Pascal Boyer, che non è un nemico della critica sociale, ma neanche un chierichetto del poststrutturalismo, ha scritto qualche anno fa un saggio lucidissimo sulla condizione penosa dell’antropologia culturale. La tesi, detta con garbo accademico ma con la forza di una bastonata: non ci fila più nessuno. I giornali non ci citano, i politici non ci consultano, i cittadini non ci leggono. Gli antropologi culturali sono diventati, nel migliore dei casi, commentatori da margine, e nel peggiore, sacerdoti di culti autoreferenziali. La ragione? Hanno smesso di praticare i primi due modi possibili dell’indagine (la scienza e l’erudizione) per dedicarsi anima e corpo al terzo: le connessioni sorprendenti.
Intendiamoci: nulla di male, in teoria. Le connessioni
sorprendenti sono una forma d’arte: vedere l’amante di Shakespeare
come un colono dell’Impero, i tamburi dei padri omosessuali di Trinidad come
espressione del tardo capitalismo secondo Benjamin, il
fondamentalismo islamico come teatro rituale della fragilità dello Stato
moderno. Il problema – ci dice Boyer – è che queste connessioni
sorprendono sempre meno. In realtà, sorprendono solo l’ambiente stesso
che le produce, e mai quello che dovrebbe riceverne l’effetto: il pubblico.
Che, comprensibilmente, passa ad altro.
Nel frattempo, però, arriva Alfonso Berardinelli
sul Foglio, con un’aria un po’ stanca ma sempre nobile, e difende la
dignità dell’intellettuale come figura critica, osante, kantiana.
Chi osa, chi “pensa in pubblico”, chi ha il coraggio di uscire dalla specializzazione
per parlare del tutto. La sua è un’apologia della Kulturkritik,
quella nobile attività che da Baudelaire a Pasolini pretendeva di
dire “qualcosa di vero” sulla società tutta, non solo su una sua piega.
Ora, ci sarebbe quasi da commuoversi. Ma è proprio qui che si innesta il problema. Perché quella che Berardinelli chiama Kulturkritik, oggi, è divenuta in realtà un sottogenere delle connessioni sorprendenti: un modo di fingere il coraggio intellettuale mentre si praticano formule vuote, ripetitive e autoreferenziali. La connessione sorprendente è ormai la rima baciata di ogni saggio postilluminato: X (qualsiasi X) in realtà è una forma di Potere. X = Il Potere. Non importa se X è Barbie, la carbonara, i parrucchieri, il razzismo sistemico o l’allevamento intensivo delle capre tibetane. Basta usare parole come performativo, dispositivo, resistenza e il gioco è fatto. Ti danno pure una cattedra, se azzecchi il riferimento a Byung-Chul Han o, per i più visionari, a Yuk Hui, che è come dire: qui si ragiona di trasparenza pornografica o di cosmotecnica asiatica, mica di banali categorie eurocentriche.
Ma chi sorprende tutto questo? Non certo gli addetti
ai lavori, che ci sguazzano da trent’anni. E nemmeno il popolo, che
nel frattempo si è spostato su altri canali, più pratici o più polemici.
Questa “Kulturkritik delle connessioni sorprendenti” ha perso la sorpresa
e pure la critica. È diventata un esercizio di stile, uno sport
da club, una pantomima accademica. Si pretende di parlare “a nome
della società”, ma si parla sempre e solo al proprio simposio. Si finge
di “svelare” il potere, ma si è diventati il suo migliore alibi
simbolico, su cui lucrare per quanto possibile, come ci ha spiegato Musa
al-Gharbi parlandoci dei “capitalisti simbolici”. Si fa la mosca nocchiera,
ma si è solo una mosca fastidiosa che ronza nella stanza dove il carro non
passa più da tempo.
E allora viene quasi da rimpiangere la figura
dell’intellettuale che, se non altro, sapeva delle cose. Quello
che studiava davvero Aristotele, o il diritto romano, o la metrica
del latino medievale. Che magari non “osava” parlare di tutto, ma quando
parlava, almeno lo faceva da una posizione di conoscenza, non di spavalderia.
Che non si vergognava di essere erudito. E se era anche scienziato,
tanto meglio.
Ma oggi il terzo modo – quello delle connessioni
sorprendenti – ha fagocitato tutto. E si presenta con l’etichetta
della critica, della cultura, della consapevolezza, della giustizia.
È diventato un modo automatico di dire cose che sembrano intelligenti
anche quando non lo sono. Il meccanismo si ripete: prendi un fenomeno
marginale, associagli un Autore Nobile, inquadralo in una genealogia
di potere, condisci con lamentele sulla “narrazione dominante” e
voilà: hai prodotto un altro contributo al pensiero critico che non critica
nulla. E non spiega nulla.
Questo, a ben vedere, non è solo un problema epistemologico.
È anche – e forse soprattutto – un problema morale. Perché si finge un
atto di verità mentre si fa solo spettacolo simbolico. E si
confonde, come accade ormai sistematicamente, il dominio con il prestigio,
il potere con la reputazione, il comando con la stima.
Si riduce tutto all’etichetta generica e minacciosa del “Potere”,
secondo l’eterna scorciatoia foucaultiana che permette di non
distinguere tra chi opprime e chi è solo stimato. Così anche l’accademico
con la poltrona, il budget, la visibilità e lo stipendio,
si convince di essere un dissidente perseguitato, perché osa criticare
lo “sguardo normativo”. È l’ultimo lusso del capitale simbolico:
essere riconosciuto proprio perché ti dichiari nemico del
riconoscimento.
Ma di questo – promesso – parleremo un’altra volta.
Quando sarà il momento di rileggere Joe Henrich. Che, almeno, le cose le studia sul serio.
Riferimenti:
Berardinelli, Alfonso. 2025. Meditate, intellettuali: dovete
osare, non potete essere solo degli esperti. Il Foglio, 19 luglio,
p. 2.
Boyer, Pascal. 2012. «From Studious Irrelevancy to
Consilient Knowledge: Modes of Scholarship and Cultural Anthropology». In Creating consilience: integrating the sciences and the humanities,
a cura di Edward Slingerland e Mark Collard, pp. 113-129. Oxford University
Press.
Gharbi, Musa al-. 2024. We Have Never Been Woke:
The Cultural Contradictions of a New Elite. Princeton University Press.
Henrich, Joseph Patrick. 2016. The secret of our
success: how culture is driving human evolution, domesticating our species, and
making us smarter. Princeton University Press.