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giovedì 14 agosto 2025

Paladini in saldo: l’elmo è opzionale, la posa obbligatoria


 Ieri mattina, mentre la radio mi faceva compagnia tra un caffè e l’altro, ho sentito una notizia che mi ha fatto sorridere e un po’ riflettere. In qualche commissione parlamentare, forse proprio sulla giustizia, un esponente dei Cinque Stelle si è improvvisamente riscoperto paladino dei diritti dei detenuti, lamentandosi perché il ministro voleva “minimizzare” la drammaticità dei suicidi in carcere.

E io, tra un sorso e l’altro, ho pensato: ma guarda che strano! Proprio loro, i giustizialisti di un tempo, adesso vestono l’armatura dei difensori dei carcerati. Poi mi è venuta l’illuminazione: no, non è cambiato niente, è solo cambiato il copione. Non importa tanto quale sia la causa, l’importante è potersi fregiare del titolo di paladino. Paladino dei diritti, della giustizia, della libertà, dell’ambiente: un po’ come scegliere il mantello del giorno. E in questo gioco, ovviamente, la civetta di Minerva arriva sempre a farci notare che l’eroismo classico è tramontato, ma l’eroismo da talk show è più vivo che mai.

E a proposito di mantelli e cavalieri, viene da chiedersi se questa ansia di indossare l’elmo del ProPalladino non abbia qualcosa a che fare con il modo in cui, da questa parte del mondo, si reagisce ai conflitti e alle ingiustizie globali. Perché poi, a ben vedere, non sono mai le guerre più sanguinose, né le repressioni più sistematiche, a scatenare il fervore militante delle masse indignate. No, la mobilitazione morale si accende quando è facile scegliere da che parte stare, quando il nemico ha il profilo giusto, magari con una spruzzata di fascismo vintage, se possibile un accenno di nazismo, giusto per semplificare lo storytelling.

Se invece lo sterminio avviene tra stati-Sfinge o regimi BohCheNeSo, con lingue impronunciabili e mappe in 4:3, allora il pathos latita. A chi verrebbe mai in mente di andarsi davvero a informare? Di distinguere torti e ragioni, quando il bene e il male non stanno più come nei giochi per bambini? Vuoi mettere com’era più semplice ai tempi del Vietnam? O quando volevano mettere i missili a Comiso? O l’acqua pubblica? O Mani Pulite? Erano cause con didascalie chiare, slogan cantabili, ruoli assegnati. C’erano i buoni, i cattivi, i firmatari, i cortei.

Il ProPalladino, oggi come allora, vuole vincere facile. Cerca un palco più che un campo di battaglia. Vuole la gloria morale, ma senza complicazioni cognitive. Non come quella persona preoccupata, silenziosa, che prova a capire, che sa che dentro le vite – e le guerre – il bene e il male si confondono spesso. Ma quella persona, si sa, non fa audience. E non si vede bene in foto.

In fondo, come ci ricorda Ernest Becker nel suo libro più noto, Il rifiuto della morte, l’essere umano è l’unico animale che sa di dover morire, e per questo è anche l’unico costretto a inventarsi ogni giorno un senso che gli permetta di non impazzire. La cultura – dice Becker – è prima di tutto un meccanismo di difesa, una gigantesca costruzione simbolica con cui proviamo a illuderci di non essere solo carne destinata a marcire. Ma se una volta questa funzione difensiva era affidata all’eroismo classico – morire sul campo, immolarsi per la patria, lasciare un nome inciso nella pietra – oggi che nessuno muore più da eroe (purtroppo o per fortuna, fate voi), resta solo la scena. E allora, eccoli qua i nuovi eroi: paladini prêt-à-porter, pronti a salire in sella a una causa qualsiasi, basta che ci sia la possibilità di sventolare un vessillo e guadagnarsi un po’ di immortalità riflessa sotto forma di like, retweet o articoli d’opinione.

Non conta la causa, conta il ruolo che ti permette di giocare. Non importa neppure che i cattivi siano davvero malvagi: basta che sembrino abbastanza brutti da poterli denunciare senza troppe sfumature. L'importante è poter dire: io c'ero, io combattevo dalla parte giusta. Anche se l'arma era una story su Instagram e il nemico una rappresentazione caricaturale del Male. Così si continua a esorcizzare la morte, ma in saldo.

Insomma, alla fine quel che conta non è tanto la causa, quanto l’occasione di impersonarla. La bandiera può anche cambiare, purché resti saldo il gesto con cui la si sventola. C’è qualcosa, in questa disponibilità instancabile a prendere posizione, che somiglia più a un passatempo identitario che a un autentico impegno. Ma forse è proprio questo il punto: non difendere qualcosa, ma mettersi in scena mentre lo si fa. E infatti i paladini non mancano mai. Cambiano i nemici, cambiano gli slogan, ma loro restano, sempre pronti. E possibilmente in favore di camera.