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lunedì 11 agosto 2025

Prima di dire “genocidio”


So bene che, in questo momento storico (chi ha orecchie per intendere, intenda), non sembra accettabile una eccessiva teorizzazione della sofferenza umana che si registra a Gaza. Razionalizzare il dolore, darne una cornice teorica, rischia di sembrare un modo per rimuoverlo. Ma per me resta sempre importante che si possano offrire strumenti di comprensione: non solo per orientarsi nel senso degli eventi, ma anche per individuare le cause, lontane e vicine.

Proprio per questo, devo ringraziare Andrea Graziosi, che sul Foglio del 5 agosto 2025 ha pubblicato un’analisi limpida e incisiva delle radici storiche e politiche della crisi attuale. È grazie al suo pezzo che ho anche scoperto il lavoro di Izabella Tabarovsky sul ruolo dell’Unione Sovietica nel riscrivere il sionismo come una forma di imperialismo e colonialismo, un passaggio fondamentale per capire le origini dell’attuale retorica anti-israeliana.

Ecco allora, riformulate in forma più didascalica, le cause che Graziosi ha elencato, e che ritengo essenziali per orientarsi:

§  Per cominciare: lo Stato palestinese non nasce nel ’48 non per caso, ma perché i governi arabi lo rifiutano. Non volevano, allora come oggi, che accanto a loro ci fosse una struttura politica autonoma che potesse intralciare i loro calcoli.

§  Subito dopo: quei profughi palestinesi non li accoglie nessuno tra i vicini arabi. Restano nei campi per generazioni, mentre Israele assorbe in pochi anni un numero quasi equivalente di ebrei espulsi da Damasco, dal Cairo, da Baghdad.

§  Intanto, sul piano internazionale, il diritto si fa moralista. Dopo il ’48, e ancor più dagli anni ’80, si preferisce condannare a parole piuttosto che intervenire sui fatti.

§  Negli anni ’60, la voce dell’URSS si mescola a quella del mondo comunista: slogan su imperialismo, “coloni” e “liberazione nazionale” che oggi ci suonano familiari, ma che allora arrivavano da Mosca e dai suoi satelliti.

§  Le Nazioni Unite alimentano il problema rifugiati, mantenendo agenzie e budget, senza mai spingere per una soluzione reale. Qui contano anche le inerzie burocratiche.

§  Dentro Israele, dalla fine dei ’70, cresce il peso della destra e dell’estrema destra. Un peso che diventa veleno, condizionando la strategia e l’immaginario del paese.

§  Sul fronte palestinese, l’Olp commette un errore storico: rifiuta Oslo nel 1993 e le proposte di Clinton nel 2000, bollate come una nuova Versailles da intellettuali di culto come Edward Said.

§  Poi, la mossa di Sharon: consegnare Gaza a Hamas per colpire l’Olp. Una decisione che oggi appare come un’autostrada verso la crisi attuale.

§  In parallelo, Teheran costruisce un asse politico e militare, infilando la sua influenza nella questione palestinese.

§  Sul versante israeliano, Netanyahu accumula errori e abusi, mentre una parte dei coloni mostra pulsioni che si possono definire senza timore genocidarie.

§  A Washington, Trump aggiunge il suo irrealismo, muovendo le pedine senza una reale strategia per la regione.

§  E, come se non bastasse, la sinistra moralista occidentale riduce tutto a uno schema binario: palestinesi uguale Gaza, israeliani uguale estremisti e coloni. Hamas scompare dal quadro, così come i conflitti interni sia palestinesi sia israeliani. I paesi arabi, di fatto oggi alleati di Israele, restano lontani dalla causa palestinese.

A questa lista va aggiunto un punto che raramente si affronta, per timore di essere accusati di islamofobia: un punto che andrebbe posto in cima, dato che affronta le ragioni della prima contrarietà dei paesi arabi. Gaza e Cisgiordania, dal 1948 al 1967, erano in mani egiziane e giordane, ma nessuno ha mai prospettato l’esistenza di una Palestina. Il rifiuto della risoluzione 181 del novembre 1947 non nasceva dall’assenza di uno Stato arabo-palestinese (che era previsto), ma dall’inaccettabile — per il mondo arabo-islamico — possibilità che esistesse uno Stato ebraico. Questo è il punto zero, e non ci sarà mai sufficiente zelo butleriano nel distinguere tra Judaism, Jewishness e Zionism per dar conto del pregiudizio antiebraico dell’islam.

Per questo ho voluto dividere questo ragionamento in due parti. Qui, il contesto e le cause. Domani, nel prossimo pezzo, proverò a spiegare l’antisionismo occidentale come “sistema culturale”, una scheggia apparentemente marginale dell’Occidente che, usata come filtro di lettura, rivela molto sulla sua composizione simbolica e sulla sua strutturazione morale. In realtà ho materiale per un articolo “vero”, ma preferisco intanto un assaggio su questo canale, che mi permette velocità senza eccessivi rimorsi.

E, promesso, sarà anche l’occasione per fare un po’ di ginnastica concettuale distinguendo tra “cultura” e “civiltà” senza fare troppi inchini a vecchi tedeschi.