Da che parte sta l’antropologia?

Ho letto l’articolo di Enrico Bucci sul Foglio contro il “pluralismo” sanitario, e devo dire che lì dentro c’è un rigore che noi antropologi abbiamo smarrito da un pezzo. Bucci mette in fila una tesi semplice: se confondi il pluralismo politico (quello che dà rappresentanza a interessi e valori diversi) con il pluralismo scientifico (quello che filtra le ipotesi attraverso verificabilità, falsificabilità, trasparenza), hai già perso la bussola. Ti ritrovi al tavolo tecnico i sostenitori della biodinamica, i novax, i seguaci di Vannoni o dell’omeopatia, e chiami tutto questo “pluralismo”. Ma non è democrazia, è arbitrio.

Ora, il punto che mi interessa non è tanto la sanità pubblica (pure cruciale), ma la domanda: da che parte stanno gli antropologi? Perché negli ultimi trent’anni, la disciplina si è imbarcata in una crociata epistemologica che l’ha portata esattamente nella trappola descritta da Bucci.

Da un lato il relativismo cognitivo della svolta ontologica: il mondo non è uno ma tanti, e ogni cosmologia vale come un’altra (grazie Viveiros de Castro). Dall’altro il costruttivismo linguistico: la realtà come performance, come produzione discorsiva (grazie Judith Butler). Due maledizioni, che hanno reso l’antropologia allergica al principio elementare che regge la scienza: cause ed effetti, azioni e conseguenze, ipotesi e verifiche.

Se tutto è ontologia, allora anche i terrapiattisti hanno diritto alla loro cosmologia. Se tutto è performance, allora anche “i vaccini causano autismo” è un discorso valido quanto “i vaccini prevengono le epidemie”. E così l’antropologia, in nome del pensiero critico, si trova spesso a fare da copertura culturale a ciò che altro non è se non vellicare il ventre della bestia irragionevole.

Negli Stati Uniti questa deriva ha avuto il suo nome ufficiale: alternative facts. Il caso ACIP, la rimozione dei comitati di esperti, le nomine politiche gradite agli antivaccinisti: non era più questione di prove, ma di “fiducia pubblica”. In Italia, la vicenda Nitag è stata lo stesso: esponenti politici che invocano il pluralismo non per alzare l’asticella delle evidenze, ma per abbassarla fino a includere anche chi nega la scienza.

E l’antropologia? Spesso la disciplina si è trovata dalla parte sbagliata, a legittimare tutto in nome di “sensibilità diverse”, a scambiare la critica del potere con la sospensione del giudizio sui fatti. È così che la disciplina si è trasformata da scienza sociale di cura in tribuna di opinioni equivalenti.

L’argomentazione di Bucci, invece, è lineare:

  • pluralismo politico e pluralismo scientifico sono due cose diverse;
  • confonderli vuol dire far saltare il filtro della prova;
  • far saltare il filtro vuol dire dare diritto di cittadinanza a ipotesi già falsificate;
  • questo produce stallo, indebolimento, arbitrio;
  • la democrazia non diventa più forte, ma più fragile.

L’antropologia, se resta intrappolata nella sua ragnatela di rapporti di potere, non fa altro che rafforzare questo arbitrio. Non prende più parte alla verifica dei fatti, ma si schiera con chi vuole dissolvere i fatti in narrazione. È la via maestra verso l’irrilevanza, e, peggio ancora, verso la complicità con le peggiori derive: no-vax, pseudoscienze, complottismi.

Non è più una domanda che possiamo scansare, tanto più in un periodo storico in cui – per tutt’altri motivi – all’antropologia viene intimato di “prendere parte” nei conflitti schierandosi tutta compatta: da che parte sta l’antropologia? Dalla parte dei fatti misurabili o dalla parte delle chiacchiere performative? Perché, se la risposta è la seconda, tanto vale iscriverci tutti al prossimo festival del terrapiattismo: lì almeno si mangia bene e ci si diverte di più.