Il 17 maggio 2022 ho postato il mio ultimo “commento su Fb”. Avevo letto (e mal me ne incolga) un post di un sedicente saccente con diverso seguito su Fb, che aveva pubblicato giorni fa l’ennesima tirata di mansplaining sulla questione Alpini. Con il tono di chi la sa lunga, aveva sintetizzato: “C'è uno stacco generazionale ingestibile, è tutto qua”. E a noi che non capiamo nulla aveva dato il suo spiegone, che si può sintetizzare in questo gap generazionale: noi ultracinquantenni capiamo le battute di Lino Banfi sulle forme di Edwige Fenech, di Gloria Guida, e quelli più piccoli si offendono. Prendiamone atto. Fine.
Non contento della nettezza di questa banalità, aveva
insistito su un aspetto preciso, che possiamo chiamare il “Punto dell’intenzione”.
Ecco i passi:
E
aggiungo, sempre a sfavore della mia generazione, che la colpa è tutta da
questa parte: se la società progredisce e si evolve non è che si possa
aspettare i ritardatari: se una ragazza percepisce come molesto qualcosa, è
molesto. Punto. Non ci sono distinguo da fare. Non è questione di intenzione
("ma volevo solo fare un complimento"), è questione di percezione e
fastidio altrui.
[…] Non
importa l'intenzione dell'emittente, importa il fastidio percepito, che
dovrebbe essere chiaro prima ancora di crearlo.
A parte la sicumera, su cui possiamo sorvolare per
umana pietà (per anni, sono stato un campione niente male di questo
atteggiamento, nella categoria “intellettuali frustrati”, so di cosa parlo), ho
trovato letteralmente inaccettabile un tale sprezzo verso l’intenzione
dell’agente sociale, che a me puzza da morire di totalitarismo.
Alquanto perplesso, e vedendo quanto il post sembrasse
attrarre letteralmente migliaia di like e moltissimi commenti, ho sentito di
dover replicare sul punto:
A mio modesto parere, il vero cambiamento culturale è
avvenuto quando abbiamo iniziato a dare credito come assiomatica a questa
perentoria asserzione: "non importa l'intenzione dell'emittente".
Scusate, ma in quale altra cultura questa affermazione è presa così
letteralmente? Questa affermazione implica la fine di qualunque progetto
comunicativo.
Il giorno dopo trovo questa risposta dell’autore del post
originario:
Piero Vereni Nei rapporti umani finalizzati al contatto,
emotivo e fisico. Che hanno bisogno di un consenso mostruoso, a differenza di
qualsiasi altro ambito relazionale e comunicativo.
In attesa dal dentista, avevo trovato questa risposta ancora
meno consistente (e molto più imbarazzante) del post che aveva suscitato
il mio commento. E avevo risposto di getto, compulsando le mie frasi in attesa
che l’anestesia facesse effetto. Le riporto qui (aggiungendo gli a capo per
maggior leggibilità) perché nel bailamme dei commenti sugli Alpini più o meno
bavosi è passata sicuramente inosservata
credo di non aver capito. Se fosse vero che
non importa l'intenzione dell'emittente solo nei rapporti affettivi,
allora ciò significherebbe che invece l'intenzione conta in quelli di altro
tipo, poniamo economici. Dunque, se voglio instaurare un contatto fisico
con X mi debbo disinteressare delle sue vere intenzioni mentre se voglio
comprare un'auto usata da Y allora dovrei tener conto delle intenzioni
di Y. Davvero i conti non mi tornano e mi trovo intrappolato in un sistema
socialmente paranoide e economicamente improponibile. Se poi
la norma "spingi al limite zero le intenzioni dell'emittente come
variabile in gioco" si applica in forma generalizzata nei contesti di
contatto fisico, il disastro si affaccia ben presto, se chi applica
quella norma ha più potere fisico.
Uno stupratore seriale potrebbe giustificare i
suoi atti dicendo che non contano le intenzioni delle sue vittime (lasciami
stare) ma la sua interpretazione dei loro enunciati come richiami
sessuali. Questa conseguenza incresciosa di un principio così spudoratamente
fallace si può risolvere solo introducendo la variabile Potere
nell'equazione e consentendo solo alle Vittime di imporre la norma in loro
difesa (caso Alpini, appunto: solo le intenzioni dei carnefici non
contano nulla, mentre contano quelle loro vittime). La questione è che
non c'è un criterio intrinseco né oggettivo per calcolare l'entità del potere
in una relazione umana e, per salvare dall'inconsistenza empirica
l'affermazione che le intenzioni non contano mai, si dovrebbe supporre un
universo di Tutti Carnefici, cosa logicamente impossibile (perché non si
saprebbe CHI mai sarebbero vittime). Il problema è quello classico del Derridismo,
una sorta di gioco d'azzardo del linguaggio per cui se perdi una mano raddoppi
la posta alla mano successiva (Agamben è campione mondiale della
specialità). Ma così, appunto, si riduce l'analisi sociale a un gioco
linguistico (che Wittgenstein mi perdoni) e la comprensione o anche
solo l'umana voglia di capire vanno a farsi benedire, travolte dal godimento
per la fallace furbesca retorica. Se si parte da assiomi falsi nella
loro assolutezza di assiomi (l'autore è morto; sapere è potere;
siamo in uno stato di eccezione; l'intenzione non conta) quel che
se ricava è al massimo aria fritta. Al peggio aria viziata.
Perle ai porci, certo. E duplice morale dell’apologo:
1. Nel mondo dei social non importa per nulla la consistenza
argomentativa di quel che si dice. È essenziale invece il cipiglio. Più fai
lo sbruffone, più ti daranno ascolto. E credito, anche se dici
non solo banalità, ma vere e proprie sciocchezze (ho fatto la scoperta, eh?).
2. Non commentare mai su Facebook. Mai più. Al
massimo un cuoricino e un saluto sotto il post con le frasi di Snoopy dello zio
lontano. Pubblica i post del tuo blog, e poi dimenticateli.