Il recente libro di Sarah McLaughlin, Authoritarians in the Academy, offre uno spaccato prezioso di come i regimi autoritari stiano penetrando nei campus occidentali. Non è retorica da Guerra fredda: sono episodi concreti. Studenti cinesi negli Stati Uniti minacciati di ritorsioni sulle famiglie in patria se osano commemorare Tienanmen; poster critici contro Pechino rimossi per “non creare tensioni”; persino la George Washington University che aveva minacciato di identificare chi aveva osato affiggere quei manifesti di protesta contro la dittatura cinese.
Non va meglio nei campus satellite
aperti in paesi autoritari. La Georgetown University in Qatar ha
cancellato eventi per timore che discutere di libertà di espressione religiosa
o diritti LGBT fosse in contrasto con le leggi locali. McLaughlin mostra
come in questi contesti sia impossibile capire se a decidere siano i dirigenti
del college o il governo ospitante: la censura preventiva è ormai parte
integrante del contratto.
In questo scenario di minacce e
autocensure, gli studenti internazionali percepiscono chiaramente che l’università
non li proteggerà. Qualche rara eccezione – come la Purdue University
che difese un suo studente sotto attacco da coetanei cinesi – non basta a
cancellare il quadro: la regola è il silenzio complice.
Il paradosso è che, mentre accade tutto
questo, i campus occidentali continuano a scaldarsi sull’incubo politico di
Israele. Come ho argomentato in un saggio che dovrebbe essere pubblicato a
breve, Israele viene rappresentato negli ambienti universitari come il solo Stato
oppressore, unico destinatario legittimo di campagne di boicottaggio
accademico. La Cina, al contrario, pur accusata di crimini contro l’umanità
nello Xinjiang, continua a firmare accordi con politecnici e università
europee, comprese istituzioni italiane che vantano partnership con i cosiddetti
Seven Sons of National Defence, direttamente collegati al complesso
militare-industriale di Pechino.
Doppio standard,
e proprio sul dual use, dunque. Nel caso palestinese, militanza attiva,
petizioni, dichiarazioni collettive, fino alla chiusura di riviste a colleghi
israeliani. Nel caso uiguro, la postura è opposta: analisi tecniche, convegni
specializzati, e una cautela estrema nel formulare giudizi. La stessa
antropologia che invoca il boicottaggio degli atenei israeliani preferisce
scrivere paper sulla “complessità epistemologica” del caso cinese, limitandosi
a constatare che “il giudizio è difficile”.
McLaughlin aggiunge un tassello decisivo:
la tecnologia della sorveglianza. Durante la pandemia, le università
hanno spostato attività e lezioni su piattaforme come Zoom, che non
hanno alcun vincolo di libertà accademica. Gli studenti di Hong Kong, dopo la
National Security Law del 2020, sapevano che ogni parola poteva essere registrata
e usata contro di loro. Invece di creare spazi protetti, i campus hanno
normalizzato la logica del controllo digitale, senza porsi il problema
che quella scelta accelerava l’importazione di meccanismi autoritari
dentro l’università.
Ed eccoci al cuore della questione: mentre
l’accademia occidentale si mobilita contro Israele, accusato di praticare il dual
use, chiude entrambi gli occhi davanti al fatto che quasi tutte le
università cinesi operano in strettissima connessione con lo Stato e con l’apparato
militare. Se valesse lo stesso criterio usato contro Israele, dovremmo
interrompere subito decine di partnership, ma nessuno osa proporlo.
Perché Israele è percepito come parte del nostro Occidente, e quindi
come tradimento interno da stigmatizzare; la Cina, invece, è l’Altro esterno,
di cui ci si limita a registrare la brutalità con linguaggio neutro,
senza mai trasformarla in mobilitazione politica.
Il risultato è che la selettività
morale diventa un criterio epistemico. Non studiamo più i fenomeni
per come sono, ma per quello che rappresentano nel nostro immaginario
politico. Israele è il capro espiatorio perfetto: bianco, democratico,
occidentale, quindi “ipocrita”. La Cina è la sfinge che opprime:
distante, aliena, dunque “non scandalosa”.
Il rischio è evidente: l’università non è
più un luogo di ricerca della verità, ma un palcoscenico dove si recita
la parte del moralismo anti-occidentale, pronto a denunciare il
“nostro” peccato originale e al tempo stesso a inchinarsi ai
finanziatori stranieri. McLaughlin lo mostra con dati e casi concreti; io ho
cercato di metterne in luce la genealogia culturale. La sintesi è semplice: se
le scienze sociali scelgono le vittime in base alla convenienza simbolica,
allora non stiamo più facendo ricerca. Stiamo
solo producendo ideologia.
