Il dibattito come spazio civile

Il momento in cui ho capito che c’era qualcosa di profondamente sbagliato  nella prospettiva transgender è stato quando gli attivisti hanno iniziato a far circolare l’hashtag #nodebate assieme allo slogan “A trans woman is a woman”. Non mi ha colpito tanto il contenuto in sé – l’idea che un maschio adulto della nostra specie debba essere considerato automaticamente donna perché si “sente” tale, come se la naturale fluidità del genere percepito potesse modificare l’oggettiva fisicità del sesso congenito – quanto l’indisponibilità al confronto. Quel “non se ne parla” mi è sembrato arrogante, ingiusto, fascista. Il mio istinto democratico, dialettale e liberale (in senso anglosassone, da John Stuart Mill), mi ha spinto a dire: ma lèvate. E da lì ho cominciato a leggere, ragionare, prendere appunti.

Per me il dibattito è la forma più alta della convivenza civile: lo spazio in cui il conflitto di idee viene incanalato in regole che escludono la violenza fisica. Proprio per questo, a Rebibbia sto cercando di lanciare una school of debate, dopo un progetto di due anni fa in cui avevamo discusso del senso della giustizia con le persone detenute. Stavolta sono in attesa dell’autorizzazione a insegnare alle persone detenute come si dibatte: non portando la violenza dei corpi, ma la forza intellettuale delle argomentazioni. Per me è un progetto essenziale, perché risponde a tre livelli: al mio lavoro di antropologo, che vedo come strumento di ricostruzione del tessuto sociale e non solo di decostruzione del potere; al mio ruolo civico, che mi obbliga a contribuire al miglioramento della comunità cui appartengo; e a una necessità morale, quella di praticare la libertà di parola come bene condiviso.

Ecco perché mi ha fatto tanta impressione un articolo del Post scritto per inquadrare il contesto culturale in cui è stato ammazzato l’attivista americano Charlie Kirk. In quel pezzo il dibattito viene di fatto presentato come una pratica violenta in sé. Non si critica tanto il contenuto delle idee di Kirk, quanto il formato stesso dei suoi incontri. L’articolo dice che nei suoi dibattiti non c’era ascolto reciproco né riconoscimento delle ragioni altrui, ma che “il formato di dibattiti nei campus che Kirk portava in giro premia la sopraffazione e l’annientamento degli avversari, obiettivo inseguito prevalentemente attraverso furbizie dialettiche e più raramente con la sostanza degli argomenti”. E, citando il New Yorker, il Post aggiunge: “L’obiettivo non è informare o istruire, ascoltare o elaborare, costruire o ragionare, ma vincere, dominare, schiacciare, produrre un argomento di tale devastante perentorietà da poter considerare la questione chiusa, una volta per tutte”.

Insomma, ciò che per me era la forza del debate – la possibilità di difendere anche idee radicali con strumenti non violenti – per il Post diventa il segno della sua natura intrinsecamente aggressiva. Il risultato è che il debate viene delegittimato come se fosse una forma di “violenza simbolica” più grave e più intollerabile di quella fisica. Ma questo è un rovesciamento folle: il dibattito è nato storicamente proprio per sostituire lo scontro fisico con la competizione delle idee. Considerarlo violento significa confondere le categorie, e soprattutto significa dare cittadinanza alla logica intollerante e fascistoide del #nodebate.

Kirk non era solo un conservatore: era prima di tutto un cristiano convinto. Ed è proprio questo, temo, il punto che spaventa la sinistra contemporanea, anche quella moderata del Post. Una sinistra che sembra aver sposato la logica del #nodebate: invece di confrontarsi, si ritrae, accusa il dibattito stesso di essere una forma di violenza.

Perché? Forse perché nel dibattito non prevale il “più debole” in nome di un principio astratto di giustizia. Prevale chi ha più conoscenze, più logica, più prontezza. E oggi queste qualità vengono bollate come “privilegi”, strumenti dell’oppressione. In un mondo in cui la decostruzione è legittima solo in una direzione (contro il Potere, contro gli Oppressori, sempre in nome delle Vittime), il dibattito diventa pericoloso: rischia di mettere a nudo la pochezza teorica e morale di molte idee ritenute “giuste”. Meglio evitarlo, meglio dichiararlo tossico, meglio ripararsi dietro lo slogan.

Ed è così che la sinistra, abbandonando il terreno del dibattito, si consegna all’irrilevanza e al dogmatismo. Rinuncia allo strumento stesso che permette alla democrazia di respirare.

E qui la mia delusione è tutta per il Post. Perché se anche il giornale che parla ai giovani progressisti in Italia accetta la logica del no debate, allora vuol dire che siamo messi male. No Martini, no party. No debate, no truth.