Il mostro della miniera

 


Il post sugli Stati autoritari che si stanno mangiando la libertà delle università occidentali ha suscitato qualche lieve dissenso nel passaggio su Facebook. Niente di male, ordinaria amministrazione, anche se ho fatto la sciocchezza di leggerli, i primi commenti completamente fuori fuoco, e pure di commentarne qualcuno. Parlavo di doppio standard sul dual use [eh, ho fatto le scuole alte] e da cosa mi sono trovato a difendermi? Dall'accusa di essere un "sostenitore del genocido", ma guarda un po'. Il riflesso condizionato del genocidio (parola svuotata dai suoi stessi propugnatori) ha alzato il vespaio dei miei nemici e pure quello dei miei amici, tra commenti, messenger, mail, e whatsapp. Intendiamoci, tutta roba banalissima, ma un poco di rodimento mi è venuto, a un certo punto.

C’è una cosa, in effetti, che non mi torna, anzi due.
La prima: perché mai io dovrei “capire il punto di vista” di chi, come NISO TOM, mi scrive che il mio destino naturale è la miniera? Non un corso serale, non un campo scout: proprio la miniera, coi topi e la lanterna a carburo. Lì, a espiare le mie colpe da “sionista frustrato”. Una condanna biblica, alla maniera dei comunardi di Charleroi.

La seconda cosa che non capisco è come mai, mentre Niso Tom mi augura di cacarmi in mano e di prendermi a schiaffi “due alla volta in faccia”, i miei amici veri si esercitano in pubblico sulla mia autopsia morale. Ivana, buona, mi diagnostica le “contorsioni mentali e intellettuali” con la compassione della vecchia zia: “un tempo era un bravo ragazzo, adesso non lo riconosco più…”. Marco, invece, sfodera il bisturi del clinico e scopre in me la categoria della ripugnanza. Non fastidio, non dissenso, non più rabbia: proprio ripugnanza. Io, come un avanzo di frigorifero dimenticato.

E la scena diventa irresistibile: mentre l’energumeno esprime il suo “disgusto più estremo” e urla che sono un “cancro della contemporaneità”, Marco e Ivana si stringono la mano sopra la mia bara morale e commentano a mezza voce: “Poveretto, era un tempo simpatico, ma adesso è ripugnante… chissà se soffre?”. Una veglia funebre digitale con tanto di ceri virtuali.

Ora, io avrò pure le mie idee, sbagliate o giuste che siano. Ma almeno ho libri, argomenti, dati, lavoro. Non ho schifo da esporre in pubblico. La mostrificazione, invece, è il contrario dell’argomentare: è il gesto più comodo. Se l’altro è un mostro, non serve rispondere, basta fare la faccia nauseata.

E allora mi viene il sospetto: non è che divento ripugnante perché dico fesserie, ma perché tocco nervi scoperti? Forse la ripugnanza è solo la scorciatoia di chi non vuole ammettere che certe cose che dico sono difficili da smontare.

In ogni caso, ho deciso: i messaggi di Niso, le diagnosi di Ivana e soprattutto il certificato morale di Marco li farò stampare su tela, incorniciare e appendere all’ingresso di casa, tra lo specchio e l’attaccapanni. Così, ogni volta che entrerà qualcuno, potrà scegliere se lasciarsi accompagnare in cucina da un “sionista frustrato”, in salotto da un “ripugnante” o in bagno da un “cancro della contemporaneità”. Una galleria grottesca di orrori, più preziosa di qualunque laurea.