Nell’estate 2020, tra un lockdown e l’altro, cercavo conforto nella poesia. Billy Collins è stato un amico, poco loquace ma onesto, rispettoso dei miei silenzi quanto io dei suoi. Lo struggimento di una sua poesia notturna mi aveva spinto a tradurla:
e fossi seduto al
buio
sul bordo del
letto
alle cinque del
mattino,
mi potrei chiedere che cosa ci fa
la luce accesa nel
mio studio a quest’ora,
eppure eccomi alla
mia scrivania
nel mio studio a
chiedermi la stessa identica cosa.
So che non dovevo
alzarmi così presto
per aprire con un
coltellino
i pacchi di
giornali all’edicola
come potrebbe
pensare l’uomo della casa di fronte.
È ovvio che non
sono un agricoltore o un lattaio.
E non sono l’uomo
della casa di fronte
che siede al buio
perché sonno
è sua madre e lui
uno dei suoi tanti orfani.
Forse sono sveglio
solo per ascoltare
il tenue stridulo
tintinnio,
del tungsteno
nell’unica lampadina
che ha lo stesso
suono del fruscio degli alberi.
O il mio compito è
solo quello di stare seduto immobile
come il bicchiere
d’acqua sul comodino
dell’uomo della
casa di fronte,
immobile con la
fotografia di mia moglie in cornice?
Ma ecco il primo
uccello che consegna il suo canto,
ed ecco il motivo
del mio essere in piedi:
per catturare la
canzone di tre note di quell’uccello
e aspettare ora
assieme a lui una risposta.
Quella
poesia, in quegli stessi giorni, aveva ispirato questa mia, in una sorta di dialogo
a distanza:
4:44
c’è stato un
periodo, lungo di tre anni
in cui mi
svegliavo prima delle cinque
spesso alle
quattro e quarantaquattro
tormentato dal
fantasma di un amico morto.
un conoscente del
mio stabile
con il balcone
quasi di fronte al mio
maltrattato dalla
prostata si alzava nella notte
e vedeva la luce
del mio studio accesa.
una volta,
gettando l’immondizia
ci siamo
incontrati nel cortile del palazzo
lui col suo cane,
minuscolo e nervoso
io con le occhiaie
ed il mio sguardo stanco.
ti vedo la
mattina, lo vedo che lavori
ma come fai, io
non potrei mai
lavorare così
duro, tanto più col cervello
quando facevo il
cartolaio e vendevo
sigarette e
francobolli, certo che aprivo presto
ma lasciavo il
cervello a casa, non ne avevo bisogno.
mi alzo perché mi
tocca, mica è una scelta vera
mi tocca questo
amico, lui non mi lascia stare
mi devo mettere a
studiare
le cose che lui
non ha finito
di leggere e di
fare.
sono passati anni,
e ora dormo meglio
ma è vero che
ancora ogni tanto
qualcosa o
qualcuno mi sveglia nella notte
e un dovere
doloroso mi solleva dal cuscino.
l’alba ancora è
lontana,
il sonno se ne va
senza aspettarla
e io preparo il
mio caffè
come fosse una
medicina
che mette in fila
i miei pensieri stanchi
passandoli in
rassegna, controllando i dettagli.
ma non come un
sergente che ispeziona la truppa
piuttosto come un
amico
che non vedi da
troppo tempo
che con un sorriso
da fratello ti abbraccia
facendoti notare
che sei un poco ingrassato
e che dovresti
trovare una soluzione
per quel tuo
improbabile taglio di capelli.
Sono
passati cinque anni abbondanti, e non avevo allora il minimo sentore che
la poesia di Billy Collins fosse una profezia: ora, da quasi due anni, io
vivo nella casa di fronte a me. E non mi chiedo più che ci fa la luce
accesa nel mio studio alle cinque del mattino. Lo so, cosa ci fa.