So bene che, in questo momento storico (chi ha orecchie per intendere, intenda), non sembra accettabile una eccessiva teorizzazione della sofferenza umana che si registra a Gaza. Razionalizzare il dolore, darne una cornice teorica, rischia di sembrare un modo per rimuoverlo. Ma per me resta sempre importante che si possano offrire strumenti di comprensione: non solo per orientarsi nel senso degli eventi, ma anche per individuare le cause, lontane e vicine.
Proprio per questo, devo ringraziare Andrea
Graziosi, che sul Foglio del 5 agosto 2025 ha pubblicato
un’analisi limpida e incisiva delle radici storiche e politiche della
crisi attuale. È grazie al suo pezzo che ho anche scoperto il lavoro di Izabella
Tabarovsky sul ruolo dell’Unione Sovietica nel riscrivere il
sionismo come una forma di imperialismo e colonialismo, un
passaggio fondamentale per capire le origini dell’attuale retorica anti-israeliana.
Ecco allora, riformulate in forma più didascalica,
le cause che Graziosi ha elencato, e che ritengo essenziali per orientarsi:
§ Per
cominciare: lo Stato palestinese non nasce nel ’48 non per caso,
ma perché i governi arabi lo rifiutano. Non volevano, allora come oggi,
che accanto a loro ci fosse una struttura politica autonoma che potesse
intralciare i loro calcoli.
§ Subito
dopo: quei profughi palestinesi non li accoglie nessuno tra i vicini arabi.
Restano nei campi per generazioni, mentre Israele assorbe in pochi anni un
numero quasi equivalente di ebrei espulsi da Damasco, dal Cairo, da Baghdad.
§ Intanto,
sul piano internazionale, il diritto si fa moralista. Dopo il
’48, e ancor più dagli anni ’80, si preferisce condannare a parole
piuttosto che intervenire sui fatti.
§ Negli
anni ’60, la voce dell’URSS si mescola a quella del mondo comunista:
slogan su imperialismo, “coloni” e “liberazione nazionale” che oggi ci
suonano familiari, ma che allora arrivavano da Mosca e dai suoi satelliti.
§ Le
Nazioni Unite alimentano il problema rifugiati, mantenendo agenzie
e budget, senza mai spingere per una soluzione reale. Qui contano anche
le inerzie burocratiche.
§ Dentro
Israele, dalla fine dei ’70, cresce il peso della destra e dell’estrema
destra. Un peso che diventa veleno, condizionando la strategia e l’immaginario
del paese.
§ Sul
fronte palestinese, l’Olp commette un errore storico: rifiuta Oslo
nel 1993 e le proposte di Clinton nel 2000, bollate come una nuova Versailles
da intellettuali di culto come Edward Said.
§ Poi,
la mossa di Sharon: consegnare Gaza a Hamas per colpire l’Olp.
Una decisione che oggi appare come un’autostrada verso la crisi attuale.
§ In
parallelo, Teheran costruisce un asse politico e militare,
infilando la sua influenza nella questione palestinese.
§ Sul
versante israeliano, Netanyahu accumula errori e abusi, mentre
una parte dei coloni mostra pulsioni che si possono definire senza
timore genocidarie.
§ A
Washington, Trump aggiunge il suo irrealismo, muovendo le pedine
senza una reale strategia per la regione.
§ E,
come se non bastasse, la sinistra moralista occidentale riduce tutto a
uno schema binario: palestinesi uguale Gaza, israeliani uguale
estremisti e coloni. Hamas scompare dal quadro, così come i
conflitti interni sia palestinesi sia israeliani. I paesi arabi, di
fatto oggi alleati di Israele, restano lontani dalla causa palestinese.
A questa lista va aggiunto un punto che
raramente si affronta, per timore di essere accusati di islamofobia:
un punto che andrebbe posto in cima, dato che affronta le ragioni della prima
contrarietà dei paesi arabi. Gaza e Cisgiordania, dal 1948 al 1967,
erano in mani egiziane e giordane, ma nessuno ha mai prospettato
l’esistenza di una Palestina. Il rifiuto della risoluzione 181
del novembre 1947 non nasceva dall’assenza di uno Stato arabo-palestinese (che
era previsto), ma dall’inaccettabile — per il mondo arabo-islamico —
possibilità che esistesse uno Stato ebraico. Questo è il punto
zero, e non ci sarà mai sufficiente zelo
butleriano nel distinguere tra Judaism, Jewishness e Zionism
per dar conto del pregiudizio antiebraico dell’islam.
Per questo ho voluto dividere questo ragionamento
in due parti. Qui, il contesto e le cause. Domani, nel prossimo pezzo,
proverò a spiegare l’antisionismo occidentale come “sistema culturale”,
una scheggia apparentemente marginale dell’Occidente che, usata come
filtro di lettura, rivela molto sulla sua composizione simbolica
e sulla sua strutturazione morale. In realtà ho materiale per un
articolo “vero”, ma preferisco intanto un assaggio su questo canale, che mi permette
velocità senza eccessivi rimorsi.
E, promesso, sarà anche l’occasione per
fare un po’ di ginnastica concettuale distinguendo tra “cultura” e
“civiltà” senza fare troppi inchini a vecchi tedeschi.