima
reazione alla vista di questa sequenza di lettere: spocchioso, ammerda,
snob, marchettaro, seevabbè, saccente, borghese, élitario, piemontesi falsi e
cortesi, e potrei andare avanti per ore. Questo giudizio, si badi bene, è correlato
direttamente alle presunte qualità intellettuali e livello culturale di colui
che giudica (tengo il maschile perché poi c’è un tono evidente di machismo
competitivo, che però, anche in questo caso, non posso approfondire),
per cui più è elevato il senso di sé e delle proprie qualità intellettuali (più,
insomma, ci si sente un competitor di Baricco in qualità di cacciatore
e raccoglitore di idee, e non ci si considera semplicemente uno del
villaggio che trae vantaggio dal lavoro dei cacciatori che tornano dalla
battuta e spartiscono la preda) e più sarà pesante l’azione di diminuzione
della bariccata in corso.
Prendiamo
la recente collaborazione di Baricco al Post
(il quotidiano online diretto da Luca Sofri, assieme a Avvenire l’unico giornale in lingua
italiana che ancora valga la pena di essere letto) e le reazioni che ha
suscitato.
Baricco
dice che il sapere odierno (che lui da anni etichetta come Novecentesco)
è inflessibile, specialistico, stanziale e razionale.
Non ho motivo di entrare nel merito delle riflessioni di Baricco, ma
quel che mi interessa sono due punti, e cioè (1) il contenuto di quel che dice,
la sua idea di fondo; e (2) la comune reazione degli intellettuali
alla pubblicazione del suo testo sul Post.
(1) Baricco sostiene che il sistema della conoscenza che abbiamo ereditato (filosofia di qua, matematica di là, letteratura di sopra, epigenetica di sotto, arte da una parte, fisica teorica dell'altra) non ce la fa più a spiegare il mondo in cui viviamo e prova a descrivere questa insoddisfazione di fondo per un sistema della conoscenza sempre più inadeguato. Novecentesco, per Baricco, è il rifugiarsi nei compartimenti già predisposti, che per esempio vorrebbero ancora le “scienze umanistiche” fare le mosche nocchiere delle scienze dure come nel peggior crocianesimo. E non si tratta di riflessioni per epistemologi disoccupati, ma per genitori con figli in età scolare, che sempre più perplessi si chiedono se la divisione elementari-medie-superiori si possa trascinare in questo modo, e se il sistema dei “licei” e degli “istituti tecnici” abbia alcun senso quando l’informatica (non parlo di usare Word o Chrome, ma di avere dimestichezza almeno con un linguaggio di programmazione) è ancora relegata in qualche istituto tecnico, e la capacità di usare i Big Data non è neppure concepita tra le cose che un adolescente dovrebbe studiare a scuola. Non tocco poi l’Università, perché lì le fossilizzazioni disciplinari sono talmente rigide e strutturate (guardate che fine fanno nei concorsi di abilitazione tutti i transdisciplinari e gli indisciplinati in generale) che non coltivo alcuna speranza per le prossime tre generazioni. Baricco insomma dice che non ha molto senso chiedere alla tradizione (sempiternamente composta di un lignaggio chiuso di maschi bianchi, barbuti e morti) di farci capire il mondo in cui viviamo. Che non è solo il mondo di internet (signora mia), ma anche quello della biologia evoluzionista (che sta devastando le scienze sociali, almeno quelle che provano a dialogarci); un mondo che non solo ha creato Facebook (orrore) ma sta squassando con l'epigenetica il nostro modo di concepire il rapporto mente/corpo e il dilemma nature/nurture; un mondo in cui non solo ci stanno gli influencer (oddio che schifo) ma anche i Big Data e gli archivi aperti che non sappiamo come insegnare a usare. Veramente pensiamo che saranno "lo specialismo" e "le scienze umane" a farci capire il mondo in cui viviamo? Veramente, mentre i fisici teorici diventano filosofi e citano Nagarjuna, oppure diventano antropologi e provano a raccontare l’origine dell’universo come fosse un mitologia per laici, pensiamo che valga la pena di mettere i sacchi di sabbia sulle mura delle nostre torri d’avorio?
(2) Parlo di torri d’avorio perché, purtroppo, questa è stata la risposta più puntuta e diretta alle sollecitazioni di Baricco. Invece di guardare il bue, di farci festa, il coro generale è stato: ma dai, Baricco, la scuola Holden, che palle, che assurdo, che schifo, che noia. Baricco è snob (e allora contestiamolo con lo snobismo dei “saperi tradizionali” da difendere; poi ditemi se questa tattica ci porterà mai da qualche parte, intellettualmente), si fanno le pulci al concetto di “razionalità” (guarda che il bue che ci regali ha le corna storte, tra l’altro), lo si accusa di essere borghese (e già questo basta a capire da che cantuccio del proprio tinello si guarda a un mondo in subbuglio totale).
Dagli al Baricco, al cacciatore che si vanta, che torna a casa e pretende di darci da mangiare le cose che ha cacciato lui. Poi finisce che non resta più nulla da cacciare per noialtri cacciatori, se questo continua a fare il gradasso in questo modo e a pretendere di occupare spazi che non gli competono. Ci siamo già noi insegnanti, filosofi, antropologi, storici, sociologi, psicologi, pedagogisti, economisti e giuristi, perché ’sto stronzetto non ricomincia a scrivere narrativa invece di impicciarsi?Nihil
sub sole novi,
ci mancherebbe (Umberto Eco ha subito la stessa sorte da quando ha scritto
il Nome della rosa), ma fa sempre un po’ di pena questo battibeccare tra nobili
decaduti, ecco. Ricorda lo stile dei matematici italiani del Cinquecento, che
facevano qualche scoperta clamorosa (come la soluzione delle equazioni di terzo
grado trovata da Scipione del
Ferro) ma poi la tenevano per sé fino alla morte, per paura di dare qualche
vantaggio a quelli che venivano percepiti come avversari, non colleghi.
Guardiamo all’etimo di queste due ultime parole, e avremo capito molto del
mondo intellettuale italiano.