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domenica 24 ottobre 2021

ETNOCENTRISMO E DIVERSITÀ (Lezione 08 REGISTRATA IL 20 10 2021)

 


Nei primi minuti della lezione abbiamo anticipato quel che dovremo dire sul ruolo del NAZIONALISMO nell’intensificare la convinzione (per altro indotta proprio dal nostro rapporto cognitivo con il mondo, per via della forma peculiarmente incompleta del nostro cervello e della sua capacità di relazionarsi con il mondo) che la CULTURA È CONDIVISA. Abbiamo detto che riprenderò questo punto importante con una lettura extra, connessa proprio alla lezione 06 (CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA) e che caricherò appena sarà pronta.

[MINUTO 05:46] Poi ho aggiunto un’ulteriore promessa, che cioè dovrò tornare sulla parte teorica del saggio di Geertz sulla THICK DESCRIPTION e proverò a trovare il tempo per discutere una lunga serie di slide che ho dedicato a quel saggio, così centrale per capire cosa sia diventata l’antropologia culturale come scienza del simbolico (dopo essere nata come scienza dell’altro e dell’altrove, una specie di scienza del primitivo e del rurale, come ricordate).

[MINUTO 07:50] Da questo punto inizia la presentazione del saggio Gli usi della diversità, un saggio molto importante che ho cercato di spiegare in dettaglio rispetto all’idea di fondo che lo sostiene, che è in sostanza che L’ETNOCENTRISMO non aiuta certo la convivenza, non HA ALCUNA LEGITTIMAZIONE MORALE e non è affatto un COMPORTAMENTO NATURALE. Dopo aver detto alcune cose sulla biografia di Geertz, parlo rapidamente [minuto 23:30] di un pezzo del mio blog in cui indirettamente mi sono trovato a citare questo saggio, in una polemica con ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, che in un suo editoriale sul Corriere della Sera del 20 gennaio 2020 aveva giustificato l’etnocentrismo (distinguendolo dal RAZZISMO) sulla base di un vecchio saggio di CLAUDE LÉVI-STRAUSS (il più influente antropologo del secondo dopoguerra) che proprio Geertz aveva criticato in questo saggio che stiamo per leggere. Ricopio qui di seguito una mia sintesi di molti anni fa, che so può essere utile per guidare la lettura (Faccio solo notare che i rimandi alle pagine si riferiscono all’edizione che qui commento e che non è la stessa, come impaginazione, di quella assegnata agli studenti e alle studentesse del corso, che dovranno semmai trovare le pagine corrispondenti nell’edizione a loro disposizione).

 

GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]

1) LE DUE STRADE DELL’ANTROPOLOGIA L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).

2) OMOGENEIZZAZIONE CULTURALE E LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro” è sbagliata].

3) CLAUDE LÉVI-STRAUSS: L’ETNOCENTRISMO È UN PRESERVATIVO NECESSARIO Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?

4) IMPERMÉABILITÉ COME UNA VIA D’USCITA TRA RELATIVISMO E ASSOLUTISMO L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss” (p. 75).

5) RICHARD RORTY: ABBIAMO BISOGNO DELL’ETNOCENTRISMO PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI COESIONE SOCIALE E SOLIDARIETÀ DI COMUNITÀ La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.

6) DIFFERENZE TRA QUESTI DUE MODI DI LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro, non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro  per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).

7) IL VERO PROBLEMA DELL’ETNOCENTRISMO: SOFFOCA L’IMMAGINAZIONE A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).

Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).

8) RIFIUTARE L’ETNOCENTRISMO SIGNIFICA IN PRIMA ISTANZA RICONOSCERE LA DIVERSITÀ ALL’INTERNO DELLE NOSTRE SOCIETÀ Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello” (Thomas Nagel, 1974 What it is like to be a bat?), immaginare cioè la diversità culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e pervasività diventa evidente

9) LINGUAGGIO, SOCIETÀ E RAPPRESENTAZIONI MONADICHE DELLE CULTURE Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.

10) LE CULTURE ERANO VERAMENTE PURE E LE SOCIETÀ VERAMENTE OMOGENEE PRIMA DELLA RECENTE IBRIDAZIONE? FORSE GEERTZ STA ESAGERANDO? In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale  nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.

11) UN APOLOGO DALLA MORALE INCERTA: L’INDIANO UBRIACONE E IL RENE ARTIFICIALE, OVVERO L’INCAPACITÀ DI IMMAGINARE L’ALTRO Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).

12) IL RUOLO DELL’ETNOGRAFIA NEL “COLMARE IL SALTO” DELLA DIVERSITÀ (O ALMENO NEL PROVARCI, NELL’IMMAGINARE LE POSSIBILITÀ DI RIEMPIRLO) Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da tempo i professionisti delle mentalità aliene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).

13) IL SAPERE ETNOGRAFICO È IMPORTANTE PERCHÉ IL RELATIVISMO (CHE PUÒ SENZ’ALTRO SORGERE DA QUEL SAPERE) È MOLTO MENO PERICOLOSO DELL’INDIFFERENZA ALLA DIVERSITÀ Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia, raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di reciproca comprensione tra le diversità.

14) CONCLUSIONI: L’ETNOGRAFIA È AL CONTEMPO UN’ESIGENZA SCIENTIFICA E MORALE DEI NOSTRI TEMPI Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89).

15) ESSERE ATTENTI AL DIVERSO È “INNATURALE” MA NECESSARIO. UN MANIFESTO DEL SAPERE SOCIO-ANTROPOLOGICO

Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.

Sunto

L’ETNOCENTRISMO, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci è alieno, senza negarlo, renderlo innocuo o ignorarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il sospetto in inimicizia.

 

[MINUTO 1:27:10] Per concludere in leggerezza, abbiamo fatto un piccolo test di verifica su alcuni temi (la cultura alta/bassa; cosa sia un oggetto tradizionale; in che senso la cultura è condivisa) con la piattaforma Mentimeter. Credo di non fare troppo danno se anticipo che il vincitore di questa gara è stato Magical Rhino…