A
giugno 2025 sono stato invitato a presentare un power point (che trovate
nel video di questo post) al convegno LUISS su L’economia del
Giubileo, organizzato con coraggio e grazia da Kristina Stöckl e Rosario
Forlenza. Io ho fatto la mia parte portando una storia di periferia, di
madonne e di bus notturni: il Divino Amore.
Il
video che trovate qui è la presentazione dei contenuti principali del mio
saggio Becoming Roman at Divino Amore, che uscirà (salvo imprevisti, non
si sa mai) in una raccolta curata da Isabella Clough-Marinaro e Vanda
Wilcox per Routledge, dedicata alla Roma italiana dopo il
1870.
Il
cuore della questione è semplice: come si diventa romani senza
certificato di nascita, senza eredità toponomastica e senza nemmeno l’appoggio
di un barista che ti riconosca il caffè sospeso? Risposta: in processione.
Il
Santuario del Divino Amore sta in fondo alla Via Ardeatina, e se
ci siete stati, sapete che arrivarci è già una piccola Via Crucis. Ma è
proprio questa fatica fisica, questo “pregare con i piedi” (copyright Zapponi),
che ha trasformato il pellegrinaggio in qualcosa di più. Non è solo devozione:
è una forma di appartenenza urbana, un modo per dire “eccomi”, anche se
non hai ancora una casa popolare, un medico di base o la residenza in regola.
Negli
anni Trenta del Novecento, con l’arrivo di Don Umberto Terenzi, il
pellegrinaggio comincia a cambiare pelle. Da pellegrinaggio "dal qui domestico verso il lì sacro" si trasforma in processione collettiva che conferma l'appartenenza alla romanità con un percorso che diventa (con l'espansione urbanistica) sempre più dentro la città. È il
passaggio dal cercare il sacro altrove al portarlo qui, tra i
marciapiedi dissestati, i quartieri dormitorio e le madonnelle stradarole. Si crea un'idea di Roma come qui, uno spazio non più a disponibilità limitata.
La
mia tesi (che potete prendere o lasciare, ma nel dubbio guardate il video) è
che il Divino Amore funziona come una macchina di cittadinanza.
Una grammatica urbana dell’appartenenza che accoglie chi arriva,
ridisegna i confini tra centro e periferia, e costruisce una romanità che non
passa per gli uffici dell’anagrafe ma per i rosari multilingue sgranati
mentre si cammina.
Alla
fine, non si tratta di folklore. O almeno: non solo, se lo si intende nella sua
concezione ristretta. La processione è una coreografia civica, un rito
che “scrive” la città nei corpi di chi la attraversa. È urbanistica mistica,
sociologia dei calli ai piedi, teologia della fermata ATAC.
Insomma,
in questo saggio – e in questa presentazione – racconto come si diventa
romani senza documenti, ma con una bottiglietta d’acqua, la devozione per
Maria, e tanta voglia di camminare insieme.
(Per
tutto il resto c’è il video. E, se proprio l’argomento vi appassiona, la
pubblicazione Routledge quando uscirà.)