Se ieri abbiamo provato a ripercorrere le radici storiche e politiche della crisi attuale in Medio Oriente, oggi voglio spostare lo sguardo su una lente interpretativa meno frequentata: la distinzione tedesca tra Kultur e Zivilisation — traducibile, con tutte le cautele del caso, come Cultura e Civiltà. Questa opposizione, resa celebre da autori come Oswald Spengler e Thomas Mann, non è soltanto un esercizio erudito, ma può funzionare come una griglia analitica capace di far emergere le contraddizioni profonde del discorso occidentale sul conflitto israelo-palestinese.
In questo schema, Kultur è
il radicamento organico di un popolo nella
propria forma
di vita, la coerenza interiore di un’identità che
si difende; Zivilisation è
la forma alta e impersonale dell’universale, la
razionalità tecnica,
la regolazione astratta delle differenze.
Per una certa parte del sostegno occidentale
alla causa palestinese, la Kultur palestinese è un bene in sé. È
radice, autenticità, resistenza organica a un ordine globale alieno:
islamica, anticoloniale, orgogliosamente altra rispetto
all’universalismo occidentale. Dall’altra parte, Israele è visto come Zivilisation
pura: tecnocrazia oppressiva, astrazione universale che schiaccia
le differenze.
Il problema comincia quando la Kultur
ebraica, religiosa o comunitaria, si manifesta. Allora, di colpo,
non è più “autenticità” ma “regresso”. Non è più “identità resistente”
ma “integralismo”. Qui scatta il doppio standard: la Kultur
palestinese è celebrata; la Kultur ebraica è respinta.
E la Zivilisation? Qui non c’è
doppio standard: per la Civiltà, Israele è condannato in
partenza. Viene percepito come l’incarnazione della forma più “astratta” e
“violenta” di Civiltà: quella occidentale, bianca, capitalista, tecnologica.
In questa visione, non c’è distinzione tra Tel Aviv e Wall Street, tra
un laboratorio israeliano e la City di Londra: è tutto lo stesso
“Occidente” da respingere. Tanto che persino i movimenti LGBTQI,
che nulla conoscono della Kultur palestinese, si allineano con
essa non per affinità culturale, ma per ostilità verso la Civiltà
occidentale, accusata di non saper neppure rappresentare la condizione
trans o queer se non nei termini del suo stesso “astrattismo” tecnologico.
Questo doppio standard sulla Kultur,
e la condanna monolitica della Zivilisation, non sono solo vizi
del giudizio politico: strutturano il modo stesso in cui si parla
della questione. Entrano nelle immagini, nei titoli, nelle metafore.
Producono un immaginario dove Kultur è libertà solo se appartiene
a chi ci piace, e Civiltà è oppressione sempre, se a
esercitarla sono i nostri nemici ideologici.
In fondo, se fosse una partita a Risiko,
la mappa sarebbe già chiara: i Palestinesi, popolo di Kultur,
resterebbero a difendere l’ultimo lembo di identità con fionde e metafore;
gli Ebrei, popolo di Civiltà, dovrebbero presentarsi con cravatta
e brevetto depositato, chiedendo scusa prima di tutto per essere così maledettamente occidentali e poi, una seconda volta, scusa se ancora pretendono di avere una storia.
Poi, certo, la partita vera si gioca altrove, ma fa comodo a molti che
resti una di quelle sfide dove uno vince solo se l’altro si dimentica di
esistere.